TRA ROCK E POESIA, IL RACCONTO DI UN VIAGGIO CHIAMATO MARLENE KUNTZ

Il primo concerto si svolse il 13 maggio 1989, al parco Monviso di Cuneo: alcuni pezzi originali e una cover dei Jack on Fire.

All’epoca io avevo tredici anni e cominciavo ad assaporare quella musica rock dipinta di vibrante lirismo, che mi faceva evadere: batterie a lunga durata, cuffie del walkman a coprire le orecchie, la scoperta di un nuovo mondo sonoro. Mi sentivo bene. Sembra ieri, ma nel 2019 i Marlene Kuntz compiono trent’anni di attività, festeggiano il ventennale del loro terzo disco e lo fanno al sound di concerti-evento.

«Siamo riusciti a unire le due anime dei Marlene» rispondendo a tono Luca Bergia, batterista e co-fondatore della band: «quella più teatrale, dove ti arrivano impetuose la potenza, l’emotività, l’intensità del suonato e delle parole, e quella in cui la fanno da padrone l’adrenalina e l’energia sprigionate sul palco.»

Sui manifesti del loro tour campeggia l’acronimo 302010 MK2”, quasi fosse la targa di un’auto, per compiere un avvincente percorso tra rock e poesia: il racconto di un viaggio chiamato Marlene Kuntz.

 

302010 MK2”, ovvero il desiderio di portare in giro per l’Italia la doppia anima che è insita nel vostro stesso nome: un’anima musicale metà acustica e metà elettrica, all’interno di un’esperienza unica nel suo genere. Come nasce il nuovo progetto dei Marlene Kuntz?

«L’idea è nata da “Il doppio”, rivisitando il tema della dualità che ricorre nel mondo dell’arte. Allora si è trattato di una sorta di esperimento che è andato benissimo, perché la gente è rimasta molto colpita dal set. Partendo da quella consapevolezza, oggi presentiamo un concerto nel quale sono presenti entrambe le nostre anime, quella un po’ più intima, raccolta, e un’altra più elettrica ed esplosiva. Il concetto di fondo è quello di fare una prima parte acustica, raccontando un po’ i trent’anni dei Marlene Kuntz, attraverso quei brani che più si prestano ad essere eseguiti in questa chiave; per poi passare ad una seconda parte in chiave elettrica, celebrando il terzo album, “Ho ucciso paranoia”, un disco molto importante nella carriera dei Marlene, e avviandoci alla conclusione affidata ai nostri cavalli di battaglia, sempre in chiave elettrica. Infine, una sorpresa, di cui però non posso anticiparti nulla.»

Per la prima volta nei vostri spettacoli dal vivo si registra una contaminazione con il mondo dei visual.

«Per la prima volta per i Marlene Kuntz ci saranno dei contributi visual a cura di Bruno d’Elia, un videomaker e artista grafico, più conosciuto come Mezzacapa, il cui tratto molto particolare è stato già sposato da artisti come Niccolò Fabi e Samuele Bersani, per citarne un paio. Durante ogni concerto si inventerà una storia sui nostri trent’anni, che verrà proiettata su dei videowall. Per ordinare, poi, uno spettacolo così articolato e proporlo nel migliore dei modi, ci siamo affidati al regista Fabrizio Arcuri, il quale aveva già collaborato con noi durante il tour “Il castello di Vogelöd” insieme a Claudio Santamaria. Crediamo si tratti di una chicca gustosa, per chi i Marlene già li conosce, ma soprattutto per quanti non li hanno ancora mai visti dal vivo.»

“Un viaggio a ritroso ricco di emozioni, con l’esplosività dei vostri cinquant’anni”. Com’è cambiato, nel frattempo, il vostro rapporto con la musica?

«Il nostro rapporto con la musica è cambiato moltissimo, così come è cambiato per chiunque. L’avvento di Internet ha scompaginato completamente questo mondo. Da una parte, oggi, per ascoltare qualsiasi novità, non devi necessariamente acquistare tutto il disco: ti basta andare su Spotify e trovi quello che ti interessa; cerchi nel web e vedi le foto, i videoclip, i filmati girati nelle radio… Ogni cosa è rintracciabile nell’arco di un clic. Dall’altra parte c’è un’overdose di informazioni riguardanti la musica e i riferimenti che c’erano una volta non ci sono più.»

A cosa vuoi alludere di preciso?

