BANCO DEL MUTUO SOCCORSO, L’OPERA PROG DI UN NUOVO UMANESIMO

«Se definiamo follia il tentativo di dare più dignità possibile alla voglia di conoscere l’anima umana, spero di essere il più folle di tutti.»

Mi sorprende ancora una volta Vittorio Nocenzi, condividendo una riflessione su Alda Merini. Un pensiero che si allarga a macchia d’olio, fino a diventare l’espressione artistica di un uomo nato libero, come riafferma energicamente il terzo album della band, disco che poi è stato l’incubatrice di “Transiberiana”. Un lavoro certosino di musica e parole, in cui si rimette in moto tutto il mondo del Banco del Mutuo Soccorso: il racconto, l’idealismo, la scelta di stare dalla parte del bene contro il male.

In un confronto a dir poco arricchente, da rimanere incantati al suono delle parole adamantine usate, con la semplicità dei saggi, dal leader carismatico del Banco, Vittorio Nocenzi mi trasmette l’essenza di un gruppo che “è un progetto di vita e di espressione artistica… Un approccio che si basa sulla voglia di scommettere sempre sulla ricerca, per evitare il banale, ma senza per questo cadere nel luogo comune dell’originalità a tutti i costi”.

A ragione la bibbia mondiale del rock progressivo titola “Il ritorno trionfale dei maestri italiani” e comincia con “Italian is better”. Il prodotto italiano è migliore quando chi lo produce e chi lo fruisce si incontrano lungo quella consapevolezza sociale che recuperi e difenda i valori della solidarietà, dell’equità, del rispetto, del coraggio, dell’umanità. Quell’umanità disposta ad affrontare un nuovo cambiamento epocale, allo scopo di rimettere al centro la straordinaria unicità dell’individuo.

Con la speranza che il testo proposto incontri anche il gusto di uno dei maggiori esponenti della genialità del Novecento, la redazione di Musica Intorno è onorata di dedicare a Vittorio Nocenzi e alla sua gente il titolo dell’intervista: Banco del Mutuo Soccorso, l’opera prog di un nuovo umanesimo.

Il Banco del Mutuo Soccorso torna alla ribalta con un eccezionale progetto discografico fatto di persone, che danno continuità alla storia e agli ideali di un gruppo che rappresenta la storia del prog in Italia. Vittorio, ci racconteresti la band?

«È ovvio che, quando suoniamo dal vivo, il pensiero corre a Rodolfo e a Francesco. Ma la cosa che mi ha dato la forza di far ripartire quest’avventura è stato il forte convincimento che, una volta imbracciati gli strumenti, la gente che li ha amati sarà felice di continuare a sentirli vivi con noi sul palco. La band è un gruppo di persone umanamente meravigliose, perché hanno portato un amore e un rispetto per la storia del Banco e nei miei confronti, che è a dir poco commovente. Sono venuti tutti molto motivati e consapevoli che li aspettava un gran lavoro da fare, e ne è uscita fuori una formazione fortissima. C’è Fabio Moresco, il batterista, che ha un cuore come una capanna, e, quando suona, scalda così tanto il nostro repertorio, che sembra ci sia sempre stato. Marco Capozi ha una voce di basso etnico che mi entusiasma: piena, potente e molto focale. Ed è fondamentale perché il basso lega il ritmo e l’armonia, due elementi imprescindibili. Se parliamo di melodia, arriva la voce: Tony D’Alessio. Lui aveva, agli occhi dei fans e della critica, l’eredità più pesante. Il frontman di una band è colui che caratterizza il gruppo e si espone ai confronti e ai commenti immediati. Con il suo bel talento, quella potenza vocale impressionante e la capacità di modulare i timbri usati per riscaldare, interpretare e scavare il significato delle parole, ha superato l’esame a pieni voti e con la lode accademica. Tony aveva un gruppo, parallelo al Banco, con Filippo Macheggiani, chitarrista che sta con noi ormai da venticinque anni. In questa nuova avventura del Banco del Mutuo Soccorso, Filippo è un compagno centrale nella mia attività. Ha suonato le chitarre come non gli era mai capitato prima…

