SE TI CHIAMI BRUNO SANTORI, UN RACCONTO SULLA MUSICA DIVENTA STORIA

Bruno Santori 01_musicaintorno«Non mi piace in nessun modo considerare che chiunque abbia voglia di essere musicista lo sia. C’è sempre un prezzo da pagare e per essere musicisti occorre dedicarsi allo studio, bisogna crescere.»

Se ti chiami Bruno Santori, eminente figura musicale tra le più versatili del panorama italiano, un racconto sulla musica diventa storia. Lo incontriamo perché rimasti sedotti dal suo ultimo raffinatissimo lavoro, Jazz&Remo il Festival, un progetto per il Bruno Santori Quartet in cui sono reinterpretare in chiave soft & jazz mood alcune delle più belle canzoni del Festival di Sanremo. Puntualissimi all’appuntamento, scopriamo subito che nel gigante c’è un uomo squisito, solare e appassionato. Siamo felici di passare del tempo con chi ci regala un confronto prezioso e, nella confidenza del tu, manteniamo inalterata la statura di chi scopriamo. Tocca a noi la prima mossa, al Maestro accompagnarci.

Dopo le tue molteplici esperienze sanremesi comprendiamo la necessità di approdare a “Jazz&Remo il Festival”: un progetto fresco e convincente, ad un tempo elegante e misurato, immediato e sapientemente elaborato nella successione delle magnifiche tracce che lo compongono: una rilettura perfetta, insomma. Come ci sei riuscito?

«Grazie tante. Facciamo qualche passo indietro. Quando giovanissimo suonavo nei Daniel Sentacruz Ensamble (loro l’indimenticata Soleado, ndr) amavo già il jazz e allo stesso tempo studiavo in conservatorio. Così, quando suonavamo nei pressi di Milano, una volta finito, invece di tornare a casa, andavo al Capolinea, che allora era un locale molto noto per il jazz e dove la gente affluiva in un turnover che durava tutta la notte. Lì si poteva mangiare qualcosa ed ascoltare ottima musica con i più grandi nomi dell’epoca. Io andavo e trovavo Renato Sellani, Cerri, Basso e Rusca, Palumbo, insomma i più grandi jazzisti di quel tempo. Allora mi mettevo all’ascolto e ogni tanto mi permettevano anche di salire sul palco e di suonare in qualche jam session. Quindi, il jazz ce l’ho proprio dentro, nel mio DNA. In seguito mi sono diplomato in pianoforte con Paolo Bordoni e sono andato a perfezionarmi con Arnaldo Cohen a Londra. A quel punto sono passato alla musica classica lasciando i Sentacruz all’età di 19 anni, dopo avere avuto grandi possibilità di successi come quando nel ’76 presentammo Linda bella Linda, il mio primo Festival che proprio l’anno scorso ha contato esattamente 40 anni. Ora, quando tre anni fa ho lasciato la direzione artistica e stabile della filarmonica di Sanremo e di Area Sanremo, dove ho vissuto 5 anni importanti, ho pensato: adesso mi voglio dedicare un poco al jazz che è… come posso dire?, la mia terza anima musicale che non ho mai espresso pubblicamente. E così ho fatto. Ho iniziato a suonare con trii e varie altre formazioni eseguendo i famosi standard jazz e, a un certo punto, ho buttato sul pianoforte una quarantina di spartiti di brani del festival. Lì ho preso un po’ a giocare partendo dalle armonie.»

Bruno Santori 02_musicaintornoIl tuo lavoro ci sembra valere una costruzione per uno scopo preciso: avvicinare al jazz. Ci spieghi la distanza, se ne esiste una, tra il jazz e il pop?

«Guarda, i due generi a volte si allontanano come fossero due parenti che vivono lontano ma, alla fine, non è che siano poi così sconosciuti l’uno all’altro. Se consideri che Quincy Jones, uno dei più grandi personaggi del jazz, ha prodotto Michael Jackson…»

… come diversi standard jazz non sono altro che delle canzoni pop diventate celeberrime.

«Se vogliamo dire la verità, addirittura alcuni compositori, autori pop, sono andati ad attingere negli standard proprio per creare canzoni per grandi artisti, sia italiani che internazionali…

… Con questo non voglio lanciarmi in dichiarazioni particolari o in denunce di plagio, ma conoscendo bene, sia gli standard che la musica pop, comprendo i contenuti, quello che di appartiene a… In conclusione, il jazz influisce notevolmente sulla musica pop. Quello che succede un po’ meno è il contrario. Anche, se poi, come giustamente stavi dicendo tu, Estate di Bruno Martino era una canzone che alla fine è diventata uno standard.»

