VI RACCONTO RED RONNIE

«A che ora sei andato a letto?» all’inizio dell’intervista fissata alle tre e mezzo del pomeriggio.

«Sono andato a letto alle quattro. Perché dopo, finita la puntata, devo farne una copia.» accusa le poche ore di sonno, ma il tono è entusiasta «Il “Barone Rosso” va avanti fino alle due di notte, poi occorrono altre due ore per sincronizzare 5 frame.»

Gabriele Ansaloni, disc jockey, critico musicale, conduttore radiofonico e televisivo, nel 1977 cambia il nome in Red Ronnie e continua a raccontarci la musica. Lo fa da uomo libero.

Riprende con la telecamera rivolta verso gli altri, con la responsabilità di chi ha sempre avuto il compito di dare spazio ai ragazzi e voce a chi non ce l’ha. Un artigiano della comunicazione che non è mai andato alla ricerca del consenso e, all’apice di una popolarità unanime, sceglie ancora Pieve di Cento, circondato dai suoi affetti.

Musica, arte, cultura, desiderio di stare insieme, storia… si fondono in programmi che hanno fatto la differenza nei palinsesti televisivi, nel mondo della radio e nella vita di quanti come rivendicano ogni giorno la curiosità di scegliere, a dispetto degli algoritmi. È con vero orgoglio che vi racconto Red Ronnie.

Il lunedì sera è on air il “Barone Rosso”, un circo volante di arte, musica e cultura.

«Quello che accade al “Barone Rosso” è qualcosa di spettacolare, c’è un’energia incredibile. Sono performances che non si sono mai viste in tivù, perché l’improvvisazione in televisione non c’è mai stata. In televisione è tutto provato, codificato, preparato.»

Nonostante si tratti di un programma dove vige l’improvvisazione, credo comunque che, alla fine della diretta, si debbano ugualmente fare i conti con gli aspetti tecnici della messa online.

«L’audio e il video sono sfasati di cinque frame, e allora devo spostare di cinque frame e fare una copia. Dopodiché la copia va codificata, archiviata in due archivi diversi e va fatta un’ulteriore codifica compressa da mettere online. Tecnicamente si finisce tardi. La puntata del “Barone Rosso” va avanti fino alle due di notte, poi occorrono altre due ore per sincronizzare i cinque frame.»

Il “Barone Rosso” non vola sulle antenne tivù ma nella rete delle community, perché Red Ronnie non fa più televisione.

«Il distacco dalle televisioni (che poi non è stato nemmeno un vero e proprio distacco, perché nel frattempo ho continuato) è avvenuto nel 1990, quando ero reduce da “Una rotonda sul mare”. In realtà nell’ottantanove fui convocato da Berlusconi, il quale mi disse che ero una gallina dalle uova d’oro, perché il programma “Una rotonda sul mare” era costato solo duecentoventi milioni di lire e, con l’ultima puntata, avevamo totalizzato sette milioni di odiens; mentre gli altri programmi di Canale 5 costavano in media tre miliardi di lire e facevano tre milioni di odiens a puntata.»

A quel punto, immagino che il Cavaliere ti abbia fatto una di quelle offerte che non si possono rifiutare…

«A sentire Berlusconi avrei dovuto smettere di fare “Be Bop a Lula” alla radio e dedicarmi ai programmi televisivi. “Mike Bongiorno è già vecchio” – continuando il Cavaliere – “e lei potrebbe sostituirlo…” in tono lusinghiero nei miei confronti. Gli risposi che non mi ero divertito a fare quella trasmissione e che i duecentoventi milioni spesi per “Una rotonda sul mare” erano una cifra bassa, perché tutti i personaggi che intervenivano come ospiti li avevo conosciuti proprio grazie a “Be Bop a Lula”. Alla fine lui mi offrì un assegno in bianco e io gli dissi di no, ribadendo che non amavo essere rinchiuso dentro uno studio televisivo.»

