CLAUDIO CECCHETTO, CON LA MISSION ARTISTICA DI CAMBIARE IL MONDO

Conobbi Deejay Television nel 1987, avevo undici anni. Il programma si era imposto, già dall’‘83, grazie al ritmo e alla spigliatezza dei conduttori: Jovanotti, Fiorello, Amadeus, Gerry Scotti, Leonardo Pieraccioni… volti e carismi di personalità artistiche tra le più note e apprezzate dello spettacolo italiano. Una Deejay’s Gang, come si facevano chiamare, raccolta sotto lo stesso minimo comune denominatore:

Claudio Cecchetto, produttore discografico, disc jockey, personaggio televisivo, che per il talento ha sempre avuto un fiuto infallibile.

«È necessario avere il talento per riconoscere il talento» mi racconta lo Steve Jobs veneto, in un confronto che ha visto il fondatore di Radio Deejay manifestarmi il proprio punto di vista senza filtri, né reticenze: «Ho avuto la possibilità di infischiarmene delle esigenze pubblicitarie, realizzando così un prodotto realmente libero.»

Senza falsa modestia, cavalca i successi che ha ottenuto da quel lontano 1975, quando approda a Radio Milano International, passando per Telemilano 58 (la futura Canale 5), la cui direzione artistica era affidata a Mike Bongiorno, alla prima apparizione in Rai nel programma Discoring di Gianni Boncompagni, fino alle tre conduzioni consecutive del Festival di Sanremo e al riempipista “Gioca jouer”.

Che il talento è un dono e il successo un mestiere lo sa benissimo Claudio Cecchetto, così come conosce da sempre il senso della sua mission artistica: arrivare al numero uno e cambiare il mondo.

Claudio, cominciamo dalla radio.

«Il mondo della radio ha avuto inizio con una decina di persone, in modo molto goliardico: non c’erano altre mire se non la passione. Adesso è diventato una macchina perfetta, che non può permettersi il lusso di sperimentare, come si faceva una volta, quando non avevi nulla da perdere. Le prime radio pirata, come si chiamavano allora, erano paragonabili a un orticello; oggi, invece, i grandi network coprono tutto il territorio italiano. Si riesce ancora ad ascoltare qualcosa di naïf solo nelle piccole emittenti private, quelle dei paesi, ma il prodotto radiofonico è diventato industriale: una catena di montaggio, dove tutto dev’essere perfetto.»

Da Radio Milano International alla fondazione di Deejay.

«Non smetterò mai di ringraziare l’editore di Radio Milano International, colui che, nel 1975, mi ha iniziato a questo mondo. Quando ho fondato Deejay, nel 1982, avevo le possibilità economiche per farlo. Perché il sogno di ogni disc jockey è quello di creare la propria radio.»

Quella radio dell’‘82 che marcia in più aveva rispetto alle altre?

«Le altre erano fatte da editori, mentre Deejay è stata la prima e unica radio fondata da un disc jockey, ovvero da qualcuno sapeva benissimo quale fosse il desiderio delle persone che lavoravano là dentro: cambiare il mondo.»

Tu quale parte di mondo hai cambiato?

«Le radio erano ormai nate da sette anni e nell’’82 avevo realizzato quanto gli editori fossero già condizionati dal mercato pubblicitario: non c’era più evoluzione, non si faceva più ricerca. Il mezzo radiofonico costava e, non essendoci canoni, bisognava necessariamente prendere i soldi dalla pubblicità, che ti imponeva il tipo di radio da fare. Io, invece, con Sanremo alle spalle e un contratto con Canale 5, per i primi 3-4 anni, ho avuto la possibilità di infischiarmene delle esigenze pubblicitarie, realizzando così un prodotto realmente libero. Mentre tutte le altre radio erano sintonizzate sulla musica italiana, che piaceva maggiormente alle massaie, io ero proiettato sulla new wave, con una programmazione di dischi (ricercati personalmente, sia in Inghilterra, sia in America) che ancora non erano arrivati in Italia. Questa – a suo tempo – è stata la grande fortuna di Radio Deejay!»

Una radio unica e inconfondibile.

«Non avevi bisogno di jingle. Giravi la manopola e, dal sound, riconoscevi la frequenza di Radio Deejay.»

Ti capita mai di pensare a quel pezzo di vita con nostalgia? Hai qualche rimpianto?

«Se dovessi pensare ai rimpianti, dovrei stilare un elenco. Ma non servirebbe a niente. I rimpianti li hai dopo aver fatto le cose, e allora devi guardare a quello che sei riuscito a realizzare. Io posso ritenermi pienamente soddisfatto dei risultati ottenuti.»

