“DA MANHATTAN A CEFALÙ”, UN VIAGGIO NELLA MUSICA CHE HA LA GRAZIA DI ARRIVARE AL CUORE

Mi fa dono di “Mare amore mare mio”, invitandomi ad ascoltarla in cuffia. Poi mi ringrazia sentitamente. E dire che il nostro confronto era cominciato in salita: due siciliani permalosi con il limite della propria presunzione. Catania-Messina si preannuncia un derby focoso, giocato di fino ma, alla resa dei conti, vince la musica.

Vince la musica quando esprime la verità, quella verità intrinseca in un forte attaccamento identitario, l’appartenenza a un luogo unico e insostituibile che ti mette in comunicazione con il mondo. Vince la musica alla continua ricerca del confronto, che tende alla bellezza, all’essere trascendentale, all’assoluto. Vince la musica declinata nelle forme compositive del jazz, il jazz made in Sicily di Santi Scarcella.

Fautori del nostro incontro Giovanni e Adriano Smiroldo, due amici fraterni che mi raccontano entusiasti di un lavoro discografico intitolato “Da Manhattan a Cefalù”. Nel giro di una focaccia alla norma e una bionda alla spina, Santi Scarcella diventa, per la proprietà transitiva, l’amico d’infanzia trasferitosi a Roma, che non sento da tempo e ho voglia di chiamare. Nonostante i vent’anni nella Capitale non ha perso l’accento d’origine. E ne va fiero.

Mi racconta di un progetto estremamente articolato, arrivato fino alla Uconn University, l’università americana che ha approvato la sua profonda ricerca, partita dai canti di lavoro siciliani messi a confronto con il blues americano. Santi ritrova degli elementi in comune, tali da portarlo al recupero della storia sulla nascita del primo jazz targato Sicilia. “Da Manhattan a Cefalù” è l’ennesima occasione per riconoscere la figura dei tanti migranti italiani che affrontano con coraggio nuove partenze per raggiungere nuovi traguardi.

«Il sogno sarebbe partire per scelta e non per necessità» continuando il jazz man appassionato.

Il racconto si arricchisce di particolari, di sfumature della voce che suonano come note. Santi Scarcella mi prende per mano, accompagnandomi in un viaggio fatto di scoperta, rispetto, condivisione. Un viaggio in quella musica che ha la grazia di arrivare dritto al cuore della gente. Un viaggio che vi esorto a intraprendere, senza esitare. Amuninni.

 

Santi, mi verrebbe subito da chiederti: “Quando non sai cos’è, allora è jazz”?

«È una citazione che parte da lontano, dall’America di Duke Ellington, di Louis Armstrong, fino ad arrivare alla penna di Alessandro Baricco e al suo “Novecento”. Quando non sai cos’è, è musica che va alla ricerca della bellezza. La bellezza è per me trascendentale, va per sé in verticale, è assolutismo. Quando non sai cos’è, allora è bellezza.»

La ricerca della bellezza affrontata in un viaggio musicale “Da Manhattan a Cefalù”. Com’è partire da casa?

«Questo nuovo progetto, ancora una volta, parla di quei tanti migranti che sono dovuti partire da casa alla ricerca di sé stessi. Ed è assurdo che, alle soglie del 2020, si parli ancora di migranti come se fossero l’ultima ruota del carro, quando nella storia alcuni di loro hanno scoperto la cura delle malattie, l’elettricità… e perfino il primo jazz è stato scoperto dai siciliani.»

Joseph Lovano di Cleveland ha origini siciliane.

«Joe Lovano, uno dei più grandi musicisti del mondo, originario di Alcara Li Fusi (in provincia di Messina, N.d.R.), è diventato Joe Lovano perché stava in America? Questo è il punto. Forse Joe Lovano ha voglia di tornare a casa. Quando l’ho conosciuto mi ha detto: “Please, don’t call me Joe. Call me Peppino.”. “Da Manhattan a Cefalù” è l’ennesimo viaggio di un migrante che vuole tornare a casa, e lì essere riconosciuto per tutto il percorso che ha fatto. Ed è il motivo per cui ho deciso inconsciamente di presentare il mio disco a Zafferana Etnea, probabilmente per sfatare il “nemo propheta in patria”.»

Ti stai preparando per la presentazione del disco sia fisico che dinamico con il sistema Nufaco, che avverrà il 21 agosto presso L’anfiteatro di Zafferana Etnea. Perché venirti a vedere dal vivo?

«Io sono un performer, ed è giusto che un performer offra dal vivo la propria simpatia e la propria capacità tecnica. Una risposta scontata potrebbe essere: “Venite e vedrete.”. Ma, alla fine della fiera, ti direi: “Uno spettacolo non è fatto solamente sul palco ma anche dagli spettatori. Se venite, sarà anche il vostro spettacolo”.»

Lo spettacolo di un siciliano per i siciliani. Cosa rappresenta il Sud nella tua vita?

«Il Sud nella mia vita è tutto. Il Sud rappresenta la nostra forte identità, che nessuno di noi vuole perdere.»