In questo disco sono presenti degli assoli talmente belli, che, negli arrangiamenti, li ho fatti diventare degli obbligati a due, chitarra e organo Hammond. Ispirati. Quando li senti partire, ti accorgi che l’Hammond va all’unisono con la chitarra. Non sono più assoli, ma duetti obbligati! E poi c’è tutta quella ricerca dei suoni (che impreziosisce un album, che è un piccolo gioiello, N.d.R.). Lo stesso dicasi per Nicola Di Già. Le chitarre hanno espresso quella parte di rabbia che avevo forte dentro, è un suono di cui avevo bisogno. Mi era sembrato un po’ un accanimento quello che ha coinvolto la band negli ultimi cinque anni. A febbraio la scomparsa di Francesco, a fine luglio c’ho provato io, emorragia cerebrale e coma, e a ottobre Rodolfo. Ho adoperato le chitarre per sparare a tutto quello che avevo dentro e per riuscire ad esorcizzarlo. Ne è venuta fuori questa alchimia strana che fa di “Transiberiana” un grande lavoro, con una gestazione durata un anno e cinque mesi – tanto abbiamo impiegato a registrarla, scriverla, arrangiarla e interpretarla. Un disco mediante il quale abbiamo ribadito le nostre radici. La ricerca timbrica dei suoni e i testi ci hanno permesso di esprimere i nostri giorni, la contemporaneità e i disagi del vivere di ognuno; disagi che derivano in gran parte da quel materialismo imperante che ci sta asfissiando. Dovremmo ricordare che non siamo elettrodomestici! Noi siamo prevalentemente anima, che è quella dimensione dell’essere umano in cui stanno sogni, speranze, progetti, prospettive, ideali. E lo dico da laico.»

“Transiberiana” arriva a venticinque anni dall’uscita dell’ultimo album di inediti, pubblicato nel 1994. Cos’è accaduto nel frattempo?

«La prima cosa che accadde, venticinque anni fa, fu che restituimmo unilateralmente il contratto discografico alla CBS, perché non eravamo più interessati e motivati a registrare dischi nuovi. Ci sembrava molto più interessante incontrare la gente e dedicarci ai concerti live. Alla lunga, però, questa scelta si rivelò un errore, perché dare troppa priorità all’attività concertistica andava a diretto discapito di quella di recording e di scrittura. Bisognava in qualche modo pareggiare la bilancia. Tutto è scattato sull’invito della Sony di curare la “legacy edition” dei primi tre album: quello omonimo con in copertina “il salvadanaio”, “Darwin!” e “Io sono nato libero”. Questo lavoro ha ispirato la riflessione finale che dovevamo dare una risposta al nostro pubblico, perché, soprattutto dopo la scomparsa di Francesco Di Giacomo e di Rodolfo Maltese, la gente si domandava cosa volessimo fare. Da qui, la scelta più ovvia. Un musicista può fare dei concerti o scrivere nuova musica. E, dal momento che eravamo tutti concordi nel riconoscere che in passato avevamo dato troppo spazio all’attività concertistica, dovevamo fare musica nuova: un lavoro inedito da offrire al nostro pubblico. I due anni di lavoro, molto intenso, per la realizzazione delle “legacy edition” sono stati quasi un’esperienza di psicoanalisi.»

Un’esperienza di psicoanalisi che ti ha fatto prendere coscienza – una volta per tutte – che la musica del Banco appartiene alla gente.