Uno dei più eseguiti.

«Assolutamente! Ancora, voglio dire, i Toto sono e sono stati dei jazzisti che creano attualmente anche musica pop. Vogliamo parlare, poi, di Mario Biondi?»

Ci mancherebbe. Un mio Conterraneo.

«Un musicista straordinario che ha portato così tanta italianità nel jazz e così tanto jazz nella musica italiana: apprezzabilissimo e stimabilissimo. Quello che cerco di dire con questi esempi è che le incursioni non sono poi realmente tali. Parliamo più di spostamenti di peso, cioè: appesantisci in qualche modo la zavorra e affondi nel jazz, l’alleggerisci e risali nella pop. Ecco, la pop è forse la parte superficiale di quella musica che poi nella profondità diventa il jazz. Ed io ho sempre pensato che il jazz sarebbe stato, a un certo punto, la musica pop del futuro o, in qualche modo, quantomeno la musica pop si sarebbe rinnovata attraverso il jazz.»

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Maestro, sebbene l’album interessi ogni decennio di vita del festival, ben 1/3 dei titoli della tracklist è riconducibile agli anni ’80. Credi più nella casualità o nelle scelte necessarie, nella fattispecie in quella dettata da un periodo fecondo di successi?

«Ma guarda, se tu mi chiedessi quali sono gli anni che ho interpretato non me li ricordo neanche, a dire la verità. Nel senso che ho fatto scivolare sotto le dita le cose che mi sembravano potessero giungere meglio ad essere interpretate nel jazz. Quindi non ne ho fatto una questione di scelta in termini di anni. Per esempio, ti dico che uno dei brani che vorrò mettere nei prossimi lavori – credo sia venuto bene, ma forse non era ancora il momento per proporlo perché sarebbe diventato troppo… come posso dire?, vintage per la musica che stavo affrontando – è “Grazie dei fior” di Nilla Pizzi. Ho creato una versione di questo brano che secondo me è straordinaria, jazzisticamente parlando.»

Quindi è auspicabile un Jazz&Remo II volume?

«Io lo vorrei fare, sì. Ci sto lavorando e spero di poterlo realizzare. Ma bisogna vedere innanzitutto cosa funzionerà del disco appena uscito, perché sai, se me lo permetti e senza voler essere presuntuoso, io mi sento un po’ un apripista. Vedi, stiamo facendo live all’estero mentre in Italia stiamo ancora lavorandoci. In questo senso, sento di fare una dichiarazione severa: mi sto accorgendo che non esistono palcoscenici adatti in questo momento nel nostro Paese per il crossover. Ci sono festival jazz e circuiti pop che vogliono rimanere tali. Quindi è molto difficile rappresentare concerti di questo genere. Abbiamo molta più facilità all’estero, insomma. Lì stiamo maturando molte date e anche ospiti in importanti festival jazz. L’Italia è più ostile in questo senso e, allora, ho preferito al momento abbandonarla.»

Bruno Santori 04_musicaintornoIn effetti, tra le sfaccettature tendenti al crossover ricordiamo il riuscito Chante di Aldo Romano, in Francia. Poi, va da sé che nel panorama accademico la nostra nazione si è aperta a corsi jazz solo recentemente, riconoscendo un ruolo a questa musica. Una dimensione culturale retrograda, non credi?

«Abbastanza, e non solo. Ma il problema non sta unicamente nel jazz, che adesso in qualche modo si sta un po’ strutturando dalle nostre parti. È proprio il crossover che non è compreso e contemplato come forma artistica, idea sostenibile.»

A proposito di idee. Siamo consapevoli che la buona riuscita di un’idea sia strettamente legata alle possibilità di realizzarla.

Tu sei un musicista dalla solidissima formazione. Un suggerimento per chi si proietta verso il mestiere dell’arte?

