LA MUSICA TOTALE DI PFM INCONTRA L’UMANITÀ POETICA DI DE ANDRÉ, UN CAPOLAVORO!

«Tirò fuori il quaderno e cominciò a scrivere. Mi diede quel foglio senza dire una parola. Poi si sedette nuovamente. Era il 1979 e su quella pagina c’era scritto “A Patrick”.»

Tre azioni per raccontare l’umanità poetica di quello che sarebbe diventato l’artista più ascoltato in Italia, il cantore della buona novella, il principe libero innamorato di tutto.

Mi sembra quasi di vederlo, Faber, sigaretta accesa e quel solco lungo il viso come una specie di sorriso. Ne parlo insieme a Patrick Djivas, quel Patrick della dedica e di Premiata Forneria Marconi, mentre celebra un amico, la sua musica, il loro incontro.

Per rinnovare l’abbraccio tra il rock e la poesia, la band italiana che rappresenta il prog nel mondo torna sui palchi del nostro Belpaese con “PFM canta De André – Anniversary”: 45 date di musica totale suonata dal vivo, senza macchine, registratori né computer.

Un’esperienza unica e irripetibile che, a quarant’anni dalla pubblicazione di un’opera che ruppe tutti i cliché dell’epoca, rinnova – incredula – la grande emozione di Patrick Djivas e gli fa esclamare: “Che soddisfazione, insieme a Fabrizio abbiamo fatto un capolavoro!”

A quarant’anni dall’uscita di “Fabrizio de André e PFM in concerto” Premiata Forneria Marconi torna sui palchi di tutta Italia con “PFM canta De André – Anniversary”, un tour per celebrare il fortunato sodalizio con il poeta genovese. Quello del 1979 fu il primo esempio di collaborazione tra due modi completamente diversi di concepire ed eseguire le canzoni. Oggi qual è l’emozione che si prova?

«La grande emozione che stiamo provando è quella di risentire i pezzi che abbiamo fatto con Fabrizio, per ripartire da lì. Ci siamo resi conto, per l’ennesima volta, che quei due dischi sono straordinari: soprattutto il primo ha una potenza espressiva, tra la musica, la voce, i testi, l’atmosfera, davvero incredibile! Quando passa così tanto tempo, talvolta non ti rendi nemmeno conto che sei stato tu a farlo, lo ascolti come fossi quasi un semplice fruitore. La prima emozione è quella di dire: “Che soddisfazione, insieme a Fabrizio abbiamo fatto un capolavoro!”

Non so tu, Patrick, ma io ho come la sensazione che il principe libero sia sempre qui, sigaretta accesa e innamorato di tutto.

«Ne parlavamo proprio l’altro giorno con Franz, mentre facevamo una riunione tecnica: le luci, le posizioni sul palco… sai, siamo in nove in quella tournée (ci sono anche Flavio Premoli e Miche Ascolese) e, tra una chiacchiera e l’altra, è venuto fuori che per ognuno di noi Fabrizio è sempre presente. È un artista che appartiene alle nostre vite, al nostro quotidiano, alla società italiana, come una specie di presenza in carne e ossa. Non è un semplice mito da idolatrare o una leggenda da tramandare: la grandezza di Fabrizio risiede nella sua umanità. E quest’aspetto ti si attacca addosso con tutti i pro e i contro, poiché c’erano momenti in cui non era affatto una personalità facile da gestire, non si riusciva a starci insieme. Fabrizio, o lo amavi o lo odiavi…»

… E voi decideste di collaborare. Com’è che andò?

«C’eravamo trovati in un concerto in Sardegna e l’indomani Fabrizio ci invitò a pranzo a casa sua. Come da un cilindro magico, Franz tirò fuori l’idea di provare a fare qualcosa insieme – oggi magari è normalissimo ma, all’epoca, non era mai successo che un gruppo rock collaborasse con un cantautore, erano un po’ come cani e gatti. Franz e Fabrizio cominciarono a parlarne con le rispettive case discografiche, con alcuni giornalisti a noi più vicini e non ci fu nessuno che ci incoraggiò: “Siete pazzi a voler fare questa cosa!” ci sentivamo ripetere. A lui dicevano: “Fabrizio, non si capirà una sola parola, ti seppelliranno sotto un milione di watt!”. E a noi di rimando: “Se vi comprometterete con un cantautore, il vostro pubblico vi si rivolterà contro!”.»

Dunque PFM e De André, in direzione ostinata e contraria.

«Fortunatamente, nonostante tutte le perplessità iniziali e i pareri contrari, Franz stringeva in mano il contratto con la casa discografica e Fabrizio, da autentico anarchico qual era, si imbarcò per la prima volta in questo nuovo tour di concerti. Sul palco aveva una situazione di questo tipo: due spie, due monitor, da cui sentiva la sua voce e la sua chitarra ad altissimo volume. E nient’altro. Cosicché, quando a fine tournée, andammo in sala registrazione e mettemmo su il 24 piste, Fabrizio sentì per la prima volta ciò che realmente accadeva sul palco. Ricordo che casualmente ascoltammo “La canzone di Marinella” e allora sbiancò: “Questo è quello che suonavamo?”. Inaspettatamente, fece una cosa che, per chi ha lavorato con lui e sa quanto maniacale e perfezionista fosse in fase di mixaggio, ha davvero dell’incredibile: “Chiamatemi quando tutti i missaggi saranno stati ultimati. Voglio godermi la sorpresa!”. E uscì dalla sala.»

