NEL SOLE, TRACCE DEL PERCORSO UMANO E ARTISTICO DI ALBANO CARRISI

Potrebbe sembrare felicità. Sollevare il coperchio di plastica rigida trasparente; spolverare il piatto Technics 1200, che abbiamo ricevuto in dono per il diciottesimo compleanno; sentire dalle casse a tre vie quel rassicurante fruscio di vissuto, quando la puntina Shure comincia a solcare le tracce di un quarantacinque giri, che potrebbe avere il doppio o il triplo della nostra età.

Non sono affatto un nostalgico, ma, celebrare con metodo questa liturgia catartica, migliora decisamente l’umore. E poi cantare, prima piano a mezza voce, inciampando su alcune parole… e poi, prendere la rincorsa e arrivare tutto d’un fiato dritto al ritornello, lasciarsi andare a squarciagola in un duetto improvvisato e… cantare. Più di una volta, mi sono sorpreso a farlo su “My way” di Frank Sinatra, “Nel blu dipinto di blu” di Domenico Modugno e “Nel sole” di Al Bano.

Provate ora immaginare il mio stato d’animo, quando ho avuto la possibilità di confrontarmi con l’inossidabile passione per la vita di Albano Carrisi: Mister Felicità che mi racconta di quando frequentava l’istituto di suore prima di trasferirsi a Milano, della voglia di rivalsa nei confronti di una povertà contadina che limitava il suo sguardo all’orizzonte di Cellino, del successo scoppiato nel ‘67, di “un pomeriggio storico” con Domenico Modugno…

Al Bano è un fiume in piena, un artista profondamente umano che, con la generosità tipica dei grandi, mi fa dono di alcune immagini del suo privato: frammenti di una vita declinata in quella musica che arriva dritto al cuore; una vita che gli ha dato tanto e tanto lo ha provato, alla quale ha sempre risposto: «Eccomi!» da autentico combattente.

Io mi lascio affascinare da quella timbrica in grado di passare dal pop al classico, dalla musica sacra al folk. Inaspettatamente, con un moto d’entusiasmo accenna l’intro di “Cara terra mia”: «Come va? Come va?» mi chiede di slancio. Alla possibile risposta sinergica ma scontata, decido anch’io di contrapporre onestà, e metto in campo i sentimenti. Così di rimando: grazie Al Bano, mi hai reso felice!

Scopri la passione per la musica, suonando la chitarra con tuo padre nei campi. Quello di Al Bano è un talento precoce, basti pensare che a soli 13 anni componi il primo brano inedito, “Addio Sicilia”. Qual è l’episodio che racconti?

«Mio padre aveva una sorella che ha sposato un siciliano. Lei seguì il marito, prima a Catania e poi in Argentina. Io ho immaginato il viaggio di questa donna, che lasciava la propria terra natia per andare incontro a un destino ancora tutto in divenire. Ecco perché “Addio Sicilia”.»

Da siciliano, pensavo che, in fondo, si tratta di un rapporto rinsaldato anche con la tua terra di appartenenza.

«La Sicilia è sempre una terra meravigliosa! Qualche tempo fa, sono stato ad Agrigento: ho cantato in un teatro piccolino ma fantastico. La Sicilia e la Puglia hanno radici comuni, l’accento messinese e il salentino si somigliano molto. Pensa che Domenico Modugno cantava in salentino e molti si chiedevano perché cantasse in siciliano…»

Domenico Modugno ha segnato indelebilmente la storia della Canzone italiana. Qual è un ricordo incancellabile, che hai del nostro Mimmo nazionale?

«Appena arrivato a Milano, andai a vedere “Rinaldo in campo”, il suo primo musical. Tre volte! Siamo nel 1963, e una sera lo aspettai all’uscita del teatro per chiedergli un autografo. Lui non aveva niente addosso per potermelo fare; sicuramente era stanco, aveva fretta… e se ne andò. Io ci rimasi molto male. Il mio idolo che non mi concede un autografo! In quel momento feci una promessa solenne a me stesso: se un giorno avessi fatto successo, non avrei mai negato un autografo ai miei fans. L’ho sempre fatto e continuerò a farlo. Quello è il primo ricordo di Mimmo. Un altro episodio è stato quando fui chiamato a casa sua… pensai si trattasse di una burla. Non ci potevo credere, e invece era tutto vero! Ci incontrammo e gli cantai “La siepe”, la canzone che poi avrei portato a Sanremo. Fu un pomeriggio storico per me. Quel sogno tanto agognato aveva preso consistenza ed era diventato una magnifica realtà: stavo a contatto con il mio grande idolo, Domenico Modugno.»