«Una volta, prima di registrare un disco, un po’ com’è successo a noi con “Catartica”, dovevi sudare cinque anni di culo, di gavetta. Noi partivamo da Cuneo e abbiamo fatto letteralmente di tutto per riuscire ad approdare al primo disco: diversi concerti in località più che improbabili, poi “Rock Targato Italia” e gli incontri significativi con Marco Lega e Gianni Maroccolo, l’uno il nostro primo produttore; l’altro la nostra chioccia, il fratello maggiore che ci dispensava dei consigli utilissimi, senza del quale avremmo fatto sicuramente molta più fatica ad emergere. Eravamo già intenzionati ad autoprodurci sostanzialmente l’album, quando arriva la chiamata dalla MCA, che nel frattempo aveva scovato un nostro demo: Enrico Romano contattò Riccardo Tesio per complimentarsi con noi e proporci di fare qualcosa insieme; contestualmente stava nascendo l’etichetta CPI (Consorzio Produttori Indipendenti) e da lì abbiamo potuto intraprendere quello che poi sarebbe diventato il nostro percorso artistico.»

Una gavetta profondamente diversa rispetto a quella che fanno oggi gli aspiranti musicisti. Un percorso artistico, quello dei Marlene Kuntz, segnato da scelte controcorrente e una buona dose di coraggio, per tre ragazzi originari di Cuneo.

«Oggi tutta questa lunga trafila non esiste più; esiste un altro tipo di percorso, che non so bene quale sia. Probabilmente è un tipo di percorso basato sul crearsi uno zoccolo duro di fan, avendo un grosso seguito sui social, in modo tale da allettare la casa discografica di turno, con un progetto artistico accattivante. Non per fare il dinosauro, ma il problema reale è che in giro vedo tanto appiattimento creativo, anche della proposta musicale. Manca il coraggio, il tirar fuori gli attributi per dire cose che nessuno ha ancora detto! I Marlene Kuntz, nel loro ambito, lo hanno sempre fatto. Quello che facevamo noi era roba da extraterrestri: venivamo dalla scuola Sonic Youth, cantata in italiano; una proposta sicuramente nuova per l’Italia. Magari una cosa del genere te l’aspetti da una band milanese, bolognese, non da tre ragazzi di Cuneo.»

Durante l’adolescenza, un po’ come tutti i miei coetanei di allora, indossavo le cuffie del walkman e mi sparavo nelle orecchie dosi intere di Pink Floyd e Genesis a tutto volume. Mi estraniavo dal mondo e stavo bene. La tua esperienza, invece, qual è?

«A sedici anni, prendevo il mio registratore a nastro, con la cassettina dentro, e me ne andavo ad ascoltarla al parco della Resistenza a Cuneo. Stavamo lì delle ore, io e il mio registratorino. Oggi c’è l’iPhone e altri dispositivi tecnologici, ma vorrei scommettere su quanti ragazzi ascoltano un album dall’inizio alla fine. Mediamente gli ascolti sono fatti di playlist, di pezzi che si skippano da una parte e dall’altra. Si perde un po’ il senso di quello che stai ascoltando, senza lasciare spazio all’immaginario. All’epoca, quando finalmente arrivavano quei dischi di importazione, dopo averli attesi per dei mesi interi, ti eri già fatto dei trip incredibili sugli artisti che ci stavano dietro… Adesso è tutto molto più svelato, la musica ha perso carisma.»

Oggi la musica ha perso carisma perché orfana di miti “credibili”?!

«Non voglio generalizzare ma oggi uno diventa un mito, non perché abbia scritto una lirica fantastica, una poesia meravigliosa, ma perché è riuscito a fare un sacco di soldi con una canzone. Oggi il mito fa la bella vita; viaggia in auto costose, circondato sempre da bellissime donne… l’immaginario è questo. I miei figli e i figli di amici ascoltano quel genere lì, trap, rap… Se, invece, ti fermi ad ascoltare i nostri testi, ti accorgi che ci troviamo su pianeti opposti.»

Qual è la personale valutazione di Luca Bergia rispetto all’analisi musicale dei primi tre decenni di Marlene Kuntz?

«Noi siamo nati e cresciuti, avendo ben chiaro in testa il nostro modo di vivere la musica. Non siamo dei musicisti virtuosi che passano dal jazz al funky con disinvoltura. Volevamo distaccarci da tutta la “musica spazzatura” che si sentiva in quegli anni in radio; volevamo essere opposti a quel tipo di sistema, con un nostro mondo del tutto personale, raccontando storie non banali, in italiano, affinché la gente le potesse comprendere. Questo abbiamo cercato di fare e credo che ci siamo riusciti. Oggi ci possiamo ritenere più che soddisfatti! Probabilmente avremmo meritato qualcosa di più, ma viviamo in un Paese, dove l’offerta culturale è quella che è. Non puoi immaginare di vendere un milione di copie di un disco non facile!»

