La musica è portatrice di arte e di bellezza, ma è anche un mezzo per veicolare messaggi importanti e per esprimersi in ogni sfaccettatura della propria personalità.
Lo sanno benissimo i componenti dei Jazzincase, Kiki Orsi (voce), Luca Tomassoni (basso e contrabbasso) e Claudio Trinoli (batteria), che nel loro ultimo lavoro, The second, hanno abbracciato tutti questi aspetti, regalandoci un modo di fare jazz molto versatile e fruibile all’orecchio. Ne abbiamo parlato con la magnetica Kiki.
Il tema dominante di “The second” è la bellezza, che come una sorta di leitmotiv ritorna in tutti i brani del disco, declinandosi in forme diverse: dalla bellezza esteriore a quella di amare, alla bellezza delle piccole cose. Come nasce l’idea?
«Non è un’idea voluta, non siamo partiti con l’intenzione di realizzare un concept album sulla bellezza. Semplicemente, abbiamo scritto questi pezzi seguendo le esigenze espressive del momento e, nel metterli insieme, ci siamo accorti che c’era un filo conduttore che li legava. Non l’abbiamo ricercata, è stata la bellezza a venire da noi.»
Invece a livello musicale qual è il filo conduttore del disco?
«Le radici sono quelle dello smooth jazz, che si basa sulla commistione fra generi. Se dovessi tradurlo in un’immagine, sceglierei una strada, sulla cui corsia principale corre il jazz ed altri generi lo affiancano sulle corsie laterali: pop, swing, r’n’b, bossa, lounge, funk. Nel disco abbiamo voluto sottolineare l’idea di contaminazione tra generi e la versatilità comunicativa che così si ottiene. Tenendo il jazz come base, lo si contamina con sonorità diverse a seconda di cosa si vuole esprimere in quel determinato brano.»
Oltre agli inediti, in “The second” presentate una serie di cover di brani molto famosi come ad esempio Sweet dreams ed Every breath you take. Si potrebbe parlare di jazz in chiave pop?
«Io direi pop in chiave jazz! Abbiamo riarrangiato dei brani iconici del pop rock e della disco music, cosa che amiamo fare e alla quale non siamo nuovi. Infatti, nel primo album avevamo proposto la nostra versione jazzy di Back to black di Amy Whinehouse, ottenendo feedback molto positivi. Fare cover di brani così noti ci diverte ma è anche un azzardo, perché gli affezionati dei mostri sacri in questione potrebbero non prenderla proprio bene. Però la musica è libertà di espressione, e a noi piace esprimerci anche così.»
Nel brano Beautiful like me (a paper doll) toccate un tema importante, quello dei canoni estetici troppo rigidi che la società moderna spesso impone. Qual è il messaggio che volete comunicare?
«Ci piacerebbe trasmettere l’idea che ognuno di noi possa guardarsi allo specchio e piacersi per quello che è. L’accettazione di sé stessi è ciò che dà vero valore alla vita. Al contrario, desiderare continuamente di essere o di assomigliare a qualcun altro può essere molto pericoloso. Il brano parla della tipica ragazza della carta patinata, che all’apparenza vive nello scintillio dei riflettori e delle kermesse di moda, ma che poi, quando le luci si spengono, si mostra come una bambola di carta – “a paper doll” appunto – in tutta la sua fragilità e solitudine. È la storia di tante ragazze e ragazzi di oggi, che, per inseguire canoni estetici troppo rigidi, finiscono per ammalarsi nel fisico e nella mente.»
Avete dedicato questa canzone a Julie. Ti andrebbe di raccontarci la sua storia?
«Conobbi Julie quando aveva solo 14 anni. Era malata di anoressia e purtroppo ne morì. La sua storia mi è rimasta nel cuore e la canzone Beautiful like me fu scritta proprio per lei a quel tempo. Poi è rimasta chiusa in un cassetto per anni, come se anche lei necessitasse di tempo per elaborare il dolore, ed ora è riapparsa in omaggio a Julie e con la speranza che possa far riflettere.»