Sembra una di quelle scene che precede la morte del protagonista, colpito alle spalle da un sicario.

«Gli dissi che ero un artigiano. Lui suonò una canzone al piano per me, chiedendomi un giudizio; dopodiché mi strinse la mano, aggiungendo: “Complimenti, lei è l’unico che mi ha tenuto testa!”. Mentre uscivo da Arcore, appena superato il cancello della villa, ricevetti la telefonata di Carlo Freccero, che mi chiedeva cos’avessi combinato, perché “Berlusconi aveva dato ordine di non farmi lavorare più!”. Quello fu il primo distacco dalla televisione. Da allora mi sono autoemarginato e sono stato emarginato.»

La fine di un nuovo inizio, perché si accendono le luci del “Roxy Bar”.

«Iniziai “Roxy Bar” su Videomusic, dal 1992 fino al 2001. Il programma ha avuto un boom incredibile, vincendo tre Telegatti. Alla vigilia del primo, mi chiamò l’allora direttore di Rai 1, proponendomi di fare “Roxy Bar” sulla rete ammiraglia della Rai. Declinai l’invito, rispondendogli che a lui piaceva “Roxy Bar” perché da me in trasmissione venivano ospiti Morandi (a titolo completamente gratuito) e De Gregori (che dalle altre parti non andava)… Venivano da me perché ospitavo anche artisti giovani, esponenti del rock ancora sconosciuti… “Se facessi “Roxy Bar” su Rai 1 – continuando la telefonata – mi imporreste di eliminare tutto ciò che non fa odiens…”. Concordammo allora “Mi ritorni in mente”. Siamo nel 1994 e fu il primo programma ad usare l’archivio della Rai.»

Nel frattempo si compie il destino di Videomusic, decretando la fine televisiva di un programma che ha fatto la storia della musica in Italia.

«Quando una certa Sinistra italiana tirò la volata a MTV, lo fece in realtà anche per affossare Videomusic, che nel frattempo era diventata TMC2. In quel momento io sono stato emarginato totalmente dalla tivù. MTV d’altro canto non mi voleva, perché per dieci anni, con il mio programma, le avevo fatto il culo! Non ho più lavorato in televisione. Nel 2002 ho fatto un programma che si chiamava “Yesterday”, su Rete 4, ma è stata la parentesi di un momento.»

Red Ronnie allora dà vita a un nuovo esperimento: “Roxy Bar TV”, una web TV dove mette a disposizione 24 ore su 24 video che includono le sue esperienze più diverse: dalle interviste a grandi personaggi della musica, dell’arte e della cultura, a spezzoni storici di programmi come “Be Bop a Lula”, “Help” e dello stesso “Roxy Bar”.

«Ho pubblicato una collana di 33 dvd del “Roxy Bar”, che è stata la prima rivista mensile, e nel 2011 ho avuto l’opportunità di fare un canale sul web. In realtà, sul web ci lavoravo già, perché nel 1995 fui il primo a interagire in diretta con la chat, sia al “Roxy Bar”, sia a “Help”. Dialogavamo con chi stava a casa, ed era rivoluzionario per quei tempi. Si apre per me il mondo di Internet e il 7 febbraio 2012, in occasione del sessantesimo compleanno di Vasco, faccio una diretta di dodici ore, totalizzando due milioni di spettatori. Il canale La7, con un documentario su Vasco, aveva fatto appena seicentomila spettatori, e da quel momento fu guerra: Red Ronnie equiparato al terzo polo televisivo. Cominciò una vera e propria lotta contro la piattaforma online da cui trasmettevo, fino a demolirla, obbligandomi così a chiuderla. Era una piattaforma con trecento canali, che insieme facevano più odiens di Rai e Mediaset. Ed eravamo liberi!»

Nel 2019 lanci il “Red Ronnie TV”, un canale in abbonamento che contiene materiali d’archivio in esclusiva, dirette speciali, programmi dove racconti la musica usando i vinili, anteprime di interviste e versioni integrali di reportage resi pubblici solo in forma ridotta.

