Di Gino Morabito –
In quell’edizione del Festival aveva presentato una canzone talmente strana, che nessuno se l’era sentita di cantarla. Cosicché dovettero lasciarla interpretare al suo autore. È il 1° febbraio del 1958, un sabato. L’ispirazione gli venne osservando il quadro Le coq rouge di Marc Chagall. Lo confessò più tardi trovandosi a passeggiare con l’amico cantautore nei pressi di ponte Milvio. L’altro sostenendo, invece, che quella visitatrice capricciosa fosse arrivata qualche mattina prima, inaspettatamente. Mentre si godeva l’azzurrità del cielo, affacciato dalla finestra lasciata aperta su piazza Consalvo.
Stava lì, ammirato, mano nella mano con la moglie. Non ricordando affatto chi dei due esattamente fosse stato a pronunciare quello che sarebbe diventato di lì a poco l’inizio di tutto il resto. Un testo visionario e poetico nell’azzurro più intenso. Come sempre però accade nella migliore tradizione, la verità dietro il racconto, per quanto possa suonare paradossale, fu sostanzialmente diversa. Quel componimento lirico in rima baciata era figlio di un incubo terribile. Niente di artefatto a tavolino, quanto piuttosto l’onirica rappresentazione di un’angoscia notturna dopo il giorno più nero della sua vita. Costò a Migliacci, quella canzone, sudore freddo e affanno. E vaneggiamento.
Ciononostante, di tutta quella penosa tribolazione che dovette soffrire, la platea in bianco e nero del salone delle Feste non ne sapeva niente. E si godé quel brano, quando, a luci spente nella sala, l’occhio di bue illuminò dall’alto il palco infiorato. Un uomo in smoking azzurro guadagna il centro. Sistema la piccola farfalla annodata sul collo e sgancia il microfono dall’asta, quindi lo avvicina alla bocca. È pronto.
Ora provate a immaginare la scena. C’è silenzio d’attesa, un leggero ronzio delle casse, l’emozione è vibrante. Il maestro Semprini sulla destra dà l’attacco con la bacchetta e parte l’orchestra. Piano un arpeggio, il pianoforte è un velluto. E lì un uomo, dritto in piedi, dà voce alla memoria, quasi sussurrando. Volendosi gustare fino all’ultimo il dolcissimo strascico di quelle parole. E le canta: “Penso che un sogno così non ritorni mai più…”. L’orchestra cresce, la musica rapisce il cuore. E quell’uomo elegante sul palco allarga le braccia, alla fine, chiudendo gli occhi. E vola “Nel blu dipinto di blu”.
Una bomba gettata su un Paese che aspettava solo la scintilla per cominciare a sognare. Siamo prossimi alla leggenda, anche grazie all’alta posta in gioco. Non c’è di mezzo solo la potenza di un brano destinato a fare il giro del mondo. In ballo c’è la nascita ufficiale della canzone moderna. È l’ottava edizione di Sanremo e, in abbinamento con un giovanissimo Johnny Dorelli, trionfa Domenico Modugno.
Prima del 1958 non era neanche del tutto sicuro di voler fare il cantante, magari l’attore chissà. Come testimonia la commedia musicale Rinaldo in campo, in cui ribaldeggia, canta, recita, con un successo probabilmente insuperato in quell’ambito. Un guascone pugliese con la contagiosa impertinenza di chi sa di avere dentro il sacro fuoco che arde.
La sua grandezza risiede in una visione che fonde tradizione e innovazione, con una naturale drammaturgia. Un rivoluzionario cantastorie che – per sua stessa ammissione – ha appreso lo stile dai carrettieri e dai cantastorie di Polignano e San Pietro Vernotico. Un multiforme talento capace di consegnare la propria arte a uso e consumo della modernità. Uno straordinario performer che riunisce in sé gli estremi opposti attraverso i quali passa la rivoluzione stilistica della canzone italiana: l’urlo e l’ombra.