Come contribuisce la musica a sensibilizzare su questa e altre tematiche così delicate?
«La musica riesce a sensibilizzare perché è di per sé un messaggio, anzi, forse è lo strumento comunicativo più potente che esista, perché può arrivare a un gran numero di persone e rimanere nel tempo.»
Continuando a parlare di bellezza, pensi che l’aspetto esteriore sia importante per un musicista?
«Dipende, ma in generale direi di sì. Curare la propria immagine è importante, soprattutto – ma non solo – per chi fa un lavoro come il nostro, che ha una forte componente visiva. Ed è qualcosa di naturale perché è espressione di quell’esibizionismo tipico di noi musicisti. Ricordiamoci che molti grandi artisti sono passati alla storia anche per la loro immagine e per i loro look, tanto da diventare delle vere e proprie icone di stile. Basti pensare a Madonna, ad esempio.»
Missis Hyde è un brano interessante. È in francese, come se a cantare fosse proprio la femme fatale di cui si parla nel testo. Ma sembrerebbe esserci un doppio significato: si parla anche di droga?
«Proprio così, Missis Hyde è un brano sulla droga. Abbiamo usato la metafora della donna ammaliatrice che seduce e abbandona per esprimere, in realtà, il concetto che la droga ti trasporta in mondi effimeri e solo in apparenza appaganti, per poi presentarti un conto salatissimo. Le sostanze stupefacenti vengono usate per colmare lacune, placare ansie, sentirsi meglio, evadere, ma tutti sappiamo quanto si rivelino distruttive e letali in molti casi. Se dovessi dirlo in una frase, il senso della canzone sarebbe: “Stammi lontano, perché alla fine ti distruggerò la vita”. L’uso della lingua francese è un espediente per conferire alla voce del brano un’aria volutamente – concedetemi il termine – da “stronzetta”.»
“The second” è un album ricco di collaborazioni. Tra queste ce n’è qualcuna che vi sta particolarmente a cuore?
«Tutte, assolutamente! Più che collaboratori si tratta di amici, oltre che di artisti di grandissimo valore: Luca Scorzello, percussionista di Anna Oxa e Tosca; Toti Panzanelli, un chitarrista che ogni volta mi emoziona; Alessandro Deledda, un ‘geniaccio’ del pianoforte, e tanti altri che ringraziamo davvero col cuore. Quest’album è come se fosse il risultato di una riunione di famiglia, in cui ognuno ha dato il suo prezioso contributo.»
Cosa pensate della scena musicale italiana attuale? Un progetto come il vostro trova il giusto spazio?
«No, perché la scena musicale italiana si mostra poco aperta alle novità! Ad esempio, siamo tagliati fuori dal circuito radiofonico perché i nostri brani spesso superano il minutaggio standard. Inoltre, lo smooth jazz è di per sé un genere innovativo basato sulla commistione tra stili, che non trova una facile collocazione all’interno del panorama italiano, troppo spesso inquadrato in schemi tradizionali. Il jazz ha un suo perimetro ben preciso e noi non ci rientriamo totalmente, proprio perché amiamo sperimentare e mescolare i generi.»
Che piani avete per il futuro?
«Il progetto Jazzincase è in continua evoluzione, tutto può cambiare e trasformarsi. Da una parte, siamo rivolti verso l’internazionalità, ma dall’altra continueremo a perseguire un’affermazione anche in Italia. Per il futuro stiamo pensando a una serie di concerti nelle piazze delle maggiori città europee ed italiane. Vogliamo portare la nostra musica per strada e tra la gente, accattivare le persone che si trovano lì sul momento e di passaggio, senza sapere esattamente chi avremo di fronte. Vedere come cambia l’espressione dei loro volti grazie alle nostre note.»
E anche noi di Musica Intorno speriamo presto di poter “incappare per caso” nella musica dei Jazzincase. Sarebbe un bel modo per ritrovare il sorriso, magari dopo una giornata andata storta, e farci sognare. Anche solo per qualche minuto.
Federica Lauda