VIAGGIO AL CENTRO DELLA MUSICA, RITORNO

Di Giuseppe Sanalitro

Un cielo leggero, impallidito da un velo di scirocco, definisce il nostro orizzonte e Pollini subentra magistralmente con il Notturno in do minore op. 48 n. 1 di Chopin. C’è tutta la ricerca e l’impegno di una categoria di fonici nel suono. Lo strumento è di quelli importanti, lo si capisce al volo dalla forza espressiva dei bassi che ci fa precipitare nella drammaticità, dove non ci interessa cercare appigli. Il riverbero è qui ampio ma misurato, in direzione di un suono romantico che fa a meno di quegli eccessi che in altri lavori abbiamo sentito sporcare con inutili ridondanze i messaggi universali che, invece, devono cogliersi nella loro intera pulizia.

La potenza della scrittura nella seconda metà del brano ci giunge lineare, senza il minimo intacco. La cura dei pedali è scrupolosa. Il brano merita un dito sul touch del lettore alla voce repeat. È Pollini, il pianista per antonomasia che ci piace ricordare un giorno da Fazio (Che tempo che fa), rispondere alla domanda del conduttore: «Ma Chopin suonava così?» con l’umiltà dei gradi: «Chi può saperlo?».

Ripartiamo indietro con la voglia di capire ancora. Il sole gioca a starci sempre alle spalle e tocca al Vento d’Europa di Allevi spiegare la strada. Il brano, tra le migliori idee del pianista marchigiano, di norma più attaccato che ascoltato e analizzato nell’interezza del repertorio per potere pensare di poterne dare un giudizio sincero, nella registrazione è curatissimo nei minimi dettagli inerenti al suono. Anche in questo caso il compositore, complice lo straordinario successo commerciale, come Pollini deve avere conosciuto al suo fianco il meglio di quei professionisti tra i tecnici del suono che gravitano negli ambienti delle major discografiche. La pulizia della traccia è impressionante, e lo strumento utilizzato, un Bösendorfer Imperial, non stenta a fare riconoscere la sua voce tra le più belle.

Rientriamo nella città, nel labirinto metropolitano accompagnati da Jarrett. La Parte VII registrata nel live a Parigi è magnifica. Oltre al canto a ricordarci le origini di oltreoceano dell’artista è un suono figlio di evidenti scelte ed indicazioni precise atte a raccontarlo. L’ambiente della Salle Pleyel ci arriva composto, elegantemente francese: si dà per intero alla invenzione altissima, lontana dal jazz stereotipato su cui si rutta sopra in taluni locali.

Lo strumento, quasi fosse quel silenzio rotondo dell’ambiente – intorno ai sussurri alla Gould del pianista – un artificio da studio di registrazione, si esprime nel contrasto tra suoni cercati e trovati aspri e gli altri dolcissimi, e ci suggerisce una nuova consapevolezza nella terra che ora inghiotte nelle prime ombre l’auto che torna a casa: solo da vivo puoi rinascere. Chiude, e ci sta tutto, l’applauso.

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