Fino a quel momento, i cantautori – secondo i cliché imperanti – erano più interessati ai testi che alla musica. E Fabrizio De André era un cantautore.

«Da quel momento lì Fabrizio è cambiato radicalmente. Prima di quel disco era il classico cantautore, così come venivano intesi il quel periodo, che dava il 95% di importanza al testo, il 4% alla musica e l’1% alla presentazione. Dopo l’esperienza con PFM, che ha influenzato di fatto tutti i suoi lavori successivi, cominciò a ridistribuire più adeguatamente le percentuali, aumentando una popolarità già in crescita e divenendo in assoluto l’artista più ascoltato in Italia.»

Prima ci dicevamo di come Fabrizio sia sempre presente, ma c’è qualcosa ti manca?

«Quello che ci manca di Fabrizio è la certezza che si aveva, quando affrontavi con lui una tematica di qualsiasi genere, di stare parlando con qualcuno che ti avrebbe in qualche modo illuminato. Aveva un modo di vedere le cose diverso da tutti gli altri. Era un uomo di grandissima cultura, che riusciva a far combaciare con ogni argomento gli venisse proposto. La meraviglia poi si aveva, quando Fabrizio ti raccontava i suoi testi, quel mondo di storie variopinte e complesse che si nascondevano dietro i versi che tutti conosciamo. Ci raccontava come erano nati “Amico fragile” o “Giugno ‘73” e ti rendevi conto che non c’era una sola parola che avresti potuto cambiare.»

È un racconto artistico che si nutre di vita vissuta, di aneddoti sconfinatamente poetici che talvolta traggono origine da momenti di tensione, di precarietà. Come nel caso della dedica “A Patrick”.

«Eravamo a Napoli, prima del concerto, ci trovavamo dentro il palazzetto dello sport. Nello spogliatoio solo io, Fabrizio e Dori Ghezzi; Franz e gli altri erano andati a mangiare. Ce ne stavamo chiusi là dentro mentre fuori impazzava la guerra civile: i contestatori avevano incendiato delle auto, c’erano stati dei feriti, la tensione era altissima. Le porte d’accesso al palazzetto erano state bloccate dalla polizia per motivi di sicurezza, cosicché gli altri del gruppo non riuscivano a rientrare; dentro si sentivano le urla, le corse, quel gran frastuono. Fabrizio era molto teso e, quando gli capitava di esserlo, diventava aggressivo.

Mi ricordo che io e lui litigammo fino quasi a venire alle mani. Poi, finito il litigio, ci risedemmo uno da una parte e uno dall’altra dello stesso spogliatoio, con la faccia nera, a fissare il pavimento. L’incazzatura montava, quando, tutt’a un tratto Fabrizio tirò fuori il quaderno che aveva sempre con sé e cominciò a scrivere. Trascorsi 5-10 minuti strappò la pagina dal quaderno, venne da me e mi diede quel foglio senza dire una parola. Poi si sedette nuovamente. Era il 1979 e su quella pagina c’era scritto “A Patrick”, la meravigliosa poesia che volle dedicarmi.»

PFM celebra De André portando in giro la sua buona novella. Come un banchetto di nozze.

«Per celebrare il nostro amico, la sua musica, il nostro incontro, come in un quarantesimo anniversario di matrimonio, ci siamo detti: “Facciamo una bella festa!”. L’idea di partenza era quella di realizzare una decina di concerti ma siamo stati subissati di richieste di promoter e organizzatori che, in aggiunta alle date subito sold out, ci hanno portato a farli diventare quarantacinque!»

Quarantacinque date fino a maggio, ma l’anno è ancora lungo.

«È quasi una rinascita. Soprattutto nell’ultimo anno PFM ha ripreso un’attività molto intensa anche all’estero e, se volessimo, potremmo suonare tutta l’estate per tutti i giorni. Ma dovremo necessariamente fare poche cose, forse qualche data a dicembre in conclusione dell’anno, per fermarci e focalizzare il nuovo progetto del 2020, che riserverà tante belle sorprese.»

Concerti sold out in ogni parte del globo, con date che raddoppiano e triplicano. Perché anche le giovani generazioni dei millennials si appassionano alla musica di PFM?

«La musica che suoniamo è abbastanza particolare; è una musica strana, nel senso che PFM non ha mai fatto un disco uguale all’altro. Noi siamo musicisti, e siamo musicisti preparati. Apparteniamo a un’epoca nella quale, per essere musicista, non potevi trovare un libro sul quale studiare, perché non esisteva, e non potevi neanche avere un maestro che ti potesse insegnare. Negli anni ’60, se volevi suonare, dovevi ascoltare i 45 giri, cercando di rubare il più possibile: ora si trattava di rock, ora di jazz, di classica, blues… Approfittando di qualsiasi occasione di ascolto si presentasse, abbiamo sviluppato un gusto e un interesse per ogni tipo di musica e siamo diventati musicisti molto duttili. Un ragazzo, che oggi viene a vedere PFM, si rende conto che si tratta di gente che sa suonare e che soprattutto suona dal vivo. Senza macchine, registratori né computer!»

Magari quel ragazzo sogna anche di diventare musicista. E PFM cosa sogna?

«Magari poi quel ragazzo va su iTunes, sente i nostri lavori, si incuriosisce e trova di certo qualcosa che lo appassiona. Perché nella nostra carriera abbiamo sicuramente fatto qualcosa che è vicina al suo modo di vedere la musica. E da lì si espande, si espande, si espande e diventa una specie di musica totale. Ecco, il nostro sogno è suonare musica totale.»

 

Gino Morabito

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