GIOVANNI SCIFONI, CHE DIO LO BENEDICA!

Di Gino Morabito

Un talento artistico dalla portata innovativa e affascinante, quello di Giovanni Scifoni. Attore, scrittore, drammaturgo, regista, con la capacità di spedire lo spettatore in un vero e proprio “coma comico” dove, quando tutto finisce, ci si sorprende a pensare che quella battuta lì non era poi così sciocca.

Tra le nuove scene di “Doc 3”, i podcast per la radio, i video su YouTube e una jungla familiare popolata da moglie e tre figli, riesce a ritagliarsi anche il tempo per confrontarsi con San Francesco. Lo fa con una pièce da lui stesso scritta e interpretata.

«Non volevo raccontare Francesco. Poi, vari amici mi hanno detto: “Devi fare qualcosa su San Francesco!”. Allora ho cominciato a leggere le fonti francescane e ne sono stato rapito. Sono stato sequestrato da Francesco e, a mano a mano che leggevo, mi rendevo conto di come non esistesse un Francesco, bensì un arcipelago di Franceschi. Per questa ragione su di lui sono stati girati tanti film, scritti molti libri e messe in scena diverse opere teatrali.»

Una fede che è entrata in molti dei suoi lavori teatrali come “Le ultime sette parole di Cristo”, “Guai a voi ricchi”, “Santo piacere”.

«La fede nel Vangelo. È da lì che sono partito per raccontare tutte le crisi, i paradossi, le discussioni infinite con genitori e amici. I dubbi creavano una fortissima comicità a mia insaputa, e il messaggio è arrivato.»

Quarto di sei figli, ha affrontato le proprie crisi iniziando a lavorare come attore.

«Ero arrivato a pensare che si potesse fare a meno della fede. Poi ho capito che quello che mi avevano consegnato i genitori non era un prontuario per diventare una brava persona, ma l’incontro con Gesù che mi accettava per quello che ero.»

 

Il libro del Siracide recita: “L’uomo nella prosperità non comprende”.

«La soddisfazione è un’arma molto insidiosa. È degna di una persona che ha fatto un lauto pasto, è sazia e non ha più appetito. Invece, una piccola dose di soddisfazione è quella fame che ci permette di essere curiosi, di vedere cosa c’è al di là di noi stessi.»

Fuori c’è tutto un mondo che continua a fornire stimoli creativi.

«Gli stimoli provengono dall’osservazione della realtà, da tutto ciò che ci mette in crisi. Uno degli stimoli più forti, più sinceri in assoluto, è la necessità di dover lavorare per portare a casa il pane.»

L’uomo ha bisogno di storie. Ma l’arte del raccontare è un’operazione faticosa: bisogna reinterpretare la realtà, renderla affascinante.

«Purtroppo le persone, un po’ per noia o per pigrizia, adottano molto spesso il racconto più immediato, più semplice, che è quello di parlare male di qualcuno. È di certo un tipo di racconto che genera empatia, emozioni, cattura subito l’attenzione del nostro interlocutore. Tuttavia evoca anche un grande assente: l’oggetto della maldicenza.»

Chilometri di pellicola della commedia italiana raccontano i vizi e le piccolezze del Belpaese.

«Un egoismo feroce, il senso della difesa del potere dall’ingerenza esterna, dagli altri, dallo Stato che è visto come una minaccia, con la sua burocrazia, con le sue tasse… Tutti gli italiani si comportano con la “cosa pubblica” come ci si comporta ai buffet nei matrimoni, quando bisogna aspettare l’arrivo degli sposi prima di poter toccare gli antipasti. È uno dei momenti più drammatici, perché gli invitati hanno fame e cominciano a odiare i due ospiti che non arrivano mai. Una volta aperto il buffet, ci si butta voracemente sugli antipastini e si mangia molto più di quello di cui avremmo bisogno. Ecco, l’italiano si comporta così con la cosa pubblica, con lo Stato, con i beni di tutti: arraffiamo il più possibile per paura che poi non ce ne sia più.»

 

Un percorso professionale, quello dell’attore romano, dove ha più volte incrociato l’inarrivabile Gigi Proietti. Un maestro della scena che, tra una mandrakata e l’altra, ci ha insegnato l’arte della leggerezza.

«Gigi Proietti era un’automobile in folle giù per la discesa: qualunque battuta gli scivolava addosso con una semplicità, con una leggerezza, come se stesse dicendo la cosa più normale del mondo e invece aveva fatto il triplo salto mortale. Riusciva ad essere semplice, quotidiano ed estremamente saporito. Questa è una caratteristica che mi piacerebbe essere riuscito a “rubargli”.»

Giovanni Scifoni esordisce nel cinema con “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana. Quello era il ritratto di una generazione che affondava le radici negli anni Sessanta-Settanta. Oggi le cose vanno diversamente.

«Non c’è mai stata una sola gioventù, ce ne sono tante. Esiste sicuramente una grande fetta di giovani che ha bisogno di essere continuamente intrattenuta, stimolata. Ragazzi che, non essendo in grado di crearsi da soli un contenuto appagante, hanno bisogno di cercare altrove l’intrattenimento. Esiste poi un’altra fetta di ragazzi, più piccola, che ha desiderio di assoluto, di profondità. Giovani che hanno una forte spiritualità, che hanno fame di contenuti importanti.»

Si rendono necessari autentici esempi di vita da testimoniare concretamente nel quotidiano.

«L’ho visto tutti i giorni il modo con cui i miei genitori si sono presi cura l’uno dell’altra. Due persone profondamente imperfette che sono riuscite ad amarsi, anche nei loro limiti. Questa è una prova dell’esistenza di Dio. E vorrei che fosse così anche per me.»

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