THE KOLORS, TRA SFUMATURE DI CORAGGIO E INNOVAZIONE MUSICALE

Quando comincia a parlarmi in napoletano, realizzo che si è venuta a creare una sorta di complicità; due amici che discutono di interessi comuni: la musica, i Pink Floyd, la vita… tutti aspetti convergenti nella personalità artistica di Antonio Stash Fiordispino.

Un confronto, il nostro, che, senza filtri, né sovrastrutture da parte del frontman dei The Kolors, ha messo in luce il privato di un trentenne a cui ormai va stretto l’abito di teen idol e si affaccia a un genere musicale che omaggia gli Stardust ed Eric Clapton. Giochiamo divertiti sul significato da attribuire a “Pensare male”, e nel retropensiero ci mettiamo dentro la curiosità di quanti, nell’era della sovraesposizione mediatica, vorrebbero comunque sapere tutto di tutti; il pregiudizio di chi non riesce a prendere in considerazione l’eventualità che “qualcuno nato rotondo possa morire quadrato”; la disinformazione che sta alla base di quella diffusa incapacità di costruire il proprio giudizio critico.

“A pensar male si fa peccato ma si indovina” recita l’adagio, e potrebbe anche essere vero! Com’è pur vero che Stash riesce a conquistarci: per la genuinità tipica del suo essere napoletano, per la capacità di rinnovarsi e di innovare, per quel coraggio di credere fermamente nell’energia positiva della gente. Perché, come dice il nostro Antonio: “Chi se mette appaura, nun se cocca cu ‘e femmene belle”. Una massima di vita, dove la bella donna non rappresenta esclusivamente l’altra metà del cielo, ma l’obiettivo prefissato da raggiungere. Chi ha paura di osare, parte con il freno a mano tirato. E i The Kolors viaggiano a vele spiegate.

Hai trent’anni Stash ed appartieni a una generazione che è stata investita dalla febbre social. In un’epoca mediatica in cui tutti sanno tutto di tutti, che rapporto hai con la curiosità della gente?

«Faccio davvero fatica a comprenderla. Ho difficoltà nel capire chi voglia conoscere a tutti i costi anche il privato del proprio beniamino. Quando io sono fan di un artista, sono fan della sua musica. Poi, che mi incuriosisca magari sapere che chitarra ha usato John Lennon sulla canzone “Jealous guy”, vedendo una foto di repertorio… beh, quella potrebbe essere una curiosità lecita da appagare. Purtroppo mi sto rendendo conto che stiamo andando sempre più alla deriva. Con la sovraesposizione mediatica nell’era dei social, siamo diventati tutti superstar e l’obiettivo principale non è tanto quello di comunicare qualcosa, quanto piuttosto di avere delle cose, soprattutto avere tanti numeri. È una deriva preoccupante! Non voglio fare il vecchio trombone che si lamenta della nuova scena musicale… ma l’obiettivo non è più il contenuto quanto il contenitore. Quello che prima era un convogliare le energie, la forza delle persone, dei numeri… verso una direzione che potremmo definire “concettuale”, artistica, un movimento – e non voglio necessariamente scomodare i Pink Floyd -… oggi è diventato un badare più ai piedi della influencer di turno.»

Ti confesso che, da fan, mi capita difficilmente di pensare al privato dell’artista: quando c’era De André sul palco a esibirsi, io lo ascoltavo suonare…

«… Intendo proprio questo! Come quando ho scoperto casualmente, non molto tempo fa, che David Gilmour ha otto figli. Perché a me non era mai interessata la vita privata dell’artista, ma la chitarra.»

 

Non fai mistero della tua grande grande passione per i Pink Floyd, con la testimonianza indelebile di alcuni tatuaggi. Non hai mai avuto la curiosità di sapere, ad esempio, come fosse nata l’idea del cane che canta nel “Live at Pompeii” del 1972?

«Il motore di quell’episodio, così come in tutto il percorso artistico della mia band di riferimento, era il messaggio: c’era sempre un messaggio dietro. In quel caso, il messaggio era il non voler rispettare le regole, la volontà di ribellarsi contro qualcosa di canonico. Quando decisero di inserire in quel progetto la performance del cane che abbaia, che canta, c’era l’intento di andare contro un cliché. Quelle dei Pink Floyd, sono canzoni che comunque, pur andando “contro” il sistema, hanno fatto la storia. Erano contro perché rappresentavano il nuovo. Ma non è che scaricarsi una base trap da YouTube e fare quattro rime in croce significa essere nuovi. Essere nuovi vuol dire cambiare le cose. E l’episodio del cane nel “Live at Pompeii” del 1972 ha rappresentato il cambiamento, l’innovazione. È questo il messaggio!»

Tu hai mai fatto qualcosa “contro”?

«Andare contro i cliché, intendi? Non lo faccio in maniera studiata, non c’è nessuna strategia. Semplicemente, ripensando alle ultime produzioni che ho realizzato, cercando di andare contro le barriere per abbatterle, forse con qualcuna ci sono riuscito. Credo di esserci riuscito con una canzone che segna il nuovo inizio dei The Kolors, che abbatte la barriera del preconcetto, di quell’etichetta di “band da talent”.»