«In teoria, essendo io autore di tutta la musica e coautore dei testi insieme a Francesco, sarei stato anche legittimato a considerarlo materiale di mia proprietà e a cambiarlo come meglio credevo. Ma questo sarebbe stato un errore grossolano. Ho toccato con mano il primo, il secondo e il terzo album, e questi non avevano un solo autore. C’erano migliaia di coautori: tutta la gente, che li aveva fatti propri e che su di essi aveva fondato delle scelte di vita importanti, era stata autrice di quella musica. Non potevo farci quello che mi pareva, ma dovevo trattarla con particolare attenzione. Il primo brano di “Darwin!”, “L’evoluzione”, comincia con questi versi: “Prova a pensare un po’ diverso”. Erano messaggi forti, esistenzialmente, per quella generazione, e ho sperimentato di persona, dopo i cinquemila e cinquecento concerti fatti finora, che il momento più interessante, non è quello del palco ma quello del dopo concerto, quando vai a mangiare qualcosa e incontri la gente che ti confida le proprie scelte di vita. Perché per loro sei importante, e non si tratta banalmente di un rapporto tra fan e rockstar. È gente che si è identificata profondamente, con la propria anima e il proprio spirito, in quella musica per quello che ha rappresentata ai propri occhi: i testi, le emozioni delle melodie, gli arrangiamenti… tutto questo crea una sorta di brodo primordiale nel quale molta gente si è immersa con la propria anima e, sulla base delle emozioni ricevute da questo scambio, poi sono state fatte delle scelte di vita importanti. Ecco perché, anche se l‘avevo scritto io con un’altra persona, sentivo la grande responsabilità di dover toccare con cura quel materiale.»

Anni di lavoro su un materiale pregiato che, inevitabilmente, ti hanno portato a ricercare il bandolo della matassa.

«Per trovare il bandolo della matassa, è necessario che ti racconti l’approccio che c’è stato con “Io sono nato libero” (che è un po’ l’incubatrice di “Transiberiana”). Dopo l’intervento della CIA e l’ennesimo colpo di stato nel Sud America, era stato assassinato il presidente socialista, eletto dai cileni in una repubblica libera, autonoma, che però non andava bene agli industriali del Nord America. Se oggi può sembrare un fatto all’ordine del giorno, allora fece molto scalpore. Commosse il cuore di migliaia di giovani in tutto il mondo occidentale e noi sentimmo proprio il bisogno di scrivere questo disco: infatti, dentro c’è “Canto nomade per un prigioniero politico” e la libertà diventa il filo conduttore di brani nei quali si celebravano le sue varie forme. La chiave di volta che mi ha consentito di avvicinarmi con maggiori certezze alla rielaborazione della “legacy edition” è stata proprio il parlare di quelle libertà che allora, quando avevo vent’anni, magari mi erano sfuggite davanti agli occhi. Dal ‘73 ad oggi, avremmo dovuto scrivere “Io sono nato libero” milioni di volte, una per ogni vittima delle guerre. È drammaticamente attuale. Allora è diventato facile trasformare “Canto nomade per un prigioniero politico” in “Je suis”, la frase con la quale esprimiamo la nostra solidarietà verso le vittime e la condanna dell’ennesimo efferato terrorista. Il nuovo brano “Je suis”, che rielabora l’originale nella parte strumentale, purtroppo è un segnale di contemporaneità. Non è una celebrazione del passato, ma un accorato appello ai contemporanei, nel tentativo di riqualificare alcuni valori fondamentali.»

Il tentativo di riqualificare il futuro passa inevitabilmente per la sensibilità artistica di chi non può più accettare di assistere immobile alla deriva culturale della nostra società.

«Si tratta di segnare un futuro in maniera più attenta. Tutta quella poetica diventa di un’attualità tragica e drammatica, e quindi va a coinvolgere anche l’artista. Non è il profumo nostalgico del ‘68 che rimette in moto la macchina del racconto, ma l’autodistruzione della nostra contemporaneità che continua a prendere in giro la conoscenza e a sdoganare l’ignoranza presuntuosa e arrogante. Il “sapere di non sapere” socratico è la prima forma di sapere, di cui mi sono imbevuto la testa. Oggi sembra suonare come “al contadino non far sapere quant’è buono il formaggio con le pere”. Non possiamo più continuare ad assistere immobili a scempi di buonsenso! Non posso accettare l’idea che lo studio, la conoscenza e l’approfondimento siano qualcosa di inutile. È la fine di una società responsabile. Dobbiamo rimettere in movimento la testa, oltre che il cuore.»

I movimenti della testa e del cuore di Vittorio Nocenzi si sono sincronizzati con quelli del figlio Michelangelo e di Paolo Logli, dando vita alla canzone “La libertà difficile”.