A meno che non si riesca a cambiare culturalmente un Paese…

«Un tentativo che, negli anni Novanta, è stato fatto, poi la cosa si è fermata lì; non è andata più avanti, perché si trattava semplicemente di un fenomeno di moda. Noi siamo e rimaniamo il Paese del melodramma e della canzonetta.»

Luca, qualcosa da recriminare? Forse, col senno di poi, sarebbe stato meglio scendere dal piedistallo e cedere a qualche piccolo compromesso?

«In Italia abbiamo ottenuto tutto quello che si poteva ottenere! Non ho nulla da recriminare, sono molto orgoglioso del percorso artistico che abbiamo fatto: sempre coerenti, senza mai scendere a compromessi; i nostri discografici non ci hanno mai imposto niente. Non so quanti altri artisti, in trent’anni, abbiano avuto la forza e la possibilità di ultimare il proprio lavoro, consegnarlo alle case discografiche, dicendo: “Questo è l’album. Pubblicatelo!”.»

In base alla tua percezione artistica, com’è cambiato il vostro “essere band”?

«Siamo cresciuti, abbiamo quasi tutti cinquant’anni. Nel tempo, a livello compositivo, abbiamo acquisito più consapevolezza ed esperienza: oggi, ad esempio, cercando di creare qualcosa di nuovo, sappiamo esattamente come ottenere un certo tipo di suono, quel mood particolare. Ovviamente ci sono i pro e i contro: se, da una parte, sei più smaliziato; dall’altra perdi quell’ingenuità che magari ti faceva commettere determinate “leggerezze”, che a volte però si traducevano in un delirio creativo che poi sarebbe rientrato all’interno di un brano, rendendolo unico.»

Riesco a immaginarvi ancora lì, in preda ai vostri “deliri creativi”, tra riff di chitarra e quella sana goliardia di un gruppo di amici…

«Tra di noi, siamo più che fratelli, ultra solidali. Ogniqualvolta parte il processo di composizione per la realizzazione di nuovi brani, si viene sempre a creare quella strana alchimia, dove alla fine qualcosa succede sempre. Qualcosa di diverso rispetto a quanto è accaduto, anche solo l’anno precedente. E questo sacro fuoco che arde dentro di noi è ancora più che presente!»

“Sacro fuoco” che ha dato vita ad una suggestiva, personalissima rilettura di “Bella ciao”, un canto che ancora oggi scuote le coscienze e invita all’azione.

«Il percorso che ci ha portati a “Bella ciao” è molto frastagliato. Abbiamo sempre cercato di non schierarci politicamente, per evitare possibili strumentalizzazioni della musica dei Marlene Kuntz e che qualcuno potesse acquistare i nostri dischi solo perché votava questo o quel partito… Però l’anno scorso è accaduto un fatto: eravamo in viaggio e abbiamo letto della compilation di Marc Ribot, “Songs of Resistence 1942-2018”, raccolta dov’era presente una bellissima versione di “Bella ciao” interpretata da Tom Waits…»

… L’articolo spronava la comunità dei musicisti a farsi sentire, in un momento storico-politico nel quale, più o meno, stavano tutti zitti.

«Eravamo scossi, frastornati; sentivamo delle derive estremamente pericolose che, giorno dopo giorno, imponevano dei valori molto diversi da quelli in cui crediamo. Anche la semantica veniva manipolata: parole come dignità, diritti, umanità, accoglienza, compassione, integrazione… erano diventate impronunciabili, alcune addirittura divisive, certamente scomode. In quel preciso istante, abbiamo preso una decisione: “Non stiamo più zitti!”. Fino a quel momento, dal punto di vista artistico, nessuno si era ancora mosso e allora: “Diciamo la nostra, prendiamo una posizione!”.»

I Marlene Kuntz prendono posizione e cantano la libertà, schierandosi in difesa del diritto inalienabile dell’essere umano.

