NON CHIAMARLI MOSTRI, L’IMPIETOSA NARRAZIONE METAFORICA DI MAPUCHE

Di Giandomenico Morabito

Prodotto da Dino Fumaretto, esce per Viceversa Records “Non chiamarli mostri”, il secondo album di Mapuche, al secolo Enrico Lanza. Un disco che, rivendicando il diritto alla sofferenza, reclama la possibilità di mostrare il lato scuro della luna.

“L’orologio” è il brano che dà inizio a questa raccolta: episodio che si caratterizza sulla funzione del tempo, sorretto bene da un pianoforte struggente. “Cosa nasconde la mia mente” è un quadretto musicale più vivace, segnato dalla voce straniata e da un imprinting di piano allegro per una testualità bizzosa.

“Non chiamarli mostri” è una track riflessiva sul concetto di mostro, ossia il disvelamento di un feticcio che è banalizzato dal medio comune sentire, che fuorvia il mero significato del reale. “Masso” si distingue per un sound acustico che aggiorna lo status di Mapuche ad odierno slacker per una narrazione metaforica impietosa.

“Canzone sull’infelicità” prosegue con la preminenza chitarristica di una forma compositiva ficcante, qualificata da un cantato viscerale, ancora una volta dipinto dal travaglio della follia. “Il male oscuro” ritorna al piano che disegna una canzone dai contorni scuri.

“Lucertola” certifica l’originalità di una proposta stilistica che si serve di un particolare senso istrionico, che s’identifica in una più che esplicita manifestazione dell’assurdo. “Gli uomini che lavorano” è un pezzo che vuole ancora definire un personaggio bohémien nella bieca provincia, utilizzando una strumentazione dall’esito tanto minimale quanto agile. La finale “Eriebnis” fluisce nello stesso leitmotiv di scrittura, a favore di un’enfasi buia, che suole evidenziare la psicopatologia de giorni nostri.

Insomma, Mapuche riesce a cogliere gli anfratti dell’anima di una contemporaneità macchiata dalla sovrastruttura della gabbia della nevrosi, che svilisce la voglia d’emergere. Disco le cui problematicità sono tratteggiate con dovizia autoriale, centrando il bersaglio di un’arte autentica. Bravo.

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