«È la libertà basata sulla conoscenza, senza la quale non saremmo mai liberi, perché saremmo dei burattini ai quali chiunque può tirare i fili. Questa riflessione ha dato un senso alla mia mission di artista: pur riconfermando le mie radici, ho dovuto e voluto raccontare la contemporaneità, per guardare al futuro. Nel rielaborare per la “legacy edition” di “Io sono nato libero”, ho ricominciato a mettere in moto tutto il mondo del Banco del Mutuo Soccorso: il racconto, l’idealismo, la scelta di stare dalla parte del bene contro il male. Potrebbe sembrare una scelta banale, ma è invece fondamentale. Senza fare gli intellettuali da due soldi o i maȊtre à penser, sempre con molta umiltà, è ora di finire di stare a guardare! Dobbiamo rimettere in moto delle prospettive virtuose.»

Prospettive che aprono nuovi orizzonti di scrittura per il fondatore e leader carismatico del Banco del Mutuo Soccorso.

«Mi è di nuovo venuta voglia di scrivere. Negli ultimi venticinque-trent’ anni la musica è stata contrabbandata con una delle funzioni per la quale è nata: l’intrattenimento. Certo, è bellissimo regalare un momento di relax, di piacere, di conforto con sé stessi intorno al fuoco, mentre stai condividendo una serata di convivialità con amici e familiari. Va benissimo, a patto che non diventi la principale o l’unica mission della musica. La musica si rivolge alla parte più importante dell’essere umano, si rivolge al suo spirito. Noi siamo anima. Ne fanno parte le idee, i sogni, le speranze, gli ideali. Non siamo solo carne e consumismo! Allora, vogliamo rimettere l’anima al centro della nostra vita? Ecco che c’è di nuovo spazio per fare musica. Non possiamo sapere se ci siamo riusciti – questo spetta al pubblico -, ma il nostro intento è stato quello di rimettere in moto e far ragionare cuore e testa. E oggi ce n’è assoluto bisogno, come cinquant’anni fa.»

Dunque, affrontare un nuovo cambiamento epocale, allo scopo di rimettere al centro la straordinaria unicità dell’individuo.

«Il terzo millennio dovrebbe partire da un nuovo umanesimo che abbia il coraggio di rimettere al centro l’individuo e la sua miracolosa unicità e irripetibilità. Questi non sono discorsi da salotto, ma da bar, da strada; sono discorsi di vita quotidiana. Senza una consapevolezza sociale che recuperi e difenda i valori della solidarietà, dell’equità sociale, del rispetto, del coraggio, dell’umanità e di tutti quei diritti acquisiti con fatica nel ventesimo secolo, non abbiamo futuro. Tutto questo ha ispirato la scrittura di “Transiberiana”, e da lì la metafora del viaggio della vita. È infatti il viaggio più lungo che si possa fare sul nostro pianeta, 9289 kilometri, e diventava un bel modo di riaffermare le radici del Banco.»

Un lungo viaggio, quello di “Transiberiana”, in cui si riafferma a gran voce la volontà del Banco di dare continuità, anche ai propri fans.

«Non si tratta di autocelebrazione o di fare il verso a noi stessi – cosa che sarebbe stata grottesca -, quanto piuttosto di guardare alla contemporaneità. Guardare alle nostre radici per dare continuità, anche ai nostri fans. Noi siamo sempre quelli. Certo, oggi ho quasi settant’anni, ma sono sempre io. E penso sempre allo stesso modo, ovviamente con tutti i cambiamenti che la vita mi ha insegnato a dover affrontare. Ma l’approccio con il mio lavoro, che è scrivere testi, è sempre lo stesso, ha bisogno di ispirazione. Il mantra durante la realizzazione dell’album è stato: “deve essere un disco vero, autorevole, emozionato ed emozionante”. E questo, ascoltando il disco, mi sembra si senta.»

Prima si parlava di individui. Io vorrei citartene due in particolare. Rovistando un po’ tra i ricordi di Vittorio Nocenzi, lo sguardo si è posato su due fotografie: la prima ti ritrae con un mio conterraneo, Franco Battiato. Insieme a lui, Angelo Branduardi, Eugenio Finardi e Francesco Guccini, hai sottoscritto il manifesto artistico “Il suono della parola e la lingua del bel canto”. Come viene utilizzata oggi la lingua italiana nella musica?