«Guarda, quando io incontro i ragazzi dico loro sempre una cosa, ripetutamente: approfittate del fatto che non si vendano più dischi per fare buona musica. Nel senso: non rincorrete il successo facendo i gelati per l’estate e i panettoni per il Natale. Invece, cercate di fare album. Provate a fare musica profondamente, cercate di conoscerla profondamente per poi interpretarla. Non interpretate prima di conoscerla, questo è una grave problema. Molto spesso ci sono musicisti che non approfondiscono la loro conoscenza e si accontentano di quello che sembra loro già subito vendibile e spendibile. Questo, ribadisco, è un problema grande perché la musica non diventa più un pensiero formato ma solo un’occasione per apparire e per eventualmente arrivare al successo facilmente. Le famose scorciatoie, che possono anche funzionare, finiscono inevitabilmente quando tutti si accorgono di esse, ed è allora che non c’è più la possibilità di servirsene, poiché diventano talmente congestionate da non valere più alcuna possibilità se non quella di ritrovarsi in un cono di imbuto.»

Bruno Santori 05_musicaintornoInsomma, non è sudata l’esperienza che crea l’artista.

«Questo è il punto. Bisogna capire che cosa significa musica per noi, se è un’esperienza del nuovo o se è un’occasione per arrivare al successo.»

Ora, discorrendo di percorsi, la marsalese Giulia Pugliese, genuina e limpida voce scelta per interpretare l’album, proviene da The voice of Italy. Significa comunque che i talent funzionano?

«Significa che ormai ai talent vanno quasi tutti quelli che possono andarci. Significa solo questo. Voglio dire, se in un parcheggio troviamo la persona colta allora a questo punto dovremmo pensare che i parcheggi radunano la cultura. Invece, in un parcheggio si va solo per lasciare l’automobile. Quindi lì la Giulia è andata… Tra l’altro l’ho conosciuta quando ero direttore artistico di Area Sanremo e lei, che era ancora minorenne, veniva addirittura con la madre. Poi da lì non è giunta al Festival, come a tanti succede. Ma ad un certo punto, in seguito, mi sono accorto di lei tra i contatti Facebook e l’ho ritrovata anche in tv quando, a The voice of Italy, era nella squadra di Fachinetti. Così l’ho seguita con curiosità e mi è piaciuta – fra l’altro sono molto amico di Roby Fachinetti da anni, apparteniamo alla stessa città, Bergamo. Ora, devi sapere che avevo iniziato il progetto Jazz&Remo con Silvia Aprile, vocalist di Fiorello in Edicola Fiore, con la quale abbiamo suonato standard insieme per tanto tempo e che, quando Silvia ha seguito un suo obiettivo e ha pensato quest’anno di andare al Festival di Sanremo, ci siamo dovuti lasciare artisticamente e lì ho dovuto sostituirla. Da quel momento ho sentito una trentina di voci almeno, tra cui alcune veramente strepitose ma assai jazzistiche. Invece, per quello che era il mio pensiero, ne cercavo una che avesse una voce costruita nell’esperienza della tecnica, cresciuta e formata nel modo giusto con una tecnica pulita. Occorreva una voce brillante, ma che non fosse strettamente jazz, perché questo è un crossover e non un disco di solo jazz. Alla fine desideravo che l’interfaccia con il pubblico fosse data proprio da Giulia, che è una cantante tipicamente pop. Al jazz abbiamo pensato noi in trio e Giulia ha cantato il pop, anche se poi si è appassionata al jazz.»

Esattamente quello che si riesce ad ascoltare.

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A Sanremo, e non solo lì, ti abbiamo visto dirigere decine di artisti, ma hai anche collezionato la direzione di prestigiose formazioni e orchestre di fama internazionale (i Solisti del Teatro Alla Scala di Milano, i Virtuosi dei Berliner Philharmoniker, l’Orchestra del Teatro La Fenice di Venezia, l’Orchestra dell’Opera di Budapest, l’Orchestra Sinfonica della RAI di Roma), e prodotto progetti discografici per Nomadi, PFM e Stadio. Quale esperienza ricordi con più piacere e quali altri incontri speri di fare sul tuo sentiero?

«Ma, guarda, io sono per natura molto fatalista, sempre in attesa che qualcosa accada. Devo dirti, sinceramente, che molte delle cose che mi sono accadute non le ho cercate e che diverse mi sono solo capitate. Così come quando incontrai PFM nel 2009, per esempio. Ero direttore musicale del Festival di Sanremo di Bonolis e PFM, presente in veste d’ospite, mi vide immerso in quelle aperture, non so se ricordi… dal Requiem di Mozart ad Another brick in the wall dei Pink Floyd.»

Indimenticabile! Un risalto immediato e apprezzamento univoco della critica.