Un abito che va ormai stretto a un gruppo che riesce a dimostrare sul campo la propria capacità di reinventarsi musicalmente, conquistando anche quella fetta di pubblico che ha sempre snobbato i The Kolors, etichettandoli come “band di teen idol”.

«Era arrivato il momento in cui ci siamo chiesti se fosse il caso di continuare a cavalcare l’onda dei tormentoni, o se, invece, volessimo mettere dentro la nostra musica quello che siamo veramente. Cavalcare l’onda dei tormentoni, in questo momento, non ci rappresenta! Poi aggiungi anche i riferimenti agli Stardust e ad Eric Clapton… un genere pop che, in realtà, prende le movenze da altro… L’ultimo mio gesto “contro” è stato quello di portare nelle radio qualcosa che non ci si aspettava dal mondo dei The Kolors: l’innovazione, il coraggio. A Napoli si dice: “Chi se mette appaura, nun se cocca cu ‘e femmene belle” (chi ha paura non va a letto con le belle donne). Una massima dove la donna bella non rappresenta esclusivamente la donna, ma l’obiettivo da raggiungere. Se hai paura di osare, in qualsiasi settore, dall’edilizia alla musica, parti con il freno a mano tirato. Rischi di ripeterti e, quando ti ripeti, prima o poi, cadi e ti fai male.»

La massima napoletana sancisce una sorta di complicità con Stash, facendomi realizzare che sono difronte a un artista che si racconta senza filtri, senza sovrastrutture, con l’urgenza di comunicare la passione e il coraggio che giocano un ruolo fondamentale nella musica dei The Kolors; una musica al passo coi tempi, in continua evoluzione.

«Uno degli aspetti positivi del mondo musicale di oggi è che c’è un ricambio velocissimo. Se prima un album durava tre anni, adesso dura sei mesi, forse anche meno… poi hai bisogno di inventarti qualcosa di nuovo. Devi mostrare un’altra sfumatura di te, del tuo lato artistico. Ed è un aspetto positivo, che va verso la direzione giusta: se, nel momento in cui sei ispirato, riesci a tirare fuori più progetti, i tuoi fan ne giovano.»

I vostri fan sono rimasti piacevolmente impressionati dalla svolta artistica di “Pensare male”, una canzone con la quale siete riusciti a spiazzare chi vi aspettava ancora ostinatamente dall’altra parte. Che rapporto hai con il pregiudizio?

«Non lo vivo per niente male, anzi ci gioco! Spesso la percezione del pubblico del mainstream è condizionata dai passaggi radiofonici, dall’impatto televisivo. Il più delle volte, si tratta di un pregiudizio figlio della disinformazione, ed è bellissimo per chi, come me, ha tanto da dire, per riuscire a conquistare un’altra persona! Io credo nell’energia delle persone.»

Ti capita mai di soffrire di ansia da prestazione?

«Se non c’è quel pizzico di adrenalina prima di salire sul palco, non ha neanche senso salirci. Si tratta di uno stimolo positivo, che fluidifica il canale delle emozioni. Se dovesse venire meno il racconto emotivo nei confronti di quelle centinaia, miglia di persone che si trovano davanti a te, sarebbe il caso di fermarsi.»

Quello di Stash è un racconto emotivo che trae origine dalla sua Napoli. Che rapporto hai con la città di Pulcinella?

«Ho un rapporto fantastico! Per me Napoli è la città più bella del mondo e, nell’ultimo anno, lavorando a Roma, sono riuscito a tornare a casa molto spesso. Mi sono accorto che mi mancava l’energia positiva della gente napoletana. Sì, è vero, ci sono tante questioni da risolvere, ma credo che oramai i problemi di Napoli siano gli stessi di qualsiasi altra metropoli ad altissima densità demografica. E, per quanto possiamo essere discepoli di Pulcinella, della maschera della felicità, vale un’altra massima, che tradotta recita più o meno così: “Anche se è un’illusione, ti fa bene, perché stai ridendo”

Qual è l’insegnamento più grande che ci continua a dare questa controversa realtà?

«Rimanere con i piedi per terra! E, quando fai le cazzate, ammetti di averle fatte e chiedi scusa.»

Qual è la parte di Napoli da salvare, da riuscire a tramandare alle generazioni future?

«Non credo di essere l’unico a pensarla in questo modo, ma ritengo che l’aspetto più prezioso sia quello della genuinità. Mantenere intatta la genuinità, restare con i piedi per terra e non dare mai nulla per scontato nella vita. Ecco il messaggio di Napoli da tramandare!»

Su Stash dei The Kolors si dicono tante cose. Detto tra noi, chi è veramente Antonio Stash Fiordispino?

«È uno che ha tanta passione per la chitarra e per la musica. È un bravo musicista e non soltanto un ragazzo con un bel ciuffo. Piano piano stiamo seminando e credo che, prima o poi, qualche cosa arriverà.»

 

Gino Morabito

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