Perché, tutt’a un tratto, hai deciso di scendere dal carro dei vincitori?

«Non si tratta di scendere dal carro dei vincitori. Io avevo una mission: diventare il numero uno e fare una radio che fosse la “radio scuola”, che desse la direzione da prendere. E ci sono riuscito! Quando badi maggiormente al lato artistico e ti rendi conto che il tuo progetto comincia a ingrandirsi a dismisura, hai due strade praticabili: o diventi industriale, o rimani artista. Deejay, per continuare a crescere, aveva bisogno di capitali, investimenti, e così mi sono appoggiato al gruppo Espresso, che è entrato in società. Poi, come si vede nei film, succede che questi grossi gruppi tendano ad acquisire l’intera proprietà. Tu adesso prova a immaginare il gruppo Espresso contro Cecchetto… Economicamente, io da solo non sarei riuscito a creare un network così diffuso, e allora mi sono ritrovato a un bivio: vuoi che la tua creatura sparisca, o che continui a vivere, diventando sempre più grande e al passo coi tempi? Ho scelto la seconda opzione!»

Riusciresti, con occhio critico, a raccontarmi che tipo di radio è Deejay oggi?

«È una radio che è rimasta ferma. I ragazzi, che allora lavoravano con me, hanno imparato bene la lezione e continuano a svolgere perfettamente lo stesso compitino. Il punto è che Deejay non ha mai fatto i compitini! Radio Deejay è nata per andare sempre avanti, non per mantenersi.»

È diventata un network che non sperimenta più?!

«Purtroppo, sperimentare non è semplice, è molto rischioso. Ci devi mettere la faccia.»

È tutta una questione di brand.

«Credo che un brand, come quello che ho inventato io, sia immortale, unico, invidiabile. Qualche tempo fa, ad una premiazione, è stato conferito un prestigioso riconoscimento al brand Deejay e ti confesso che mi ha fatto un certo effetto vedere qualcun altro che andava a ritirare il premio…»

Il brand, il marchio, il progetto, sono fatti da persone che hanno grandi idee, che sanno guardare lontano. Claudio Cecchetto è stato il talent scout di numerosi artisti musicali e televisivi, tra cui Gerry Scotti, Jovanotti, Fiorello, Amadeus, gli 883, Sandy Marton, Fabio Volo, Leonardo Pieraccioni… Il tuo “fiuto” da talent scout da cosa viene attratto?

«Il talento è un dono di Dio, col talento ci nasci. Poi però bisogna saperlo riconoscere. Potrò sembrare un po’ immodesto, ma è necessario avere il talento per riconoscere il talento. Fondamentalmente, sono una persona che si annoia con molta facilità, per cui, quando ho di fronte qualcuno che mi fa divertire, perché mi propone qualcosa di diverso rispetto al solito, comincio a pensare che ci sia del talento. Una cosa, ad esempio, che ho notato in tutti i talenti che ho scoperto, è che agli altri non piacevano. Io, invece, osservo sempre la regola, in base alla quale, se c’è qualcosa che mi lascia un po’ basito, stranito, lo sono perché si sta trattando di una novità.»

Hai mai provinato qualcuno?

«Non ho mai provinato nessuno! I talenti sono in giro, li vedi, si fanno notare. Sono incontri. L’importante è partire con il primo, nel mio caso Sandy Marton; poi, quando la gente capisce che direzione hai preso nello scoprire il talento, le persone affini si avvicinano al tuo ambiente, cominciano a gravitarti intorno, inizialmente adattandosi a fare quello di cui c’è bisogno in quel momento, anche il fattorino magari, e non pretendendo di diventare subito una rockstar.»

L’incontro con Lorenzo come si svolse?

«All’epoca, avevo mandato un duo che producevo al Disco verde, dove i cantanti si esibivano in una gara testa a testa. Loro erano contro Lorenzo. Vinsero i miei, ma ciononostante dissi al responsabile dell’etichetta discografica di contattare Jovanotti. Quello che mi piacque subito di Lorenzo fu che, nonostante la sconfitta, fosse realmente contento dell’esperienza vissuta e di ritornare a Roma a fare il dee jay. Quando lo conobbi di persona, capii subito che si trattava di un tipo sereno, che si divertiva a fare quello che faceva. In quella famosa gara al Disco verde, di Jovanotti avevo apprezzato che non fosse statico, ma che saltasse, ballasse, incitasse il pubblico, si divertisse… proprio come adesso. Anche in quel caso, mentre tutti gli altri vedevano soltanto la scoordinazione di un ragazzo che le telecamere facevano fatica a inquadrare, io invece ci vedevo del talento.»

Con Fiorello, invece, come andò?