Ritornando alla mia Sicilia, il primo brano inedito che hai composto, quell’“addio”, è una sorta di predizione del tuo futuro: lascerai, infatti, gli studi e ti trasferirai a Milano per fare il cantante di professione.

«Fino alle scuole medie non mi pesava studiare. Frequentavo un istituto di suore, a San Donaci, e lì sì che le maestre ti invogliavano e rendevano facile lo studio. Alle superiori trovai un’altra mentalità, un altro atteggiamento. Gli insegnanti facevano sicuramente il loro dovere, ma non invogliavano. Questo, insieme al particolare momento che stavo vivendo, mi portò a lasciare gli studi. Da allora cominciai a dare spazio alla musica, che esercitava su di me una forte attrazione. In più c’era quel grande Mimmo che, con le sue canzoni, stava rivoluzionando il mondo. Era nato a Polignano a Mare ma viveva a San Pietro Vernotico, a due chilometri e mezzo da casa mia. Mi affascinava enormemente quest’uomo, che dal nulla era diventato il numero uno. Leggevo sul giornale che i sindaci di New York e di Chicago gli avevano dato le chiavi della città, e io sognavo… Sognavo più con quegli articoli, che non con i libri che avrei dovuto studiare. E poi volevo uscire fuori dalla povertà, da quella mentalità bella ma monotona. Avevo bisogno di spazi nuovi, di nuove emozioni. Così sono partito.»

Arrivi finalmente a Milano, una città che ti ha messo in condizione di emergere, grazie alle indiscusse capacità artistiche, ma anche all’impegno e al duro lavoro.

«Io dico sempre che non ho frequentato più la scuola ma sono andato all’università della vita. Ho fatto tutti i mestieri possibili e immaginabili, onestamente, con grande capacità e tanta voglia di lavorare. Ma il mio pensiero fisso era solo e soltanto la musica. Poi è successo il miracolo.»

Per Al Bano si apre un vero e proprio mondo nuovo. Questo accadeva nel 1960. A distanza di circa sessant’anni, che tipo di mondo osservano i tuoi occhi?

«Ho grande rispetto per quella città, anche se noto che molte cose sono cambiate. Prima gli immigrati eravamo noi meridionali; adesso i migranti sono quelli di colore: africani, senegalesi, indiani… è cambiato il flusso migratorio. A Milano molti pugliesi fecero un successo pazzesco, anche molti figli di pugliesi. Parlo di Celentano, Enzo Jannacci, tutta gente che ha lasciato il segno. Oggi vedo Milano come si può vedere la vecchia madre. Nutro un grande rispetto per quella città, ho trascorso lì quasi vent’anni; in ogni suo angolo ho un ricordo, un manifesto mentale. Se guardo la galleria del Corso, la vedo com’è oggi e la ricordo com’era ieri… Piazza del Duomo, prima era piena di ristoranti di classe, e in uno di quelli ho anche lavorato, oggi ci sono librerie, fast food… La verità è che il mondo è cambiato, ma io riesco ancora a vedere la città com’era allora: le prime balere lì nei dintorni; il Clan Celentano; la fabbrica “Innocenti”, che negli anni Sessanta era una fonte di vita. Riesco a vedere Milano con i doni che mi ha fatto e gli incontri che mi ha concesso, nei luoghi in cui li ho vissuti.»

Dal tono della tua voce si percepisce un rimpianto…

«Una cosa che mi rimprovero è che avrei potuto avere quattro, cinque appartamenti a Milano, in zone importanti, e invece non li ho acquistati. In quegli anni, ti parlo del ‘68-‘69, cominciò a svilupparsi il terrorismo e ne ho viste di cose tragiche: gente con i passamontagna che spaccava le vetrine dei negozi e incendiava le macchine… Non potevo pensare di vivere in quella città! Poi, negli anni Ottanta, è tornata la pace… Guardandomi indietro, tutto quello che ho fatto è dipeso dalle esigenze, dalla mentalità di quei tempi, dalla mia forma mentis…»

Oggi come allora, che rapporto hai con l’amore?