«Torno con il “Barone Rosso”, in onda su tutte le piattaforme social, e la nascita di “Red Ronnie TV”, canale in abbonamento sulla piattaforma Teyuto. Ma si tratta di Davide contro Golia. Però Davide ha tante frecce al suo arco.»

Il nostro “Davide” che obiettivo si è prefissato di raggiungere?

«La sopravvivenza! Non si è prefissato la vittoria, ma riuscire a sopravvivere. Davide non vuole mai vincere… Io sono un po’ come Asterix, in un piccolo villaggio, dove Giulio Cesare gli fa la guerra… però ho la pozione magica.»

Dal cilindro magico di Red Ronnie salta fuori un contenitore di esperienze televisive che partono dal 1983.

«Tutti mi chiedono l’archivio, di vedere i miei filmati storici, un programma in vinile… Allora ho deciso di fare questo esperimento, se riesce: creare un canale in abbonamento, dove piano piano si riuscirà a vedere tutto quello che ho generato in televisione dal 1983 ad oggi. La differenza tra Davide e Golia è questa: Golia, ovvero i colossi televisivi con i canali on demand, da Netflix a Disney, passando per Amazon TV, hanno dei contenuti già visti e comunque non in esclusiva; invece i contenuti di “Red Ronnie Tv” non ce li ha nessun altro. Inoltre hanno un minimo comune denominatore: musica, arte, cultura; desiderio di stare insieme; storia… quindi un bene prezioso.»

Che tipo di musica si racconta oggi?

«Nessuno! Oggi nessuno racconta la musica. Quando ho iniziato, in quelle che allora erano le “radio libere”, raccontavamo la musica. A quei tempi si faceva la radio per raccontare, fare ascoltare e condividere quella musica che la Rai non passava. Ed eravamo orgogliosi di farlo. Mi ricordo che tornai da Londra con “Horses”, un quarantacinque giri di Patty Smith, e cominciai a trasmetterlo. Andai da Nannucci a Bologna, cercando di convincerlo a importare quel disco. “Sai che almeno devo importarne venti copie?” il proprietario del negozio perplesso. “Te le faccio vendere tutte!” di rimando, senza esitare. Dopo un anno e mezzo Patty Smith faceva settantamila persone allo stadio di Bologna. Ero orgoglioso di aver contribuito, in piccola parte, al lancio di un’artista fino a quel momento sconosciuta.»

Nell’era delle app è cambiata la musica e il modo di fruirla.

«Oggi tutto è cambiato: non si racconta più la musica; il dee jay non ha più l’opportunità di decidere ciò che va durante il suo programma, ma c’è una playlist… Per non parlare di Spotify! La musica vive di algoritmi che selezionano, per contaminazione, brani ai quali potremmo essere realmente interessati, ma allo stesso tempo ci tolgono la possibilità di scoprire pezzi e artisti che non conosciamo. Togliere la curiosità, servire tutto già pronto, è la morte della crescita personale del gusto e della scoperta. È come andare in vacanza sempre nello stesso posto, dove incontri bene o male sempre le stesse persone.»

A proposito di incontri, nel 1976 lasci “Radio Bologna” e vai a “Punto Radio”, nell’Appennino modenese, dove conosci Vasco Rossi che all’epoca fa il deejay come te.

