FABIO CONCATO, RAFFINATO POETA DELLA QUOTIDIANITÀ

Di Gino Morabito

Delicato, intimista, personale. Fabio Concato è fra i pochi artisti ad aver compreso la bellezza di far vivere le proprie intuizioni spostandosi verso la gente. Il ‘musico ambulante’ partito da Milano racconta la quotidianità con un’eleganza che ha pochi eguali, rendendola universale. Storie di sempre che sembrano non mostrare i segni del tempo. Emozioni e versi che si nutrono di piccoli gesti, particolari, elementi invisibili agli occhi e così importanti per chi c’ha messo il cuore.

Premio Tenco 2022, Fabio Concato ha una stretta familiarità con il jazz per la sua caratteristica armonia musicale. Sul palco, in versione teatrale, con Ornella D’Urbano (arrangiamenti, piano e tastiere); Stefano Casali (basso); Larry Tomassini (chitarre); Gabriele Palazzi (batteria). Propone un concerto improntato sulla melodia e sulla parola, tra il serio e il faceto. Dagli esordi discografici ad oggi. Un’occasione per ascoltare, non solo i grandi successi ma anche tante altre ‘chicche’ del suo ricco repertorio che è diventato patrimonio culturale del nostro Paese.

In Sicilia per due date: il 2 novembre al teatro Metropolitan di Catania e il 3 novembre al teatro Al Massimo di Palermo. Uno spettacolo prodotto da Marco Borzatta per Luna di miele Produzioni srl, organizzato e promosso da Eventi Olimpo.

Amore sopra ogni cosa, onestà, senso civico.

«Rispetto di sé stessi e degli altri, delle culture differenti, di chi non la pensa come te. Sono queste le parole fondanti e i valori su cui ho edificato la mia vita. Valori che, se fatti propri, ci condurrebbero a una convivenza infinitamente migliore.»

Le radici di un artista, che affondano nei Settanta.

«Quando ho cominciato c’era un modo di vendere la musica, distribuirla, stamparla, che non ha niente a che vedere con quello di oggi. Anche l’approccio che la casa discografica aveva con l’artista era completamente diverso. Al primo disco mi dissero: “Farai successo fra sei, sette anni. Serve tempo, bisogna sviluppare il linguaggio e crescere.”. E ‘Domenica bestiale’ arrivò puntuale alla scadenza.»

Erano gli anni di piombo, imperversava il terrorismo.

«I sequestri, gli attentati, le banche che esplodevano. La sera, le persone se ne stavano chiuse in casa, si avvertiva una paura fisica. Ciononostante, preferisco sempre la mia generazione. Perché, anche quel modo sconsiderato di fare politica, era il prodotto di una riflessione, di un pensiero. Esistevano dei movimenti che qualcuno usava per far conoscere i diritti, quelli degli studenti, dei lavoratori, del terziario. C’era molta carne al fuoco. Per non parlare di quanta musica fantastica a cavallo tra i Sessanta e i Settanta. Credo ci sia stata la produzione più bella, più interessante e anche più colta di tutta la nostra discografia.»

È stato facile avvicinarsi alla musica vera.

«Negli anni Cinquanta mio padre – un rappresentante di occhiali – mi faceva sentire i dischi di artisti che avrebbero condizionato il mio gusto in senso buono: Gerry Mulligan, per citarne uno. Lui ascoltava ottima musica e questa è stata la mia più grande fortuna.»

La dedica al padre Gigi, uomo che Franco Cerri definisce un ‘maestro’ e che maestro fu di Jannacci.

«Ricordo che ero in Toscana, un po’ fuori mano. Mi trovavo lì per riordinare i pensieri e scrivere. Venne fuori ‘Gigi’, dove parlavo di mio padre che non c’era più. La scrissi in mezzo pomeriggio e mezza sera, con la sensazione di aver fatto qualcosa di importante che, anche fosse stato solo per me, andava bene. Invece è un brano che è rimasto. È la mia canzone più vera e quella che più mi inorgoglisce.»

Ballando con Chet Baker, Stazione Nord, L’umarell cantata in dialetto milanese. Quella profonda esigenza di scrivere ancora canzoni nuove.

«L’esigenza c’è, coi miei tempi. Ma questa non è una novità. Sto mettendo via delle cose, penso di aver ancora molto da dire, e lo voglio fare. Ma non per paure tipo l’essere dimenticato o tenere vivo il mio ‘personaggio’. Mai avute. Figurarsi adesso che ho settant’anni!»

Delicato, intimista, personale. Concato racconta storie di sempre, invisibili agli occhi e così importanti per chi c’ha messo il cuore.

«Non sono cambiato caratterialmente, forse pochissimo. Sono quello di sempre. Mi interessano i dettagli, i particolari, le cose quasi invisibili.»

Quel paesino vicino Rimini, la casa dov’è cresciuto, l’oratorio di don Antonio.

«Ho cominciato a frequentare l’oratorio davvero piccolo, e negli anni Cinquanta non c’era molto altro da fare. Giocavo a pallone ed ero chierichetto cantore. Mi sentivo talmente motivato dalla religione, che pensavo di voler entrare in seminario.»

Poi un trasloco, due chilometri e mezzo più in là.

«Ho conosciuto gente completamente diversa. I primi festini fatti in casa col giradischi, le prime ragazze; la prima lettura di un quotidiano di sinistra, una poesia di Pier Paolo Pasolini, il primo cinema d’essai… Ho scoperto un mondo che mi apparteneva di più e mi sono dimenticato degli amichetti con cui giocavo a pallone, dell’oratorio, di don Antonio e soprattutto del seminario.»

A suo modo un credente che si interroga sul vero senso della felicità.

«Forse la felicità è la normalità. Mi sento felice quando la mia vita si svolge normalmente. Nella normalità non ci sono picchi, né di gioia ma neanche di dolore. E questo mi rasserena.»

 

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