«L’amore è il motore di ogni essere umano. E per amore intendo, non solo il rapporto uomo-donna, ma anche uomo-società, uomo-città, uomo-viaggi, uomo-scoperte… Quel tipo di amore è per me intatto, sempre avvolgente e coinvolgente.»

Nella vita di “coppia”, hai mai tradito la tua musica?

«No! Sono cresciuto con la mia musica e mai potrei tradirla. Posso solo assecondarla, accontentarla, rivoluzionarla; varcarne i limiti, con questa timbrica vocale che mi ritrovo: passare dal pop al classico, dalla musica sacra al folk. Mi piace sempre migliorarmi. Ma tradirla mai.»

Restando nella tua musica, nel 1967 arriva “Nel sole”, il tuo primo grande successo.

«Confermo! La cosa che più mi colpisce è sentire i ragazzini di oggi che cantano “Nel sole”. Ed è una cosa bella, bella veramente. Vuol dire che, nonostante gli anni, ha lasciato il segno.»

È stato un quarantacinque giri da un milione e mezzo di copie. Oggi è impensabile che un artista italiano riesca a vendere tanto. Com’è cambiata la discografia? E soprattutto la musica si fa ancora per passione?

«Sì, la passione esiste, anche perché la musica, forse, è il primo vestito che l’essere umano mette addosso. Come diceva Nietzsche: “Senza musica la vita sarebbe un errore”. Io intendo la musica non come un semplice ascolto, ma come un fatto nutrizionale. È una melodia, una medicina, un toccasana.»

 

 

A guardarlo da fuori, il tuo sembra il percorso di un uomo predestinato al successo.

«A volte mi rendo conto che mi sono capitate cose incredibili, immaginabili. Ho amato l’idea del successo, ma non avrei mai pensato di raggiungere i risultati che, grazie a Dio, ho conquistato.»

Come vivi il meritato successo di cui godi?

«Per me è un esame quotidiano, con me stesso e con gli altri.»

La vita ti ha dato tanto, ma tanto ti ha provato.

«Sì, la vita mi ha dato tanto e mi ha tolto anche tanto. Pazienza! Ognuno ha il proprio destino e non si può cambiare il suo corso: puoi solo subirlo e accettarlo. Ma io sono un lottatore. So quello che dico e come lo dico!»

Mi ha parlato molto bene di te Toto Cutugno: da vero amico, gli sei stato vicino in un momento particolarmente difficile della sua vita privata.

«Lui è un grande amico, e stare vicino a chi ha bisogno penso sia un dovere di ognuno. Non è necessario chiamarsi Al Bano per fare quello che ho fatto per Toto. Lui è il più famoso, ma mi è capitato in moltissime altre occasioni.»

Da quello che hai raccontato, si ha come l’impressione che tu sia un uomo che non ha paura di niente e di nessuno. Davvero non c’è nulla che ti spaventi?

«A me non fa paura niente! Qualsiasi cosa dovesse riservarmi la vita di brutto, avrà pane per i suoi denti. Le cose belle, ben vengano. Le aspetto a braccia aperte.»

Assieme al pane, mettiamo sulla tavola anche un bicchiere di buon vino… Con Il rosso “Don Carmelo”, intitolato alla memoria di tuo padre, sei risultato essere il migliore produttore vinicolo al mondo tra quelli vip. Un altro è il bianco “Felicità”

«Ho iniziato nel 1973 il primo imbottigliamento, e difficoltà ce ne sono state, anche perché ero novello in quel campo. Però, quando ci sono buona volontà e voglia di fare, alla fine, tutto diventa vincente.»

Brindando alla tua salute, c’è un augurio che faresti ad Albano Carrisi?

«Ho avuto molto di più di quanto riuscissi a immaginare… Ad Albano Carrisi posso solo augurare che tutto vada sempre come agli inizi.»

E io te lo auguro.

 

Gino Morabito

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