«All’epoca conducevo anche “Progressive music”, un altro programma (simile a quello che facevo su “Radio Bologna Notizie”) in un’emittente che si chiamava “Radio BBC” (Bologna Broadcasting Corporation). Il 19 novembre 1976 “Progressive music” vince il premio per il miglior programma musicale alla rassegna “Radio estate giovani”, cui partecipano tutte le principali radio libere italiane. Veniamo premiati ad Alassio, dove c’è anche Vasco, che è di “Punta Radio”, la mia diretta concorrente. Poco dopo, nel 1977, assieme a Bonvi, Lucio Dalla e Francesco Guccini, fondo una radio indipendente, “Marconi & Company”. Il progetto però non decolla e l’emittente viene chiusa alla fine dell’anno. Accadono i fatti tragici di Bologna e la polizia cerca tutti quelli che raccontano gli scontri in radio. Cerca anche me. Così, per non farmi trovare, cambio il nome in Red Ronnie. Poi la mia stessa radio decide di allontanarmi e allora vado da Vasco, per propormi alla conduzione di qualche programma. Inizialmente, l’emittente pensa di affidarmi un programma di interviste ai piloti di Formula 1, che però non andò più avanti. Quello fu l’unico contatto che ebbi con “Punta Radio” e, quanto a Vasco, lo incontrai nel suo ufficio.»

Quello con Vasco è solo uno dei tanti incontri lungo il tuo percorso. Qual è stato quello più significativo?

«Ci sono incontri che sono durati a lungo nel tempo: Vasco Rossi, Lorenzo Jovanotti, Lucio Dalla, Gino Paoli… ma quello più significativo è avvenuto con un pittore sconosciuto, William Congdon. Lo incontrai due volte, una delle quali qualche giorno prima che morisse nel 1998. Già stava male, così mi spostai a Buccinasco, dove viveva in un monastero benedettino. Mi ritrovai ad intervistare uno spirito. Di fatto quel racconto è commuovente, emozionante, ed è diventata la mia intervista più richiesta (il dvd numero 2 del “Roxy Bar”, disponibile anche su “Red Ronnie TV”). William Congdon fu uno spirito che mi ha raccontato tante verità. Ancor oggi, quando la rivedo – ricordo che finii di montare l’intervista alle quattro di mattina, proprio quando lui moriva, ma io ancora non lo sapevo – trovo delle indicazioni che non avevo notato prima. Quello è stato per me l’incontro più importante a livello di interviste. A livello personale, invece, l’incontro più significativo è stato quello con il mio amico Bruno di Forlimpopoli, che mi ha insegnato l’alimentazione, a diventare vegetariano e mi ha abituato a capire la responsabilità e il compito che ho sempre avuto: dare spazio ai ragazzi e voce a chi non ce l’ha.»

Nel 1980 intervisti Bob Marley, in occasione del concerto di San Siro. Sei stato tra i pochi reporter al mondo ad aver video-intervistato, per oltre due ore, il Líder máximo Fidel Castro. Qual è stata l’intervista più complicata da ottenere?

«Non ci sono state interviste particolarmente difficili da ottenere. Non so perché, ma mi si sono sempre aperte le porte. Anche quando ti emozioni, perché fai la prima intervista a David Bowie, irraggiungibile allora, nel 1986… alla fine, era lui che chiedeva di essere intervistato da me. Tranne a John Lennon, Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison, tutte le interviste che ho desiderato fare le ho ottenute!»

Ce n’è stata una particolarmente difficile da portare a casa?

«L’intervista più difficile da portare a termine è stata quella con Van Morrison, perché era completamente pazzo. Abbandonava il set in continuazione, mandandomi affanculo. Qualsiasi domanda gli rivolgessi. Venne ospite Mick Hucknall dei Simply Red a casa mia e l’ha guardata sei volte, ridendo da matti ogni volta.»

Ripensavo agli amici con cui negli anni hai stretto rapporti più duraturi, magari elargendo qualche buon consiglio. Nel 1987, ad esempio, consigli a Vasco di affidare la regia del videoclip di “C’è chi dice no” a Peter Christopherson (ex membro dei Throbbing Gristle), che realizza quel video e, in seguito, anche la regia di “Liberi liberi” nel 1989. Red, qual è stato il miglior consiglio che hai dato?