«Si trattava della “lettera aperta”, tesa a incoraggiare l’utilizzo della nostra lingua bellissima. Oggi accade che, nella musica, la lingua italiana non venga utilizzata al meglio. Purtroppo, con il degrado della conoscenza e con l’involuzione del livello qualitativo, stiamo vivendo l’attività creativa musicale come provincia dell’impero e non come uno dei centri propulsivi. E allora andiamo a scimmiottare il rap, che in italiano diventa penoso, perché la nostra lingua mal si presta ad essere ritmica come l’inglese. Il rap è nato con l’urgenza della comunicazione e della ribellione da parte delle minoranze afroamericane ghettizzate nei vari quartieri delle metropoli statunitensi. Questo giustifica la nascita creativa del rap, perché normalmente la musica cantata ha tante sillabe quante sono le note della melodia. Ma le note delle melodie erano troppo poco spazio per dare libero allo sfogo ai fiumi di parole che la rabbia dei ghettizzati americani sentiva il bisogno di esprimere, per cui fanno diventare ritmo il canto della voce. E questo è molto affascinante. È una rivoluzione copernicana all’interno della musica popolare. Se lo fai perché nasce dal tuo humus, dalla tua identità culturale, dalle tue radici etniche e dal tuo DNA, assume tutto un altro valore; se lo fai, invece, per scimmiottare la capitale dell’impero, diventa una cosa meschina. “Mischinedda”, come si dice dalle tue parti» sorridendo Vittorio. «Qui non c’è Eminem! Di rapper italiani ne salverei pochissimi, uno di questi è Frankie Hi-nrg: ha scritto grandi testi e lavora bene. Per il resto non è né musica né rap, e mi mette una tristezza infinita. Forse bisognerebbe rifarlo partire nuovamente quel manifesto che ho fatto firmare da personalità artistiche di spessore, a cominciare da Franco.»

Che rapporto ti lega all’autore di “Povera patria”?

«Franco lo amo proprio tanto, perché ne condivido la visione di fare musica, di essere artista, di essere uomo che fa onore all’intelligenza umana. È curioso di conoscere, sperimenta, non si accontenta mai dei risultati ottenuti, anzi, se ha avuto successo con un progetto ne prova subito un altro. È diventato pittore di icone, scrive la “Messa arcaica”, fa il regista di un film dedicato a Beethoven… Che c’è di più bello di un artista, che prova a fare l’artista cercando di conoscere parte di quella che è la più grande utopia per un artista, cioè l’arte totale?! Lo stimo tantissimo anche come persona, perché è sempre stato un uomo molto generoso: ogni volta che ho cercato di coinvolgerlo nelle mie incursioni culturali nel creare esperienze per i giovani italiani, Franco Battiato ha sempre risposto: “Presente!”. Una persona così, come puoi non adorarla?»

… Un’altra foto, invece, ti ritrae seduto su una panca con Alda Merini.

«I momenti di gioia del mio cuore. Con lei era veramente bellissimo. Andai a trovarla quando stavo curando l’edizione e la registrazione del mio primo album da solista, “Movimenti”. Mi piaceva molto l’idea di fare un disco strumentale, ma volevo metterlo insieme con dei versi. Allora andai a trovare Alda nella sua casa sui Navigli, a Milano, per chiederle se fosse interessata a scrivermi tredici poesie inedite per i miei tredici brani solo strumentali; poesie da poter leggere mentalmente, mentre si ascoltava quella musica. Volevo dare una sorta di menu agli ascoltatori di “Movimenti”: in fondo, consigliavo quali versi poetici abbinare a quella particolare musica. “Leggi questa poesia e ascolta questo brano, sentirai una consonanza”. Questo era il gioco che avevo in mente. La grande Alda Merini accettò e per me è stata una grande emozione. Da lì nacque un’amicizia che mi ha onorato. Lei aveva l’abitudine, la domenica mattina, di telefonarmi da Milano e dettarmi delle poesie per telefono. Adesso che non c’è più, ora che è in un’altra dimensione, starà facendo l’angelo come lo ha fatto quaggiù.»

Quanta follia c’è nel tuo essere artista?