«Anche a noi è venuto naturale pensare a “Bella ciao”, un canto di libertà, ancor prima che di resistenza. Una resistenza nei confronti di quelle pericolose derive di valori, che ci stanno scuotendo. Da lì abbiamo pensato a Skin, con la quale avevamo già duettato, scoprendo, con nostro grande piacere, che anche lei è un’artista molto “agguerrita”. Una persona che, come noi, si è subito resa conto del vento di Destra, che soffia sull’Europa e sul mondo; di un ritorno al razzismo, alla xenofobia, all’omofobia; addirittura di un ritorno all’antisemitismo. Skin accetta subito con entusiasmo e realizziamo questo nuovo progetto insieme; un progetto che è molto vero, molto autentico, molto sentito da entrambi gli artisti.»

Qual è stata la genesi di un progetto, che trae ispirazione da un “modello” di comunità-mondo possibile, fatta di inclusione sociale e pacifica coesistenza fra le persone?

«“Bella ciao” l’abbiamo registrata lo scorso ottobre. Eravamo in tour con “Il castello di Vogelöd” dalle parti di Cosenza e ci siamo detti: “Perché non giriamo un video a Riace?”. Abbiamo scelto Riace perché è un modello, riconosciuto in Italia e all’estero, di un mondo possibile, fatto di integrazione, accoglienza, coesistenza fra le persone; il modello di un mondo che contrasta le infiltrazioni malavitose… Nel nostro video, le pochissime persone rimaste dopo lo sgombro, perlopiù immigrati, hanno degli sguardi di una grandissima profondità. Sono tutti sguardi che raccontano incredibili storie di vita; storie che descrivono un mondo con una sua varietà, una sua diversità. Ed è il mondo che piace a noi Marlene. Un mondo dove non si innalzano i muri e non si chiudono i porti. Questa è stata la molla scatenante per la realizzazione di “Bella ciao” e vorrei aggiungere che il ricavato del progetto sarà interamente devoluto alla fondazione “È stato il vento”, che si occupa di far rinascere il “modello Riace”, grazie esclusivamente agli aiuti economici di privati.»

Come riuscire a trasmettere ai nostri giovani la consapevolezza di diventare i costruttori di un mondo migliore?

«Con qualcosa di molto semplice. Io sono padre e per me quello che conta è l’esempio. I figli ti osservano attentamente, ti giudicano; a loro non la dai a bere. Se tu, padre, sei il primo a comportarti bene, vedrai che anche i figli ti verranno dietro.»

A distanza di circa vent’anni dalle parole usate dallo scrittore Enrico Brizzi, che definisce i Marlene Kuntz come “non un gruppo di rock italiano, ma l’unico gruppo italiano di rock”. Oggi chi siete?

«Siamo un gruppo rock con molta esperienza alle spalle; un gruppo con collaborazioni in vari ambiti, nel cinema, nella danza e nell’arte contemporanea; sonorizzando pellicole di film muti, facendo teatro… Siamo uno dei gruppi italiani più sfaccettati che esista.»

 

Con un pizzico di artistica vanità, qual è il più bel complimento rivolto a quelle “fighe” delle Marlene?

«Ci dicono di essere un gruppo molto coerente. Un gruppo che continua a fare ricerca, non banale, a livello musicale, poetico, testuale… Un gruppo probabilmente unico, perché, almeno in Italia, non vedo altre esperienze simili di questo stesso livello. Il mondo che ci siamo ritagliati è questo, e in questo siamo coerenti. Seguiamo le nostre passioni; perseguiamo i nostri obiettivi, cercando sempre di spostare l’asticella un po’ più in là. Ogni nostro disco è frutto di grandissimo lavoro, non solo in studio, ma anche a livello di comunicazione. Ogni disco è un quadro diverso.»

Trent’anni di Marlene Kuntz raccontati attraverso dieci “quadri” originali, senza ripetizioni né imitazioni. Quali filtri avete adottato?

«In trent’anni cambiano le generazioni, cambiano i gusti… però, se anche un giovane di oggi, avesse la voglia e la pazienza di prendere i nostri dischi e di reimmergersi nel nostro immaginario, allora scoprirebbe un mondo tutto nuovo, sia dal punto di vista musicale, sia a livello testuale. Si renderebbe anche conto del percorso evolutivo dell’artista; un percorso affascinante raccontato attraverso dieci quadri diversi, dove ogni quadro rappresenta esattamente quello che volevamo dire in quel preciso istante. Non ci sono tentennamenti, non ci sono ripetizioni né imitazioni. I nostri “quadri” li abbiamo sempre avuti ben chiari in mente, l’unico filtro siamo noi. Simo noi il filtro: i Marlene Kuntz.»

 

Gino Morabito

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