«Fra l’altro sono le cose per le quali Bonolis mi scelse. Devo dire che mi ha dato grande soddisfazione quel momento. Ricordo, per esempio, quando piangendo mi chiamò l’amico Faletti da New York, in quei giorni in America per i suoi libri: Bruno, ma che grande amico artista sei! Fu un’emozione incredibile! La mattina dopo non mi ero ancora reso conto di quanto questa apertura fosse diventata importante. Dunque, PFM che aveva in serbo un progetto che sarebbe poi diventato il “PFM in classic”, vedendomi fare quelle cose in crossover – la sera dopo partivo dalle arie d’opera finendo a We are the champions dei Queen – mi chiese se me la sarei sentita di collaborare. E così è andata. Per diversi anni abbiamo suonato insieme, arrivando a rappresentare questo grande progetto perfino a Tokyo. Un successo enorme in Giappone!»

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A 5 anni tu sedevi già al pianoforte. Che bambino era Bruno? Sognava o no una vita da pompiere?

«Stai sereno… (ride). Allora io avevo due sogni: fare il benzinaio o diventare Papa.»

Oggi, invece, cosa sogna di realizzare da grande Bruno Santori?

«Guarda, quest’anno compirò sessant’anni. Sogno di vivere ogni momento che mi resta con la maggiore serenità possibile. Questo è il mio sogno. Per quel che riguarda la musica, sono già soddisfatto ogni giorno perché faccio sempre quello che mi piace di più e senza mai cercare di ottenere qualcosa in cambio. Io sono sempre un entusiasta, quindi quando credo in un progetto mi ci butto completamente dentro, senza minimamente pensare a quello che mi potrebbe dare, anzi!… ci penso troppo poco per la verità, quando sarebbe meglio farlo di più. Ma non ne sono capace.»

Senti, abbiamo citato il Santori Quartet, che annovera oltre a Giulia Pugliese anche i validissimi Fabio Crespiatico al basso e Stefano Bertoli alla batteria. Cosa occorre per lavorare insieme al Maestro Santori?

«Occorre essere persone serene. Nel senso che io amo circondarmi, quando possibile, di individui che fanno quello che amano fare. Sebbene io debba aggiungere che sono anche molto attento al livello di professionalità delle persone, perché non mi piace in nessun modo considerare che chiunque abbia voglia di essere musicista lo sia. C’è sempre un prezzo da pagare e per essere musicisti occorre dedicarsi allo studio, bisogna crescere. Quindi, oltre a quella sulla persona, faccio sempre una valutazione professionale.»

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Sei ambasciatore del turismo a Malta. Ci racconti?

«Grazie al ministro del turismo di Malta nel marzo scorso sono diventato ambasciatore. A Malta ho un’idea che mi piacerebbe realizzare, un grande progetto: fare nascere lì un polo musicale, un accentramento per raccogliere tutte le musiche del Mediterraneo. Perché il Mediterraneo può esprimere una sua musica.»

Qualcosa che si aspetta da anni, insomma.

«Sì, credo. Perciò mi spenderò in questo. Cercherò di dare il mio piccolo contributo a questa grande opportunità che noi del Mediterraneo abbiamo. Ci meritiamo una nostra musica e non sempre solo di suonare quella americana…»

Stiamo per salutarci. Immagina di essere tu per una volta il cantante. Quale canzone vorresti cantare, con quale voce e da chi vorresti essere diretto?

«(Ride) Non ci avevo mai pensato. Dunque… vorrei essere diretto sicuramente da Ennio Morricone – sarebbe un onore, perché rappresenta indubbiamente l’autorità musicale italiana, su questo non ho dubbi. Poi, vorrei cantare una canzone di Renato Zero il cui titolo mi sfugge ma che dice… “stringimi forte ché nessuna notte è infinita”.»

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Certo, la bellissima “I migliori anni della nostra vita”.

«Proprio quella, scritta da Maurizio Fabrizio, un compositore e autore straordinario – tra l’altro ho saputo che questa canzone fortunata era stata scritta per Giorgia, che intelligentemente non volle cantare perché non era per lei, mentre altrettanto intelligentemente Zero incise perché era perfetta per lui. È una canzone teatrale, una canzone che ha bisogno di essere interpretata, e siccome io la mia vita la interpreto sempre un po’ teatralmente – non a caso sono un amante di D’Annunzio –, allora sì: canterei I migliori anni della nostra vita.»

 

Giuseppe Sanalitro

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