PFM, IL SUONO DEL PROG ITALIANO

PFM 01_musicaintornoInarrestabile, un fiume in piena Franz Di Cioccio, non smetteva di raccontare. Raccontava il suono del prog italiano, quello dalle “good vibrations di matrice inglese.

«Suonare molto, suonare bene.» il motto del frontman dei PFM.

Più parlavo di musica con una leggenda vivente, più mi accorgevo della semplicità dell’approccio, “friendly”, come lui stesso ama definirlo. Il tempo di un “caffè”, completamente immersi nella storia del prog rock, tra aneddoti sui Genesis di Peter Gabriel e i King Crimson all’epoca di Greg Lake. Erano gli anni Settanta e la rivoluzione musicale-culturale era già in atto. I Nostri si trovavano al centro esatto degli avvenimenti, in un vortice di energia. La stessa energia, che, a distanza di 46 anni da quelle primigenie “Impressioni di settembre”, si sprigiona ancora dalle stesse bacchette di Franz, al ritmo di virtuosismi improvvisati e pezzi di bravura.

Continua ricerca musicale, nessun compromesso, scelte ardite e molta tenacia. Da “sempre contemporanei a ciò che volevano fare. Non c’è mai un disco uguale al precedente”. Signore e signori, on stage i PFM. E sarà ancora celebration!

L’inconfondibile suono del tempo, che passa attraverso “Photos of ghosts”, “L’isola di niente”, “The world became the world”: tre album originali che portano sulla stessa strada, “Marconi Bakery”

«… Prosegue il percorso iniziato con “Celebration 1972-2012”. Se nel primo si esploravano le origini dei PFM, partendo dalle radici, dal nucleo storico dei Quelli, il cambio del nome, il debutto discografico con i due album del 1972, “Storia di un minuto” e “Per un amico”; nel nuovo progetto si racconta invece l’impatto con il mercato discografico inglese e americano: ovvero l’inizio dell’avventura che ci ha portati ad essere il gruppo che siamo. Il racconto di “Marconi Bakery” è una storia fatta di dischi ufficiali usciti dopo: “Photos of ghosts”, “L’isola di niente” e “The world became the world”; il ritrovamento di una cassetta live che ha generato tutti gli eventi che si sono poi succeduti; non ultima, tutta una serie di incontri con personaggi di primo piano della scena inglese, che comunque hanno molto contribuito a trasformare la band italiana, che si chiamava Premiata Forneria Marconi, negli artisti internazionali oggi noti con l’acronimo PFM

È una specie di film di carta (perché scritto e non girato su pellicola), in cui Sandro Neri ha realizzato la sceneggiatura, raccogliendo le voci di tutti i partecipanti a questo progetto; Guido Harari, come direttore della fotografia, mi sembra perfetto; io ho fatto un po’ il produttore, un po’ il regista, in quanto conosco bene tutti gli eventi descritti. In questo film di carta si narra come la realtà italiana di allora sia stata messa a confronto con la scoperta del “british way of life”, ma anche del “british way… come si fa questo lavoro”, perché loro l’hanno fatto prima di noi… Il rock l’hanno inventato lì, in America intendo. È un Paese in cui c’era, all’epoca, molto da imparare. È un film di carta che racconta soprattutto il quotidiano dei PFM, che affrontano una realtà diversa… e lì ovviamente ti metti in fila come tutti; guardi, prima a sinistra, poi a destra, perché se no ti tirano sotto con le macchine… Non ultimo, il conoscere tutta una serie di personaggi, che gravitavano attorno alla scena inglese dell’epoca, dai quali, quando accade una rivoluzione musicale-culturale e ti trovi al centro di quegli avvenimenti, tu assorbi tantissime energie. Non è un fatto di imitazione, noi non abbiamo mai imitato nessuno, quanto piuttosto di vivere quella realtà, lì sul posto.»

PFM 02_musicaintornoRaccontavi dell’impatto con il mercato discografico inglese e americano… Com’è stato?

«Sono un collezionista di tutto quanto fatto dai PFM. Avevo una cassetta dei nostri primi concerti del ’71, in cui eseguivamo delle cover e, tra quelle, c’era anche “21st century schizoid man” dei King Crimson

… Quando vennero in Italia, il nostro manager dell’epoca Franco Mamone, promoter di quel concerto, diede a Greg Lake (voce dei King Crimson, ndr) quella “famosa” cassetta, dicendo: “Ascolta la mia band e fammi sapere cosa ne pensi”. Mesi dopo Greg lo richiamò, molto incuriosito, perché quella versione di “21st century schizoid man” lo aveva particolarmente stupito, aggiungendo: “Io non ci credo che questi suonino realmente così, voglio vederli con i miei occhi!”. E venne a Roma, in un concerto strepitoso, dove alla fine, quando salimmo per il bis, prese il basso e si mise a suonare sul palco con noi; poi ci invitò a Londra per un’audizione, di fronte ai manager della miglior parte di tutta la discografia inglese dell’epoca… In quel teatro dove facemmo il provino, venendo poi scritturati, perché rimasero colpiti dall’esecuzione di tutta una serie di brani particolari… beh, in quello stesso teatro provavano gli Yes, i Jethro Tull, i Genesis, gli Emerson, Lake & Palmer… Questo è stato l’inizio della storia. Tutto abbastanza casuale, ma con la tenacia di chi è capace di buttare sempre il cuore oltre l’ostacolo.»

