De La redazione –
Il nome di un gruppo, un album, un salto all’indietro nel tempo. Il primo pezzo comincia a scorrere, siamo a Los Angeles. Le immagini della città si fondono insieme a un inizio cadenzato da una chitarra effettata con riverbero e delay. Il riff evolve lentamente, poi si aggiunge una seconda chitarra, mentre il cantante, dopo un intro iniziale, esplode vocalmente e ritmicamente in simbiosi con gli strumenti attraverso un urlo. Pura adrenalina quasi animale che rappresenta simbolicamente l’impatto con la città metropolitana e tentacolare. La voce arriva al riff d’ingresso e inizia a cantare proprio con un fraseggio-sintagma che dà il titolo allo stesso brano, “Welcome to the jungle”.
Si continua con “It’s so easy”, che inizia con un soffocante e ritmatissimo pattern di basso, a cui si aggiunge di seguito la batteria. Tutto cresce in fieri in poche battute, fino ad esplodere negli accordi iniziali, spina dorsale del brano. E poi ancora quattro colpi di cowbell, riff in La e parte “Nightrain”, a cui seguono “Out ta get me”, con il suo potentissimo riff iniziale e “Mr. Brownstone”, che si caratterizza per un intro composto da un ritmo di batteria quasi tribale che accompagna una raffica di colpi di chitarra, cadenzati a ritmo di wah wah.
Si arriva così ad uno dei punti chiave dell’album, chitarra solista distorta con Slash in primo piano che, insieme alla batteria, accompagna, arpeggiando, un brano che diventa una potente e semplice sintesi, vero e proprio manifesto programmatico del gruppo di Los Angeles: “Take me down to the Paradise City where the grass is green and the girls are pretty.”. Finisce l’arpeggio, chitarra ritmica e solista entrano contemporaneamente ad accordi pieni e si uniscono insieme ad un fraseggio di synth di tastiera. Poche battute, sino a quando progressivamente la chitarra solista, svisando, esplode (dopo un singolare fischio d’entrata di Axl) in sequenza dal punto di vista strutturale insieme alla seconda chitarra, nel riff iniziale e centrale del brano. Si entra a “Paradise City”.
Al tavolo, due trentenni – chiodo di pelle – commentano “My Michelle” e l’inquietante arpeggio dell’inizio, e “Think about you” con i suoi cinque colpi di cowbell dell’intro. Di seguito una delle pietre più preziose dell’album; proprio quasi alla fine Slash esplode con un pattern di chitarra solista veramente unico in “Sweet child o’mine”, come del resto splendidi e intensi, preziosi, sono tutti gli interventi solistici in questo brano, lato romantico della band di Los Angeles.
Seguono “You’re crazy”, esegesi, nella versione hard del brano, di un amore sbagliato (in “G N’ R lies” abbiamo la versione acustica) e “Anything goes” con il suo caratteristico intro. Siamo alla fine. Il pezzo che chiude questo album dà la cifra stessa, stigmatizza sino in fondo il livello di sonorità espressiva del lavoro compositivo di questi artisti, è il caso di “Rocket Queen”: intro di batteria e un pattern di basso, poi di seguito, in successiva esposizione, il resto degli strumenti. Atmosfera soffocante e psichedelica chiudono l’ascolto dell’album e la serata.
I due ragazzi finiscono quello che rimane delle birre, si alzano e, quasi sul punto di andarsene, arrivano da un tavolo vicino altri due. Due ragazzini sui quindici. Uno di loro si avvicina con fare timido e scaltro: “Scusami, puoi dirmi il nome dell’album che stavate ascoltando?”. Il giubbotto di pelle interpellato, si gira verso l’amico, poi si volta nuovamente verso il ragazzo più piccolo, sorride e dice: “Guns N’ Roses, Appetite for destruction!”. Salutano con un cenno, si dirigono verso la porta e scompaiono inghiottiti dalla notte. I baby boy li osservano per un po’, si risiedono al tavolo, alcune lettere digitate sulla tastiera. Un gruppo, un album, un salto all’indietro nel tempo. Il primo pezzo comincia a scorrere, siamo a Los Angeles.