«È vero, a Vasco consigliai il regista Peter Christopherson, ma gli consigliai anche di mettere il microfono in tasca, a Sanremo! Il miglior consiglio che ho dato non è stato ascoltato. Un giorno, un artista che aveva avuto un grandissimo successo, mi chiese cosa dovesse fare e io gli risposi di seguire il proprio percorso. Gli dissi che il cammino di una persona, sia dal punto di vista artistico, sia sotto l’aspetto umano, talora coincide con piazze affollate, altre volte con sentieri di montagna, dov’è difficile inerpicarsi; sentieri fatti di solitudini e silenzio. Ma è necessario praticarli. Quell’artista, indispettito, mi rispose che avrebbe lasciato a me i cammini solitari, preferendo invece le piazze sempre affollate. In quel modo – a mio avviso – si va solo alla ricerca del consenso. E, quando vai alla ricerca del consenso, smarrisci la direzione.»

Red, sei mai andato alla ricerca del consenso?

«Ricordo che, quando feci la prima puntata di “Mi ritorni in mente” su Rai 1, c’erano ancora i fax, quelli chimici. Il fax cominciò a sputare un rotolo incredibile di carta e chiesi cosa fosse. “È il minuto per minuto” mi sentii rispondere, per analizzare quello che televisivamente non funziona. “Allora, se scopro che una cosa bella non fa funzionato, la devo eliminare?” con una domanda evidentemente retorica “Se è così, il minuto per minuto non mi interessa!”. Da quel giorno non mi hanno più mandato l’odiens, che avrei fatto durante ogni minuto televisivo del programma. E non ho mai cercato il consenso. Molte volte il consenso l’ho ottenuto in modo clamoroso, però non è mai stato quello l’obiettivo. L’obiettivo non è occuparsi dell’involucro, di ciò che sta fuori – come mi ha suggerito Enzo Gragnaniello – ma del contenuto.»

Contenuto e contenitore, dal minuto per minuto televisivo al colpo di coda di un mondo ormai al collasso.

«È un po’ come la differenza tra sapienza e saggezza. La sapienza è quella che ti fa inventare la plastica, l’intelligenza che ti fa fare soldi; la saggezza, invece, è quella che ti fa dire: “Dobbiamo smettere con la plastica, col dare priorità ai soldi che hanno distrutto il pianeta, e cominciare a pensare ad altri valori. Il colpo di coda di un mondo che sta morendo è rappresentato musicalmente dalla trap, dove si esalta l’apparire a discapito dell’essere. Ma ostentare la ricchezza è obsoleto ormai.»

In tema di valori, non possiamo non affrontare l’argomento famiglia. Gabriele Ansaloni cosa spera di essere riuscito a trasmettere alle sue due figlie, Jessica e Luna? E che tipo di marito è ed è stato?

«Un genitore non si mette lì a dire: “Ora ti trasmetto un valore”. Un genitore dà l’esempio. E l’esempio che le mie due figlie hanno avuto è stato quello di un padre che magari delle volte era assente, pur sforzandosi al massimo di non esserlo. Anche nel momento del successo enorme, quando da un’indagine Abacus avevo il 97% di popolarità, non sono mai andato via dal mio paese. Quando Berlusconi mi offrì di condurre le due edizioni di “Una rotonda sul mare”, capii che avrei distrutto la mia famiglia. Perché quello che mi veniva palesato era un mondo completamente falsato rispetto al luogo in cui vivevo. Io sono ancora insieme alla ragazzina che ho sposato nel 1977. Certo, non è stato facile. Soprattutto per lei. Quando Morena mi ha conosciuto, lavoravo in banca. Improvvisamente è successo un grande capovolgimento nella nostra vita, nella mia vita… I valori li devi avere dentro e poi fai vedere come ti comporti.»

Prima si parlava di consenso. Secondo la tua opinione, chi è l’artista italiano che sta utilizzando al meglio i social con il proprio pubblico?

