TOCCANDO SUL VIVO IL CUORE DEL PUBBLICO, ON STAGE MARCO LIGABUE

Si racconta a cuore aperto, mettendo a nudo le proprie fragilità. Con quell’attitudine tipica degli emiliani, di chi si pone in maniera spontanea, senza filtri. Da spettinato, come ama definirsi Marco Ligabue. Prendendo la vita, a volte, anche con i capelli in disordine. Sotto i capelli arruffati, un piercing fa capolino dal sopracciglio sinistro, più giù la barbetta incolta.

Tre dischi in cinque anni per il musicista di Correggio (RE), che, all’età di quarant’anni, non può fare a meno di assecondare l’orologio biologico da cantautore: «Solo tu sai quello che hai dentro e che vuoi tirar fuori. E quanta voglia hai di tirarlo fuori, nonostante tutto e tutti! Allora mi sono rimboccato le maniche, ho messo l’elmetto in testa e sono partito.»

Ovunque ci fossero “due casse e i jack per attaccare la chitarra e il microfono” Marco era lì. A suonare, a fare esperienza, a crescere. Oltre cinquecento concerti per un artista che ha trovato nel live la dimensione più congeniale per esprimersi. Quel luogo privilegiato dove le emozioni fluiscono liberamente dall’anima alla canzone, dal palco al pubblico. Quella metafora poetica della vita che, come l’oscillazione di un’altalena, ha spinte incredibili di rock energico e ballad profonde e intimiste. Toccando sul vivo il cuore del pubblico, on stage Marco Ligabue.

Oltre 500 concerti all’attivo, da quando Marco Ligabue ha iniziato il suo percorso da cantautore. “In live we trust”?

«Credo molto nel live, perché è il modo migliore per farsi conoscere: hai più tempo a disposizione per fare ascoltare le tue canzoni, intercalando qualche discorso tra un brano e l’altro, in cui magari racconti come sono nati certi pezzi. Lavoro tanto sull’empatia con il pubblico, cercando di coinvolgerlo il più possibile, divertendoci insieme. Credo che questa formula sia stata vincente per i primi sei anni di attività da cantautore! Si è sparsa la voce che ai miei concerti ci si diverte molto e gli organizzatori stanno continuando a chiamarmi.»

Suonare dal vivo, sopra ogni cosa!?

«Finita la cena, quel tempo che mi separa dall’esibizione è lunghissimo, interminabile. Per me suonare è liberatorio, divertente. È un momento talmente bello, che non vedo l’ora di salire sul palco.»

Le emozioni fluiscono liberamente dall’anima alla canzone, dal palco al pubblico. Quali attenzioni, quali cure particolari nella scelta delle parole?

«Nei testi racconto sempre storie vere, episodi salvati che mi hanno colpito. È quella la molla che mi fa scattare la scrittura di un brano… Dal vivo, attraverso alcuni aneddoti personali, cerco di raccontare di me e del mio percorso di cantautore. E, quando ti racconti a cuore aperto, mettendo a nudo le tue fragilità, le tue debolezze, al pubblico arriva.»

Qual è stata la storia più sofferta da rendere sotto forma di canzone?

«Due canzoni in particolare ho dedicato a delle storie vere di cui sono venuto a conoscenza. E, quando parli degli altri, non è sempre facile comprendere se hai svolto il tuo compito al meglio. Una è “Il silenzio è dolo”, dedicata a un giornalista siciliano di vent’anni, che raccontava verità scomode; l’altra è “Un attimo fa”, un brano dedicato a un commercialista che si è messo a combattere il clan dei casalesi, perché non voleva pagare il pizzo. Essendo storie molto forti, particolari, sofferte, hanno richiesto un’attenzione massima al testo, per riuscire a raccontarle davvero al meglio.»

 

Che responsabilità deriva dall’avere la possibilità di veicolare dei messaggi in grado di arrivare a tanta gente? Insomma, senti il peso della “musica leggera”?

«L’unico peso che sento è la responsabilità nei confronti di me stesso: prima di pubblicare una canzone devo essere sicuro che le parole e la melodia mi rappresentino al 100%. Perché una volta fuori, è fuori per sempre. Oggi esce talmente tanta musica, c’è così tanta distrazione in giro, che non credo più nei messaggi importanti che le canzoni possono veicolare. Come poteva accadere negli anni Settanta. Sì, magari, riescono a far innescare qualche riflessione, far soffermare su qualche tematica, ma non credo riescano a cambiare il mondo.»

Un linguaggio – quello di Marco Ligabue – che si nutre di emotività. Per cosa ti emozioni? Da che cosa rimani rapito?

