PAOLO BENVEGNÙ, DELL’ODIO DELL’INNOCENZA E DELLA FELICITÀ

 

Scrittura abissale, quella di Paolo Benvegnù, da cui traspaiono rassegnazione, umanità, disgusto, amore. Pensieri scarni e intensi che si fanno universali e senza tempo. Tutto l’album Dell’odio dell’innocenza è pervaso di dicotomie e contrasti. Sonorità delicate e maestose. Una plurievocazione del silenzio, del vuoto, dell’infinito, del senso perduto delle cose.

L’immensa capacità autoriale e interpretativa del cantautore milanese è quella di smuovere l’ascoltatore nella testa e nell’anima. L’intensità del significato, delle parole, del suono, della melodia, agisce, sia a livello epidermico che concettuale, insinuandosi a ogni ascolto nel sangue. L’arte di Paolo Benvegnù si fa strada tra i pensieri e il cuore con un senso di assoluto e dolorosamente bello, che ci ridona una fugace presenza di felicità.

“Dell’odio dell’innocenza”, la genesi di un album, che prende le mosse da un misterioso cd recapitato a Paolo Benvegnù da un anonimo.

«Vivo ormai più realtà differenti e non mi riferisco a quelle digitali. Nella mia esistenza sono presenti tantissime altre realtà nelle quali mi confondo: ne esiste una in cui io ho scritto questi pezzi insieme ai miei compagni e un’altra in cui mi sono arrivati in altro modo, attraverso una busta contenente un cd con undici brani chitarra e voce, che poi ho elaborato insieme ai miei compagni. Sono realtà adiacenti fondamentalmente. Tutto l’escamotage sta nell’essere altro da sé. Non so quale delle due realtà sia più collimante, forse la prima, cioè quella in cui io ho scritto questi pezzi, ma non sono sicuro che sia così.»

Non sono poi così lontane queste due realtà, nella visione in cui l’artista fa da catalizzatore a idee che gli giungono in qualche modo da un altrove.

«Questo è un momento importantissimo per chi interpreta, e io non sono mai stato interpretante: ovvero, lo sono stato dal punto di vista dell’idea primigenia, delle piccole intuizioni. Interpreto come tutti quello che succede e che ci succede durante la vita. Però non sono mai stato un interprete di brani di altri. Mi piacerebbe essere una cantante meravigliosa come Nina Simone, ma purtroppo mi è preclusa questa possibilità. Non posso fare altro allora che immaginarmi altre realtà.»

Sei stato però interpretato da altri, tra cui Mina.

«Certe cose capitano, mi succedono e ne sono molto felice, anche se spesse volte non ne sono attore. In tutti questi casi non sono mai stato io a spingere perché queste cose accadessero.»

Il titolo dell’album e dei brani che lo compongono sono molto evocativi, più volte ricorre l’infinito.

«I titoli hanno una loro importanza, tanto è vero che adesso, quando mi capita di leggere i titoli dei giornali, penso che i titolisti non son più capaci di scrivere titoli belli, interessanti. Dell’odio dell’innocenza fa parte di quel tipo di intitolazione che potrebbe essere di un romanzo dell’Ottocento, tipo Dei delitti e delle pene.»

Innocenza intesa come purezza o come opposto di colpevolezza?

«Innocenza intesa come cecità, e nella cecità tutto si confonde. Però hai esattamente centrato! L’innocenza è uno stato che si addice all’infanzia e non all’età adulta. Un adulto innocente ha comunque in sé delle schegge di colpevolezza. È normale che sia così e non c’è nulla di trascendentale. È il vecchio gioco della luce e dell’ombra. Se stai tanto nell’ombra, la luce anche più tenue ti appare accecante.»

Numerosi i riferimenti alla natura, in contrapposizione a un’evoluzione umana, inesorabilmente diretta verso il futile. La sensazione che la salvezza sia nel silenzio, nell’isolarsi in piccoli mondi, che riportano a un infinito, a un senso totale.

«Trovo che si sia perso il senso dell’essenziale. Essere nel centro della propria esistenza significa non usare nulla che non sia essenziale, che non sia strettamente legato alla ricerca della felicità. Ritengo che in questo nostro momento storico, nel primo mondo dove viviamo, ci sia un surplus di eccesso che mi toglie il gusto di essere trasgressivo e tangente rispetto alle cose. Se anche la trasgressione diventa futilità, se il rap è cantato nei cartoni animati dei bambini, allora è l’annullamento di ogni tipo di schieramento. Anche se dico che conosco gli umani e preferisco le pietre, sono uno che si abbandona sempre al miracolo che è il respiro dell’altro. Quello che sento è che non c’è mai stato come in questo momento un così forte bisogno di padri, di madri, di amore vero, totalizzante. E di odio totale.»

Il primo estratto, “Pietre”, è molto scuro a tratti, in altri invece lascia un respiro delicato. Il tutto ben sottolineato dal meraviglioso video che lo accompagna.

«È stato girato in un posto bellissimo, un luogo veramente sacro, la cavea del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino. Di posti ne ho girati tanti, ma vedere un luogo post moderno che ha la stessa sacralità del Teatro di Taormina o di Siracusa, è incredibile. Sono nato a Milano ma mi sento fiorentino fino al midollo.»

Dei testi dell’album mi ha molto colpito la frase “è la prima volta che non voglio morire”.

«Sono sempre andato verso un’autodistruzione interessante e invece adesso un po’ mi darebbe noia, accidenti! Ho una bimba di tre anni e sento finalmente l’energia da ogni altrove. Mi dispiacerebbe andarmene via proprio ora, che ho scoperto che gli alberi veramente danzano al vento.»

 

Cosa pensi della scena musicale attuale, intravedi qualcosa di interessante che si prospetta all’orizzonte?

«Sono deluso da questa grande corsa all’oro, che c’è sempre stata e che mai come in questo momento mi sembra efficacemente supportata dagli esseri umani che la vanno a perpetuare. Vorrei entrare in un cinema e vedere un film che mi spacchi in due; andare a un concerto e che qualcuno mi dicesse delle cose che non so; leggere un libro di un contemporaneo, di un ventiduenne, che mi spalanchi una percezione completamente diversa. Non mi è capitato, probabilmente sono io che sono disattento. Facendo leva sul bellissimo motto di Bergonzoni, “non è il successo, ma far succedere”, uno sceglie liberamente se fare successo o se far succedere le cose. E io penso che sia giusta la seconda.»

 

Ginevra Baladassari

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