«Dovremmo prima concordare una definizione di “follia”. Se definiamo follia il tentativo di dare più dignità possibile alla voglia di conoscere l’anima umana, spero di essere il più folle di tutti.»

Oltre a questa sana follia, che ti auguro di cuore, mi piace ricordare che nel settembre 2010, ad Assisi, Vittorio Nocenzi riceve il premio come “Artista per la Pace 2010” per il suo impegno sociale.

«Mi stai proprio sorprendendo, sai? Hai rintracciato tre momenti della mia vita che amo in maniera particolare, con una coerenza incredibile: prima Franco Battiato, poi Alda Merini e adesso il premio ad Assisi. Hai fatto un’indagine su tutti i “guai” che ho combinato nella mia esistenza… e voglio rispondere alla tua domanda. Il premio “Artista per la Pace” è stato uno dei riconoscimenti che mi hanno dato più gioia intima e interiore, perché io credo nella pace come una necessità imprescindibile per una vita dignitosa di tutti gli uomini. Senza pace non ci può essere libertà. Senza pace e libertà non ci può essere dignità. Ho davanti agli occhi la piazza della Minerva, ad Assisi. In questo spazio dedicato alla premiazione c’erano il sindaco, molti fans del Banco e un bel pianoforte a coda. Suonai un brano di “Estremo Occidente”, secondo album solista solo per pianoforte, perché volevo ricambiare quel premio così gratificante. Fu una serata molto bella, che mi dette tanta gioia interiore.»

Quel riconoscimento, così come altri che ti sono stati tributati, è stato ed è un modo per ringraziarti. A chi è che, invece, tu vorresti dire grazie?

«Sarebbe un lungo elenco. Ma il primo grazie va a mia madre. E non passi per una risposta romantica o stucchevole. È un grazie oggettivo, perché mia madre, negli anni Cinquanta, in una società completamente diversa e in un paese della provincia di Roma, Marino, sostenne il figlio di sei anni che le chiedeva di studiare musica. Mio papà guidava i tram. Io vengo da una famiglia del popolo, una famiglia semplice. Mia madre prende al volo la mia richiesta – ripeto, avevo sei anni! -. Non c’era la televisione e c’era la radio. In radio si sentiva tutti i giorni la musica suonata dalla fisarmonica. Io non sapevo nulla di musica, però mi piaceva e mi affascinava il suono di quello strumento. Così mia madre mi mandò a scuola di fisarmonica. Per combinazione, a cento metri da casa nostra, c’era un insegnante di pianoforte e di fisarmonica. Quando mi comprarono la fisarmonica fui felicissimo: era una “Soprani 84” madreperlata rossa. Un modello mignon, piccolo, anche perché mia madre mi disse che, se io fossi andato a studiare musica, sarebbe dovuto venire con me anche mio fratello Gianni, che allora aveva quattro anni. Iniziammo a studiare musica, io a sei anni e lui a quattro. Poco dopo cambiai insegnante. Andai a studiare da un uomo che suonava anche la batteria e aveva un gruppo musicale, per cui arrivò un capodanno e chiesi il permesso a mia madre di farmi entrare nella sua band. All’epoca queste band si chiamavano “orchestrine”, perché i primi gruppi musicali in Italia nascono come orchestrine da ballo. Era una formazione ridotta dell’orchestra: c’era la tastiera o il pianoforte, quasi sempre la fisarmonica, la chitarra, la batteria, il basso e il cantante. Un sassofono, magari, per le più originali…

Non c’era ancora il concetto di band come autrice del proprio repertorio artistico, della propria musica, dei propri testi. Le orchestrine suonavano i brani che si potevano ballare, portati al successo dai cantanti e dai gruppi inglesi e americani. E quindi nei dancing arrivava l’orchestrina, non la rock band! Arrivò questo capodanno, io avevo otto anni, e mia madre diede il permesso al mio insegnante di musica di portarmi a suonare al veglione, esponendosi alle critiche dei parenti e sostenendo come una leonessa quella mia passione. Per questo io e mio fratello le dobbiamo tutto, se siamo diventati io il musicista che sono e lui il pianista formidabile che è. Poi è arrivata la banda musicale, e studio clarinetto. Il maestro della banda veniva a farci lezione nella cantina del nonno materno, che lo accoglieva con un bel bicchiere di vino bianco. Dopodiché il maestro, con un gessetto bianco, disegnava un pentagramma sul fondo di una botte e ci insegnava la teoria musicale. Divenni il primo clarinetto della banda della città di Marino e iniziai ad andare “in tournée” con le bande dei paesi vicini, Albano, Rocca Priora, Grotta Ferrata.»