«Nella vita privata mi emoziono per alcuni momenti che passo con mia figlia, con la mia ragazza, quando vado a vedere un concerto particolarmente bello… Lo scorso aprile, ad esempio, ho visto dal vivo i Mumford & Sons e ho avuto la pelle d’oca in tanti momenti dello spettacolo. Le emozioni per me sono la musica, i sentimenti, la famiglia… gli aspetti più veri della vita. Sul palco, mi emoziona quando riesco a toccare il cuore del pubblico. Ogni tanto lo avverto che il pubblico è tutto con me, e allora è un’emozione incredibile.»

Hai fatto riferimento al tempo speso con tua figlia. Quale lezione di vita vorresti riuscire a trasmetterle?

«Mi piacerebbe che nutrisse tante passioni, come già fa: canto, ballo, recitazione… Mi piacerebbe che avesse una gran voglia di esplorare i propri interessi, studiarli, approfondirli e, in qualche modo, riuscire a intraprenderli. Poi, che siano passioni di un anno o di tutta la vita, lo scopriremo solo vivendo! Vorrei riuscire a trasferirle la spontaneità che mi è propria e che penso appartenga un po’ a noi emiliani: quell’attitudine di approcciarci alla vita in maniera spontanea, senza filtri, senza barriere. In questo modo riesci a vivere la vita emozionandoti, ancora più intensamente.»

Mi piacerebbe che raccontassi ai ragazzi, che vorrebbero riuscire a intraprendere questo stesso percorso, qual è stata la tua gavetta.

«Avevo intrapreso un percorso da chitarrista e autore, in cui non pensavo di dovermi esporre attraverso il canto. E lì, con la band, la classica gavetta fatta delle prime serate nei club, le nostre demo, i primi dischi autoprodotti. Poi, sei anni fa, è scattato il mio orologio biologico da cantautore e ho deciso di intraprendere questo percorso da solista. All’età di quarant’anni, son partito in un momento in cui tutti mi dicevano: “Ma cosa stai facendo, Marco? Dove pensi di andare? Hai già quarant’anni, ormai è tardi… Sei il fratello di Luciano Ligabue, con un cognome troppo pesante…”. Tanti no e solo pochi che mi davano una pacca sulle spalle per partire.»

Immagino che tu abbia indossato una bella giacca per lasciarti scivolare addosso le critiche, ti sia fatto una dose massiccia di coraggio, un bel respiro… e via.

«Solo tu sai… – e mi rivolgo proprio a un ragazzo che magari fa musica, suona la chitarra, scrive canzoni… – solo tu sai quello che hai dentro e che vuoi tirar fuori. E quanta voglia hai di tirarlo fuori, nonostante tutto e tutti! Allora mi sono rimboccato le maniche, ho messo l’elmetto in testa e sono partito. Ho capito che per i concerti ero particolarmente portato, suonando, per i primi quattro anni, in qualsiasi posto mi chiamassero: piazze, pub, pizzerie, lidi di spiagge… ovunque ci fossero due casse e i jack per attaccare la chitarra e il microfono io andavo. E quel tipo di esperienza è stata importante per farmi conoscere dalle persone, soprattutto per crescere come impatto live, come cantautore e come artista.»

Un’esperienza artistica che ha cominciato a cambiarti la vita. Quella stessa vita che, alla resa dei conti, è un po’ come un’altalena, con spinte incredibili e profondi bassi. Marco, qual è stato il momento più difficile da superare?

«Il momento più difficile è stato quando, tre anni fa, mi sono diviso dalla mia compagna. Non tanto per l’amore finito, che purtroppo può capitare, quanto piuttosto per aver messo mia figlia in una situazione di disagio, in cui è rimasta spiazzata. In quel periodo Viola aveva nove anni ed è stato certamente il momento più basso nell’altalena della mia vita: dare una delusione a mia figlia mi ha spaccato il cuore in due.»

Per contro, hai mai toccato il cielo con un dito?

«Il cielo l’ho toccato tante volte! Ma la più emozionante è stata quando ho visto mia figlia uscire dalla pancia. Puoi avere mille soddisfazioni sul lavoro, ma quando nasce un figlio è la cosa più bella del mondo!»

 

Qual è il sogno più grande che stai cercando di afferrare?

