DINASTIA: MC PER DEFINIZIONE, CANTAUTORE PER BAGAGLIO MUSICALE

 

Maurizio Musumeci, in arte Dinastia, è un artista che ha dato la propria codifica al genere rap. MC per definizione ma cantautore per bagaglio musicale, è un impasto di musica d’oltreoceano e made in Italy. Quello di Dinastia è un messaggio che arriva diretto all’ascolto, senza troppi giri di parole.

Con un modo del tutto personale di approcciarsi al testo e alla scrittura, riprende idealmente il discorso iniziato con “La rivincita degli ultimi”, conducendo l’ascoltatore all’interno del mondo che ha creato.

Insieme a Giacomo Molino (fonico e arrangiatore) e Antonio Mirenda (chitarrista e compositore), prendono vita nuove storie: tra queste, Le mani di mio padre, registrata al Check Line Studio di Belpasso (CT).

Il nuovo singolo dell’autorevole esponente del “conscious rap” italiano fotografa perfettamente lo strano momento che molti di noi stanno vivendo. È la voce della Generazione Y, quelli nati tra gli anni ‘80 e i ‘90, quelli che fanno un po’ fatica a crescere e che alla soglia dei trent’anni ancora non hanno capito bene cosa fare da grandi. Per loro il futuro rimane indecifrabile e pieno di paure, ma forse proprio per questo ancora più bello da vivere.

Maurizio, raccontaci chi è Dinastia.

«Il nome Dinastia è nato per gioco tanti anni fa. Ero ancora un bambino, erano gli anni ‘90 e in Italia c’era il boom della prima ondata rap. Avevo un cugino più grande che seguiva questa sottocultura, faceva il writer, ballava breakdance e si vestiva oversize. Io ero affascinato da tutto ciò, volevo sentirmi grande ed aggregarmi al suo gruppo. Così iniziai ad emularlo e mi avvicinai anch’io al rap. Ogni rapper che si rispetti ha un nome d’arte, e io scelsi Dinastia. Chi sono diventato? Un ragazzo che ha tanta voglia di fare musica e che per esprimersi ha scelto il “conscious rap”, un genere molto vicino alle problematiche sociali.»

Quando hai capito che volevi fare musica nella vita?

«Il passaggio da writer a rapper è stato velocissimo. Quando capii che ci si poteva esprimere con le parole in rima, cominciai subito a scrivere testi e a rappare. Dapprima lo facevo chiuso in cameretta, ero molto timido e non facevo ascoltare niente a nessuno. Dopo un po’ guadagnai sicurezza in me stesso e partecipai ad una Festa della Creatività organizzata dalla mia scuola. Quella fu la prima volta che mi esibii davanti a un pubblico. La gente apprezzava e io mi innamorai della musica.»

 

L’impegno sociale da dove arriva?

«Io ho sempre scritto e cantato quello che avevo intorno, quello che mi influenzava più da vicino, e qui in Sicilia il tema della mafia è una realtà. Ricordo questo: mio zio aveva in casa il libro di Giovanni Falcone, “Cose di cosa nostra”, e io lo lessi per ben tre volte, per comprenderlo a fondo. Alla fine rimasi con una domanda in testa: “Ma chi gliel’ha fatto fare?”. È questa la domanda a cui cerco di rispondere con la mia musica, indagando ed esplorando le motivazioni che hanno portato dei grandi uomini a dare persino la vita.»

Cosa ti fa indignare di più e cosa invece ti fa sperare nel futuro, dandoti la forza di continuare a veicolare messaggi attraverso la musica?

«Mi fa indignare l’indifferenza della gente verso i problemi del nostro tempo. A darmi speranza è invece il fatto che, per fortuna, ci sono tante persone che hanno un modo di vivere volto alla comprensione e all’aiuto dell’altro, che ci provano ogni giorno a migliorare le cose.»

Il tuo brano “Chi gliel’ha fatto fare” gode di una certa popolarità nelle realtà che operano contro le mafie. Quanto ti rende orgoglioso?

«Tantissimo! In occasione del ventennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio, alcuni anni fa, ero a Palermo e c’era grande festa. Arrivarono al porto tre Navi della Legalità piene di ragazzi che inneggiavano a Falcone e a Borsellino e, come colonna sonora, c’era proprio la mia canzone. Fu un’emozione straordinaria!»

Maurizio, tu vivi in Sicilia, ma hai mai pensato di lasciare il Sud per cercare maggiori opportunità?