«Oggi gli artisti sono molto persi a farsi i selfie con il pubblico dietro. Hanno persone che si occupano dei loro social, che vengono usati per avere il consenso e vendere più dischi. Potrei dirti, invece, che quello sempre più all’avanguardia sui social è Vasco Rossi, anche se non sono d’accordo su questo darsi in pasto continuamente. Non lo ero nemmeno quando Vasco faceva i “clippini”, però ha anticipato tutti, mettendosi a nudo. Lui, rockstar inavvicinabile, oggi – socialmente – è quello più avvicinabile di tutti. Vedi ogni secondo della sua vita: quando va in spiaggia, quando incontra i fan, quando è a Los Angeles, quando fa jogging… Paradossalmente Vasco Rossi è proprio l’artista che ha usato al meglio i social.»

Tra le righe si evince come la pensi sul concetto di “mito”. Per un cantante o una band oggi è sicuramente più facile farsi conoscere attraverso i social media e, grazie alle nuove tecnologie, il pubblico può interagire con gli artisti che ama in modo diretto, in una maniera inimmaginabile fino a qualche anno fa, quando forse erano considerati un po’ più “miti”. Credi sia un bene o trovi si sia persa un po’ di magia in questo passaggio? Chi sono stati i tuoi miti?

«È cambiato tutto, non si può fare un confronto tra ieri e oggi. Una volta gli artisti vivevano di vendite di dischi, oggi non è più così. Il protagonismo dei miti parte dal mondo del cinema: divi irraggiungibili che vedevi lontani. Per me il mito era Gianni Morandi, andavo a vedere i suoi film con Laura Efrikian e lo vedevo lontano, irraggiungibile. Oggi è diverso, c’è questo desiderio di apparire che ti fa sembrare che – grazie alla rete – tutto il mondo possa accorgersi di te. Ma il più delle volte il mondo non sa né chi sei né è interessato a te. Viviamo in un’epoca in cui, con l’uso dei social media, si tende a enfatizzare tutto. Oggi gli artisti combattono contro il protagonismo di ogni persona.»

Nelle inquadrature dei tuoi servizi ti soffermi molto sulla gente, De Gregori direbbe “La storia siamo noi”. Anche per te vale questo adagio?

«Io riprendo con la telecamera rivolta verso gli altri. In tutti i miei reportage tu non mi vedi, senti solo la mia voce, vedi quello che io vedo. È totalmente diverso l’approccio: io amo documentare, non essere documentato.»

Le telecamere del “Roxy Bar” hanno documentato di artisti geniali, unici, inimitabili. In un’edizioni fu ospite fisso Giorgio Faletti, ed è già trascorso un lustro dalla sua scomparsa. Ti andrebbe di condividerne un ricordo?

«Ci incontrammo in un periodo in cui Giorgio non funzionava più come comico: stava vivendo un momento di crisi, nel quale era stato emarginato dalla televisione. Io gli diedi un’opportunità. Mi ricordo che lui veniva a casa mia, ci mettevamo in giardino e pensavamo ai personaggi che avrebbe proposto al “Roxy Bar”. E per me fu un onore. Ma soprattutto è stato importante riuscire a dargli l’opportunità di apparire in una trasmissione che funzionava parecchio, facendo quello in cui credeva. Il “Roxy Bar”, però, era un programma di improvvisazione, mentre il ruolo del comico presuppone un testo scritto. Giorgio mostrava qualche difficoltà ad inserirsi… Sarebbe stata una grande opportunità per lui, se solo avesse voluto entrare in quel meccanismo, ma era già verso altri lidi… Pensa al meraviglioso scrittore che è diventato e a “Signor tenente”…»

Quel “minchia, signor tenente” ha scosso e fatto emozionare l’Italia intera.

«Amo riprendere in piano sequenza con una telecamera. E mi piace spesso chiedere: “Qual è stata l’esibizione più magica di tutti i festival di Sanremo?”. “Minchia, signor tenente!”. Perché, durante quell’esibizione del 1994, non c’è mai stato uno stacco di camera. C’era sempre la telecamera in primo piano su Giorgio Faletti e basta.»

 

Gino Morabito

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