«Mi piacerebbe che, prima o poi, una mia canzone diventasse popolare, nel senso che la conoscano davvero in tanti. Per chi fa il mestiere di cantautore è davvero la maggiore gratificazione! Quando vado nelle piazze a suonare, vedo che i miei pezzi vengono particolarmente apprezzati, ma non ho ancora capito il motivo per cui io non riesca ad avere uno spazio nei network nazionali o in tivù, vetrine che mi diano realmente la possibilità di far arrivare una mia canzone alla gente, e che la gente dica: “Marco Ligabue, sì lo conosco! È quello che ha fatto quella canzone lì…”. Ecco, spero che, prima o poi, possa accadere.»

In un’epoca in cui si tende sempre più a minimizzare i contatti reali, privilegiando la virtualità delle relazioni, come racconteresti la vita alle giovani generazioni dei millennials?

«È una generazione che ha un modo di vedere la vita in una maniera completamente diversa da quella a cui appartengo. Per parlare di prevenzione nei casi di bullismo, di assunzione di droghe, sono andato in oltre duecento scuole (quarte e quinte elementari, medie, superiori, università) accompagnato da un papà che ha perso il figlio perché ha preso un francobollo di extasy. Abbiamo incontrato davvero tutta la fascia delle nuove generazioni e mi sono reso conto che i ragazzi ti seguono veramente quando racconti loro la verità. Quando quel padre raccontava la storia del proprio figlio morto per exstasy, mettendo a nudo tutti gli errori fatti come uomo e come genitore, vedevo che i ragazzi lo seguivano, partecipavano realmente alla vicenda. All’inizio degli incontri trovavamo centinaia di studenti distratti, annoiati, con il telefono in mano… poi, una volta entrati nel senso profondo della storia, il loro atteggiamento cambiava: diventavano attenti e partecipi. A volte la vita vera vale più di mille insegnamenti!»

La vita come un’altalena di ricordi. Che infanzia è stata quella di Marco Ligabue?

«Ho avuto un’infanzia bellissima, con due genitori fantastici che non mi hanno mai fatto pressione. Sì, mi sono stati un po’ dietro negli studi, quando magari non avevo tanta voglia… Ma, per il resto ho avuto davvero una bella infanzia: semplicissima, classica, di quelle con le palline dei ciclisti nel cortile e il pallone nel campo da calcio; con i primi videogames in sala giochi, i flipper e il biliardino… Un’infanzia in cui magari, a quindici-sedici anni, facevo più fatica a “cuccare” le ragazze, ma poi, verso i venti, mi sono dato una bella svegliata… In questo la musica mi è stata di grande aiuto, cominciando a farmi vivere una vita davvero divertente, molto “wild”.»

Luciano senior che tipo di fratello maggiore è stato? Negli anni come si è evoluto il vostro rapporto?

«Luciano mi ha sempre voluto molto bene, anche se c’è una grossa differenza di età tra di noi, che quando si è piccoli, naturalmente, ti fa mantenere delle distanze. Io avevo due anni e lui ne aveva dodici, io cinque e lui quindici… Sì, mi voleva bene, ma faceva delle cose completamente diverse da me. A cinque anni io ero un bambino che giocava con i Lego, e Luciano cominciava a uscire e andare nelle prime discoteche la domenica pomeriggio… Solo dopo aver compiuto diciotto-vent’anni i nostri mondi hanno cominciato veramente ad avvicinarsi, e da lì ci sono stati anche grandi momenti di condivisione.»

C’è un consiglio che, umanamente e professionalmente, vorresti dare a Luciano?

«Da fratello, gli consiglierei di prenderla con più leggerezza, di fare quello che si sente. Quando sei una star di prima grandezza, come Luciano, devi continuamente fare i conti con i manager, le case discografiche, le agenzie di spettacolo, le radio, il mondo mediatico… dove tutte le aspettative sono sempre a mille. Secondo me, dopo trent’anni vissuti come quelli di Luciano, è arrivato il momento in cui dovrebbe cominciare a fare solo quello che lo diverte, fregandosene di tutto il resto.»

C’è, invece, qualcosa che lui continua a ripeterti?

«All’inizio, Luciano mi ha detto di studiare, di mettermi a testa bassa… Ma mi conosce, sa come sono fatto… Allora si è fatto da parte, sa di essere una figura ingombrante… e non ha mai insistito. Ora sta vedendo che mi diverto, che me la godo… E credo vada bene così.»

Prima di salutarci, un’ultima curiosità: mi sono accorto che il tuo stato di WhatsApp recita “spettinato”. In che senso?

«, spettinato! Mi piace pensare alla vita senza troppe regole, senza tante sovrastrutture – certo nel rispetto di tutti – ma prendendola, a volte, anche con i capelli in disordine.»

 

Gino Morabito

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