STEFANO DI BATTISTA, SOTTO IL SEGNO DELL’HARD BOP

Il primo a credere in lui fu Massimo Urbani.

Raffinato nel gusto per la canzone d’autore, alla continua ricerca di nuovi territori sonori, il percorso artistico di Stefano Di Battista è quantomeno eclettico.

Sassofonista italiano tra i più apprezzati sulla scena internazionale, noto anche al grande pubblico per le sue partecipazioni televisive, non ha mai abbandonato la strada maestra del jazz, percorrendola nel segno del più sanguigno hard bop.

L’ingegno caratterizza uno stile di vita jazz.

«La necessaria capacità di ingegnarsi, sia negli assoli della musica improvvisata, sia in uno stile di vita in grado di trovare delle soluzioni creative per resistere e fare poesia… La poesia della pizza Margherita o di uno spaghetto con le vongole bagnato al pomodoro: una considerazione sulla bellezza della vita, in compagnia del Maestro Enrico Rava, contemplando un piatto fumante di spaghetti. Un apprezzamento del genere, per qualcosa di una semplicità così disarmante.»

Jazz come cibo per l’anima e il corpo. Al ristorante “Da Peppe a Tor Cervara” a Roma la gestione è capeggiata dal divo del sax in persona, che ha deciso di continuare sulla rotta paterna dell’eccellenza romana a ritmo di amatriciana e carbonara.

«Provengo da gente semplice, di grandi lavoratori, a cui devo molto della mia esistenza. Avendo promesso a mio padre, prima di morire, che avrei continuato la sua attività di ristorazione, mi sono ritrovato a organizzare del buon cibo associato alla musica: il massimo del godimento! La possibilità di ascoltare un musicista che non si esibisce su un palco alto tre metri, bensì fra la gente, quasi fosse uno dei commensali, è un grande privilegio. E poi il buon cibo è decisamente jazz.»

Si celebra lo stile hard bop, dietro cui si cela una filosofia folle, che oscilla tra la matematica e la voglia di volare. È una musica che ti prende e ci navighi dentro. Ma ci vuole una personalità particolare.

«Bisogna possedere una tecnica complessa e contemporaneamente dimenticarsi della tecnica. Quando Charlie Parker suonava, sembrava una casa che ti teneva al caldo. Con l’aggiunta di un fattore di rivalsa sociale.»

Il jazz è anche controsensi, pur essendo sincero, dove l’onestà intellettuale conta più dell’estetica. Ci sono anche gli errori, ma regalano il fascino. Basta sentire Coltrane.

«Il jazz è una musica che non si può spiegare. È una filosofia di vita, quella nota stonata che ti rende unico e irripetibile. Sono le note forti di John Coltrane, che fanno parte di un discorso ben più ampio di quell’assolo… Un jazz riconducibile solo ed esclusivamente a quella specifica personalità artistica. È qualcosa che va talmente oltre, da sovrastare il parametro di giudizio. E tu non puoi non amarlo.»

“L’unico fiato che ci vuole è quello della sincerità. Il resto lo fa la storia, ciò che racconti, nel momento in cui lo racconti.”

«Trovo che essere sinceri con sé stessi e con il pubblico sia la cosa più importante. Dovremmo riuscire ad ascoltare il fiato di quelli che non si lasciano abbattere e si rialzano dopo ogni caduta. Prendendo esempio da Charlie Parker, che ha usato il linguaggio dei neri nel suo modo di suonare il sassofono, dentro il mio fiato ci metterei tutta la sofferenza, l’ingiustizia, il non essere ascoltati. La consapevolezza di un vinto ma onesto; di chi ha vissuto la propria vita soffrendo; di chi emette un sibilo, perché gli manca il fiato grosso, e ha solo quel fiato sottile per comunicare sé stesso, i propri valori, al mondo intero.»

Da una crescita quasi sotterranea al jazz come pilastro della nostra cultura, nel tentativo di edificare una società migliore di come i nostri figli l’hanno trovata.

«Nutro fiducia nei confronti della nuova generazione che, magari, facendo tesoro degli errori fatti in passato dai loro padri, potrebbe riuscire laddove noi abbiamo sbagliato. Sono stanco di assistere ai continui inseguimenti del denaro, del successo ad ogni costo, del potere televisivo… Provo infinito rispetto e profonda compassione per quelli che si fanno il culo ogni giorno, sudando e sgobbando per sbarcare il lunario.»

I luoghi, le atmosfere, la gente… nel ricordo di un tredicenne che, al saggio di fine anno delle medie, realizza che avrebbe voluto suonare il sax.

«Da piccolo pensavo di fare il cameriere, i miei modelli erano i genitori e il ristorante di famiglia. Poi mio padre mi mandò alla scuola di musica della banda di Settecamini e il maestro Carmelo Scafidi decise che dovevo suonare il sax.»

Speranza, magia, l’arte dei suoni fin dall’imitazione dei rumori della natura alle fughe di Bach. Le frequenze della musica ci procurano sensazioni quasi fisiche, un benessere dell’anima, sotto le stelle del jazz.

«Io volo basso, ma in Francia una signora mi disse che miglioravo la qualità della sua vita. Sono un’anomalia. Non credo di avere scelto di fare il musicista. Se solo fosse vero, però, magari sono sempre stato un sassofonista e non lo sapevo.»

 

Gino Morabito

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