PFM 04_musicaintornoIn quel di Londra, inevitabilmente, si condivide anche il piacere nell’acquisire alcune usanze tipicamente british. Ad esempio, com’è sorseggiare il tè in casa di Peter Gabriel?

«Lo ricordo come un bellissimo momento. Suonammo con i Genesis a Pesaro, fu il loro primo concerto in Italia…

… Ci conoscemmo lì, poi ci rifrenquentammo quando vennero a Milano, infine ci rincontrammo quando fummo noi ad andare in Inghilterra. All’epoca era così. Ci invitò un pomeriggio, a casa sua, Peter Gabriel, ad ascoltare la musica, per stare un po’ insieme. Il tè inglese è un’esperienza indimenticabile, loro lo fanno con quel velo di crema di latte, nella teiera giusta… Mi sovviene un episodio clamoroso: in Inghilterra tutti cercavano di avere uno show incredibile, quindi ci mettevano dentro gli effetti speciali, certo speciali per l’epoca: Emerson usava la frusta e gli attrezzi di cuoio; Greg Lake aveva il tappeto indiano, perché gli dava le “good vibrations”; io non avevo niente, però una volta, mentre suonavo sul palco, un palco che era un po’ a schiena d’asino, e avevo il supporto dei gong con le rotelle, al primo colpo di gong questi cominciano a camminare. Man mano camminano e mi vengono addosso. E mi seppelliscono. Mi ricordo che fui seppellito sotto una montagna di ferraglia, perché caddero giù anche i piatti e tutto il resto… Da fuori sembrava una scena apocalittica, fantastica… Tutto questo per dirti che il nostro senso dello spettacolo era molto artigianale: suonare molto, suonare bene; mai vestirsi apposta per fare… che era poi l’esatto contrario del “british way of business”. Oggi, sotto certi aspetti, siamo cambiati in meglio, ma non sono riusciti a farci peggiorare.»

A proposito di aneddoti, Franz, racconteresti alla nuova generazione dei vostri followers com’è nato l’acronimo PFM?

«È nato dal fatto che in Inghilterra non riuscivano a pronunciare questo nome assurdo, nonostante io gli spiegassi il significato di “bakery”, panetteria. È la prima volta, poi, che usiamo quella parola, “bakery”; forneria era già un’accezione diversa rispetto a panetteria… Ci piaceva l’idea che il nostro nome fosse legato alla manualità, all’artigianalità… il sogno era questo: noi facciamo musica, come il fornaio impasta il pane. All’epoca, c’era la moda dei nomi con gli animali, e noi volevamo spezzarla, anche perché ormai li avevano avvistati tutti… Ci siamo detti “facciamo una cosa assurda, un nome lungo”, era quello lo spirito. Quando, poi, ci siam ritrovati a raccontare tutto questo in Inghilterra, come io lo sto raccontando a te, prova a immaginare… Fu allora che nacque PFM.»

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Artigianalità nella musica e incontri scanditi al suono del tempo. Uno straordinario compagno di viaggio è stato Fabrizio…

«… L’abbiamo cercato. Un altro inguaribile pazzo scatenato, poeta, sognatore… Andai a proporgli una cosa improponibile per chiunque, e lui accettò. Quando le persone si incontrano, accade perché hanno delle affinità. Fabrizio era un altro artista al quale stava stretto qualsiasi tipo di vestito, da quello di cantautore a solo poeta, o solo musicista… Quando ci fu la possibilità di andare a vedere cosa ci fosse oltre l’orizzonte, lui accettò. Questo ha creato un momento, nelle pagine della musica italiana, direi irripetibile. La creatività nasce dalla felicità di sperimentare, mettendo in gioco il presente. Non dalla paura di farlo. In quell’andare per andare, Fabrizio De André è stato un fantastico compagno di viaggio. Nei nostri concerti non mancano mai dei brani di Fabrizio, perché sono brani anche nostri, e quel modo particolare di eseguirli è solo dei PFM. Quella nostra capacità – come lui stesso riconosceva – di dare un nuovo abito musicale a delle canzoni poeticamente fantastiche.»

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Prima di concludere, continua a frullarmi per la testa un pensiero e gli do voce… Franz Di Cioccio sale in cattedra: lectio magistralis su “Storia della Musica prog”. C’era una volta? O sarà ancora “Celebration”?

«Sarà ancora celebration, è sempre celebration! Celebration è l’inno alla musica. La musica serve per unire le persone, per dare gioia, felicità. È questo celebration.»

Rilanciando ancora con più enfasi:

«Mi piace raccontare queste cose, perché poi sul palco mi do veramente, per cui non sono parole vuote; sono parole cariche di sudore, di entusiasmo, di energia… che do alla gente e dalla gente ricevo in cambio. Io sono semplice, perché è così che si fa la musica.»

 

 

Gino Morabito

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