«C’entra sempre Jovanotti. Rosario venne in radio da me insieme a Bernardo, il fratello di Lorenzo. Si conoscevano perché anche lui faceva l’animatore in un villaggio turistico. Mi bastò poco per rendermi conto di quanto Fiorello fosse fenomenale, straordinario, un autentico talento, divertente e pieno di entusiasmo. Chiacchierando, poi, saltò fuori che io e lui c’eravamo già incrociati sette anni prima in un villaggio. Mi ricordo che c’era un ragazzo che mi aveva seguito per tre giorni; un animatore che si era messo a mia disposizione per illustrarmi tutte le caratteristiche del villaggio turistico. Ed era lui. Combinazioni della vita, sette anni dopo, quando venne a trovarmi insieme a Bernardo, invece di ritornare al villaggio, gli proposi di fermarsi a Deejay.»

Il talento è un dono, il successo invece?

«Il successo è un mestiere. Non appena scopri di avere un talento, devi investire, devi studiare, devi fare in modo che il tuo talento si rafforzi.»

Per un cantante o una band oggi è sicuramente più facile farsi conoscere e avere successo. Attraverso i social media e grazie alle nuove tecnologie, il pubblico può interagire con gli artisti che ama in modo diretto, in una maniera inimmaginabile fino a qualche anno fa, quando forse erano considerati un po’ più “miti”.

«Il mito appartiene al passato, e bisogna purtroppo ammettere che non ci sono più le star di una volta. Gli ultimi divi sono rimasti nel cinema, solo qualcuno – davvero pochissimi – nella musica. Si tratta di cambiamenti, evoluzioni. Una volta non si sapeva cosa fosse il mestiere e i più bravi, i più talentuosi, riuscivano ad emergere, venendo premiati con una grande popolarità, con una vera e propria mitizzazione. Adesso è sicuramente più semplice farsi conoscere, ma è più semplice per tutti! Prima c’era il mito, ora ci sono i “mitini”.»

Quali sono stati i tuoi miti del passato? E chi ti piace nel presente?

«Arbore e Boncompagni sono sempre stati i miei punti di riferimento. Ho avuto la fortuna di continuare quella scuola, ma raffrontato a loro sono un pivello. Io ho imparato da loro, loro non hanno imparato da nessuno. Hanno creato, inventato… Adesso, quelli che mi piacciono, sono quelli che piacciono più o meno a tutti. E, guarda caso, sono i miei. Si vede che vengono fuori dalla stessa “famiglia”, per il tipo di atteggiamento che hanno: un grande amore nei confronti del pubblico. Tutti i miei potrebbero fare un programma insieme, perché hanno delle affinità.»

Le stesse affinità che orbitavano nei caffè letterari di un tempo.

«Sì, quei luoghi dove si incontravano le migliori teste e, dal loro incontro, nasceva uno scambio di idee, di creatività. Il genio che stava col genio. La grossa fortuna del mio gruppo è stata che Jovanotti scambiava idee con Fiorello, con Gerry Scotti… trovandosi insieme, si sono contaminati, divenendo un corpo unico, a livello di mission.»

Qual è la prossima mission di Claudio Cecchetto?

«Sai, un conto è avere degli obiettivi a vent’anni, altra faccenda è averli alla mia età. La prossima mission è che la mia famiglia faccia la miglior vita possibile. Miglior vita non significa nel lusso, quanto piuttosto che i miei figli si possano pienamente realizzare.»

Una famiglia che ti ha accolto agli inizi della carriera è stata quella di Telemilano 58 (la futura Canale 5), la cui direzione artistica era affidata a Mike Bongiorno, il tuo scopritore. A dieci anni dalla sua scomparsa, condivideresti un ricordo di Mister Allegria?

«Il ricordo che ho sempre presente è quando Mike venne in radio a trovarmi. Io ero in onda e stentavo a crederci, quando mi dissero che di là c’era Mike Bongiorno che mi cercava. Pensavo a uno scherzo. Ma andai di là e vidi che c’era proprio lui che mi stava parlando e – ti confesso – che, per i primi venti, trenta secondi, non sentii la sua voce. Ero lì che continuavo a pensare: “Mia mamma, i miei amici, se sapessero che sono davanti a Mike Bongiorno…”. Poi, pian piano, ho cominciato ad ascoltarlo e ricordo che mi disse: “Vorrei che tu facessi un programma per i giovani, qualcosa di musicale, qui a Telemilano. Saresti la persona giusta! Mi piaci e ti ascolto ogni mattina.”. Dieci anni dopo gli ho confidato che, al mattino, non avevo mai trasmesso.»

 

Gino Morabito

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