Sul limitare del tuo evocativo racconto d’infanzia, mi dai la possibilità di riflettere sul mondo di relazioni umane che si vengono a creare all’interno di una banda musicale.

«Una banda musicale è un mondo di relazioni umane affascinante, bellissimo, che andrebbe riscoperto e messo al centro delle attività sane dei piccoli paesi, dei quartieri e dei rioni delle grandi città, perché si vengono a creare delle comunità umane fortissime. Per me è stata un’esperienza bellissima e importantissima, che mi ha dato la possibilità di conoscere da vicino le grandi melodie operistiche, perché metteva su le aree più famose del repertorio lirico e io ne ero affascinato. Quando cominciai a scrivere la mia prima musica per il Banco, tutte queste emozioni che avevo dentro sono uscite fuori. I cantabili che mi escono naturalmente, quando mi metto a scrivere musica, vengono dalle mie radici. E ne sono particolarmente fiero, soprattutto quando poi leggo la fantastica recensione fatta su “Prog”, bibbia mondiale del rock progressivo, di “Transiberiana”. Mi ha lusingato molto, il titolo è “Il ritorno trionfale dei maestri italiani” e comincia con “Italian is better”. Detto da un periodico come quello, ti confesso che mi ha sbalordito. In fondo, sappiamo bene che gli inglesi hanno la puzza sotto il naso e considerano tutto quello che c’è al di là della Manica di serie B… Ho provato gioia come un bambino e l’ho mandata a tutti. Sono molto fiero della mia italianità e, portarla in giro per il mondo, non ti nascondo che mi fa molto piacere.»

Tua madre è stata una leonessa, quando ha difeso strenuamente la passione per la musica del proprio bambino di otto anni. E tu, caro Vittorio, sei padre. Nel formulare questa domanda ho avuto la complicità di Viola. Le ho chiesto che cosa avrebbe voluto chiederti. E lei di rimando: “Che cosa pensi e cosa provi, quando realizzi che due dei tuoi figli hanno deciso di fare il tuo stesso lavoro”?

«Una grande preoccupazione!» senza esitare. «Perché il nostro Paese è bellissimo ma non dà alla cultura il ruolo centrale che meriterebbe. Per noi, in Italia, la cultura è qualcosa di cui riempirci la bocca, ma non si mangia con la cultura. Ed è gravissimo! Per cui un artista ha davanti a sé un percorso fatto di molte mortificazioni. Io posso ritenermi un uomo fortunato, privilegiato… ma quanti artisti, anche più bravi di me, non hanno avuto fortuna e sono stati mortificati dall’indifferenza, dalla mancanza di spazio, di attenzione, di mezzi e di strumenti per esprimersi?! Un mio amico cineasta, un regista documentarista, si è innamorato di una ragazza provenzale e, quando si sono sposati, lui si è trasferito in Provenza. Appena è arrivato in Francia, oltre alla cittadinanza, gli hanno subito riconosciuto un contributo economico mensile di seicento euro, perché, essendo un artista, è una risorsa culturale per la nazione. Non a caso la Francia fa della sua politica culturale la propria forza, e lì con la cultura si mangia! Ha un terziario mostruoso attorno. Pensa a quando parte una tournée di musica leggera… che poi anche sul termine “leggera” ho scritto una pagina pubblica. È leggera perché ti alleggerisce il cuore o perché non ha contenuti? E allora, la musica pesante è pesante perché è noiosa o perché ha i contenuti? Sono delle dicotomie ridicole. Io credo che ci sia musica leggera con contenuti e musica pesante senza. Le melodie hanno contenuti, se sono baciate dalla dea dell’Ispirazione. Come diceva un certo Duke Ellington, esistono solo due generi di musica: quella buona e quella cattiva…»

Tornando, invece, ai tuoi figli…?