Dalla Sicilia alla Capitale. Il luogo, le abitudini, gli odori… in che modo influenzano la tua espressione artistica?

«È chiaro che, inevitabilmente, un altro luogo possa incidere sulla tua forma compositiva. E questa è una grazia ricevuta: cioè la possibilità di vedere il mondo sotto molteplici sfaccettature. Però l’idea che io debba cantare romano, mi sembrerebbe una forzatura.»

… “Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quel che lascia, e non sa quel che trova” ammonendo l’amico musicista.

«Il coraggio è stato quello di una Sicilia che incontrava il mondo. E, per incontrare il mondo, devi uscire fuori, ma non rinnegando la propria terra e le proprie origini. Mai. Bisogna partire, andare. Perché, se parti, hai la possibilità di confrontarti. Del resto il primo jazz è nato dall’incontro di diverse culture. Le cose nuove nascono nei momenti più strani della storia, nei momenti più difficili dell’uomo, nei momenti in cui devi necessariamente parlare una lingua con un unico comune denominatore, in questo caso la musica.»

Quello di Santi Scarcella è l’esempio di un jazz della Sicilia americanizzata o dell’America sicilianizzata?

«Spontaneamente ti direi: “Nessuno dei due!”. A me interessa l’uomo. Poi, che viva in America o abiti in Sicilia, non è questo il punto. Nella mia ricerca personale, approvata dalla Uconn University, ho potuto notare che i canti di lavoro siciliani sono estremamente simili ai blues americani. A ragion veduta, l’America è sicilianizzata, ma non come si è soliti immaginare: mafia, pizza e mandolino. L’America è sicilianizzata grazie ad Al Pacino, Frank Sinatra, Joe Lovano, Chick Corea… grazie a tutti quei figli di emigranti, o emigranti a loro volta, che hanno dato un vero contributo a una grande nazione.»

Nel tuo nuovo progetto discografico affronti anche il tema della “disabilità del cuore”: ovvero l’“incapacità di riconoscere l’altro per ciò che è veramente”. Dalla tua analisi antropologico-musicale che cosa emerge?

«Emerge la nostra paura – la definisco tale – di vedere l’altro per quello che è. Perché, vedere l’altro per quello che è, vuol dire guardarsi allo specchio. Delle volte, nel mio spettacolo faccio salire sul palco un mio alunno, un ragazzo Asperger ad alto funzionamento, il quale, la prima volta che mi trovai a fargli lezione, mi vide totalmente impreparato. Continuavo a ripetermi cosa avrei potuto insegnare a un ragazzo con la sindrome di Asperger, mi sentivo inadeguato a quel tipo di insegnamento. Invece ho trovato un ragazzo che, attraverso la musica, si esprime. Ho scoperto un compositore, un melodista a cui sono riuscito a far realizzare due dischi. Il più grande insegnamento, però, lo ha trasmesso lui a me. Mi ha fatto trovare il coraggio necessario per andare avanti, vincendo la paura del confronto. Così ho scoperto un talento, ma soprattutto il suo dono.»

Credi che dalla musica, dalla tua in particolare, possa emergere la verità? O, se preferisci, qual è la verità del jazz di Santi Scarcella?

«Se c’è una verità, nella mia musica, è il forte attaccamento a un’identità. Se un uomo non sa chi è, non può assolutamente arrivare, non può comunicare, perché sarà sempre una maschera. Spero che ci sia sempre la verità nella musica che faccio, nella musica che scrivo, nelle canzoni che compongo… anche nell’album “Da Manhattan a Cefalù”. Spero che possa emergere la verità, perché nella verità c’è Dio. E cercare Dio significa cercare la verità.»

 

La verità è anche quella che, negli ultimi anni, purtroppo, si è registrato un aumento delle varie forme di intolleranza nei confronti dell’altro.

«La gravità è proprio questa, un’intolleranza che non è più alimentare ma è un’intolleranza all’uomo: “Quello non lo sopporto, quello mi sta sulle palle, quello lo ammazzerei…”. Da piccoli non ci facciamo caso ma, crescendo, tutto questo scartare continuamente, ci porta ad essere soli. La condivisione è una delle grazie più grandi che possiamo ricevere nella nostra vita. Condividiamo soprattutto il rispetto dell’altro!»

Ipotizzando un’ideale quadratura del nostro cerchio musicale, condivido un pensiero che ho fatto mio: “L’arte non ha un tempo e non ha un luogo”. E rilancio: cos’è per Santi Scarcella la vera arte?

«L’arte è la ricerca della bellezza, e noi siamo i veri artefici della ricerca. Quando entri nella Cappella Sistina e vedi quella meraviglia, ti senti meglio; quando ascolti un brano di Morricone, sei pervaso da uno stato di benessere. Quando sei in presenza di un’opera d’arte, non c’è bisogno di parlare.»

L’arte, mio caro Santi, è curativa.

«Esattamente, l’arte è curativa! Il cuore cambia. L’arte ha la grazia di poter arrivare dritto al cuore della gente.»

 

Gino Morabito

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