«No, non ho mai pensato di lasciare la Sicilia! “Parole in circolo” di Marco Mengoni l’ho scritta a Paternò, la città dove vivo, ed è la dimostrazione che non bisogna per forza spostarsi al Nord per fare qualcosa di importante nella musica. Non è il luogo che fa la differenza, ma quanto tu creda in quello che fai.»

Nell’album “La rivincita degli ultimi” racconti di te, del tuo percorso. Tu ti senti un ultimo?

«Un ultimo, che però si impegna a riprendersi la propria rivincita! Per scrivere quell’album mi sono ispirato al “Ciclo dei vinti” del mio conterraneo Giovanni Verga. È la trasposizione musicale del senso dell’opera letteraria: alla fine i vinti vincono.»

Nel nuovo singolo “Le mani di mio padre” emerge l’immagine di un presente problematico e di un futuro incerto. Che momento stiamo vivendo?

«È un momento molto precario, soprattutto per la mia generazione. I trentenni oggi vivono in una specie di limbo: troppo grandi per alcune cose e troppo giovani per altre. Nella canzone cerco di raccontare quel senso di ansia che ci morde il cuore. È come se ci sentissimo in dovere di crearci una famiglia, ma allo stesso tempo ci scontrassimo con l’impossibilità di farlo, perché non siamo pronti, né economicamente né emotivamente.»

Raccontaci il rapporto con tuo padre. Che figlio sei stato e che padre vorresti essere?

«Con mio padre ho sempre avuto un rapporto fantastico. Non mi ha mai imposto nulla, lasciandomi sempre libero di fare le mie scelte. È stato un padre molto presente, mi ha sempre supportato, anche quando gli ho detto che non avrei fatto l’università per dedicarmi completamente alla musica. Se un giorno dovessi diventare papà, seguirei certamente il suo modello. Ma per ora non ci penso. P.S. La manina che si vede sulla foto di copertina del singolo, scattata da Caroline Manna, è quella della mia nipotina Aurora.»

Sei un fan di Guccini, De André, Tenco, Gaber. Che cosa continuano a comunicarci quei grandi?

«Riflessioni sulla vita, che sono ancora attuali e si adattano benissimo ai tempi che stiamo vivendo, nonostante provengano da canzoni scritte decine di anni fa. Ci sono alcune persone che possiedono una capacità di pensiero, così profonda e avanzata, che il loro messaggio diventa universale, senza tempo.»

Cosa pensi della scena musicale italiana del momento e dei nuovi generi che si ispirano al rap?

«Credo non ci sia il giusto spazio per tutti, ma senza dubbio la rete aiuta a crearsi la propria nicchia e il proprio pubblico. Per quanto riguarda i nuovi generi, apprezzo molto quegli artisti che sono riusciti a dare alla musica che propongono una connotazione personale e riconoscibile. Penso a Ghali, Mahmood, Willy Peyote…»

Tu hai partecipato a The Voice nel 2015 sotto la guida di J-Ax. Raccontaci di quell’esperienza, la rifaresti?

«Decisi di partecipare a The Voice con l’idea di farmi conoscere e di non prendermi troppo sul serio. Il mio obiettivo era quello di riuscire a fare più live, e così è stato! Lo rifarei sicuramente, anche perché mi ha dato modo di conoscere molte persone competenti e davvero in gamba, nonché uno dei miei idoli, J-Ax. Conoscere la persona che c’è dietro l’artista mi è stato di grande ispirazione.»

Nel mondo del rap è molto comune fare featuring e collaborazioni. Dinastia ne ha in progetto qualcuna?

«Ti confesso di sì, e colgo l’occasione per annunciare che a breve uscirà un mio pezzo insieme a J-Ax. Non vedo l’ora di farvelo ascoltare, è un brano che mi sta particolarmente a cuore! A differenza di altre mie canzoni, in cui si affrontano temi sociali, qui do sfogo alla leggerezza e alla mia “nerditudine”. Il brano con Ax si chiama “La serie perfetta” e parla di una nostra passione comune, le serie tivù!»

La musica di Dinastia, e di chi come lui si impegna per lanciare un messaggio sociale, ci ricorda quanto sia importante essere coscienti di ciò che viviamo e quanto, al contrario, sia pericolosa l’indifferenza. Ricordiamocelo anche noi, tra una serie tivù e l’altra.

 

Federica Lauda

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