«… Tornando ai miei figli, avrei preferito che avessero scelto un’altra professione, perché come padre ha il sopravvento la responsabilità. Però, Viola è diventata una cantante e un’insegnante di canto bravissima; Michelangelo, invece, è stato il dono che la vita mi ha voluto fare, quando ero completamente impreparato. In un momento di gran dolore per la perdita di Francesco e Rodolfo, ho scoperto che il mio alter ego musicale era il mio terzogenito, il più piccolo. Lui suona il pianoforte e la batteria, e ha cominciato a farmi sentire la musica che scriveva. Ma, ogni volta che mi faceva sentire uno spunto, un tema, una sua scrittura, era come se li avessi appena scritti io. Ovviamente c’entra il DNA, però questo stimolo mi spingeva immediatamente a metterci le mani sopra, a elaborarlo, ad ampliarlo. Così mi sono ritrovato a scrivere a quattro mani con lui due ore di musica inedita, che sarà l’opera contemporanea de “L’Orlando”, che uscirà l’anno prossimo, e la “Transiberiana”. È stata davvero una scoperta fantastica! La scoperta di questa complicità con Miki mi ha rivitalizzato e la “Transiberiana” è tanto figlia sua quanto mia… Ripensando a quello che provo quando realizzo il lavoro che hanno scelto di fare i miei figli, c’è la tenerezza, c’è l’intimità, l’identità, l’intesa; ci sono l’orgoglio e la felicità di sapere che Viola e Michelangelo fanno ciò che li rappresenta. Mi sento gratificato, ed è una sensazione che mi riempie di gioia.»

Parlando di musica, prima citavi Duke Ellington. Io, invece, ne approfitto per citare un tuo amico fraterno. Francesco Di Giacomo diceva che “il rock è pieno di rock star, ma c’è un solo Banco del Mutuo Soccorso”. Come racconteresti il Banco alle giovani generazioni?

«Il Banco del Mutuo Soccorso, più che una rock band, è un progetto di vita e di espressione artistica. È un approccio che cerca nell’inusuale il sale della vita e che si basa sulla voglia di scommettere sempre sulla ricerca, per evitare il banale, ma senza per questo cadere nel luogo comune dell’originalità a tutti i costi. È qualcosa che può farti correre il rischio di scrivere qualcosa di bello. E questo lo capisci quando sei avanti con l’età, da giovane le cose semplici ti ripugnano un po’, perché confondi semplice con semplicistico. “Non mi rompete” è un brano semplicissimo con due accordi, però dentro ha una segreta e misteriosa grazia che lo rende immediatamente empatico e universale. Ho provato tante volte a scrivere un altro “Non mi rompete” e non ci sono mai più riuscito. Mi ricordo perfettamente il momento il cui l’ho scritta…

Era una domenica mattina e mi aspettava sulla nota del pianoforte. Ho messo le mani sul primo pianoforte di casa da ragazzo, avevo diciassette anni, ed è uscita una nota dopo l’altra. L’ho appuntata sul pentagramma e mi sembrava così semplice e così poco significativa, che l’ho lasciata cinque anni dentro al cassetto, finché una mattina in sala prova… feci per leggere un appunto preso su un pezzo di carta oleata del fornaio e, tra unto e sale, c’era scritto: “Non mi sveliate ve ne prego ma lasciate che io dorma questo sonno”. In quel momento mi è tornata in mente la melodia che avevo messo nel cassetto. C’ho cantato sopra le parole e ci stavano perfettamente. Così è nata quella semplice canzone. La semplicità, come sintesi espressiva, la puoi conquistare solo quando sei vecchio. La cosa semplice, quando sta in equilibrio, è meravigliosa. Ma è come se camminasse sul crinale di una collina, con precipizi da entrambi i lati. Le baserebbe poco per cadere nel burrone del banale. Mi viene sempre in mente Picasso, quando andò a visitare dei ragazzini di una scuola elementare e, dopo aver visto i loro disegni, disse loro che lui, alla loro età, disegnava già come Donatello o Michelangelo… “Poi ho impiegato tutto il resto della vita per imparare a disegnare come disegnate voi”.»

 

Gino Morabito

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