“TARAKÈ”, FRANCESCA INCUDINE SI CUNTA

Quelle di Francesca Incudine sono storie di cambiamento e di coraggio.

Un cambiamento da affrontare, come una sorta di auto-profezia che deve ancora avverarsi; quel coraggio che occorre ad emergere, a buttare il cuore oltre l’ostacolo.

Undici piccole guerriere, le canzoni del pluripremiato “Tarakè” (Isola Tobia Label), che ci lasciano intravedere squarci di “vanedda”, il luogo del cuore dove la cantautrice ennese è cresciuta e si è affinata nell’arte di “cuntista”.

Ospitati per l’occasione dalla galleria civica SPE, la vincitrice del Premio Bianca d’Aponte e della Targa Tenco per il disco in dialetto più bello dell’ultima annata, mi racconta la sua voglia di rivalsa e come la musica riesca sempre a diventare strumento di salvezza: «Credo nella bellezza e nel potere terapeutico dell’arte e della cultura, che è coltura, cioè coltivazione delle proprie passioni. Con determinazione.»

Come su un palco a fine concerto, nella partita giocata tra l’artista e il suo pubblico, l’affascinante narrazione di Francesca Incudine giunge così al termine. Un attimo prima, ascoltando il silenzio. Quel silenzio che precede l’applauso.

 

Francesca Incudine, tra le giovani realtà più interessanti della world music italiana. “Giovane realtà”, che ne pensi di quest’etichetta? È un vestito che ti senti bene addosso?

«È sicuramente una bellissima definizione quella che mi è stata data ultimamente; soprattutto mi piace essere una “realtà”, che tenta di emergere a dispetto dei colossi del mondo dei talent, della tivù. C’è tutto un sottobosco fiorente di giovani emergenti, ancora quasi del tutto invisibile ma decisamente reale, vivo, concreto. Farne parte mi lusinga e allo stesso tempo mi fa sentire la responsabilità del ruolo. Essere una “giovane realtà” della world music italiana è un vestito che mi sento bene addosso.»

E se ti dicessi invece che mi ricordi Giovanna Marini?

«Anche quello è un bel vestito. Non ci può essere un presente senza un passato. Giovanni Marini è un’artista che, in qualche modo, ha ridipinto la figura del “cunta storie” nella tradizione della musica popolare italiana. Anche quel tipo di vestito mi rappresenta: sono una “cuntista” che si rifà alle proprie radici.»

L’espressione “cuntista” richiama inevitabilmente alla lingua siciliana. Secondo una giuria composta da oltre 300 giornalisti musicali il tuo “Tarakè” è il disco in dialetto più bello dell’ultima annata. Quali erano le aspettative prima della pubblicazione e quali scenari si stanno schiudendo adesso?

«È passato un anno dalla realizzazione di questo lavoro e la promessa che io e i miei collaboratori c’eravamo fatti, in fase di composizione, era di rinnovarci rispetto al primo album, pur rimanendo autentici e fedeli a noi stessi. Solo un anno fa non immaginavamo minimamente di riuscire a centrare tanti obiettivi in così poco tempo, men che meno conquistare la Targa Tenco. Grazie a questo prestigioso riconoscimento, si sono aperti molteplici scenari che mi hanno permesso di essere più ascoltata, di arrivare a più persone.»

Una regola non scritta vuole che il secondo lavoro sia più difficoltoso del primo: si è creato un precedente, aumentano le aspettative, monta l’ansia da prestazione.

«Le difficoltà sono state quelle di dovermi misurare ancora una volta con la lingua siciliana, con le sue immagini, i suoi scenari tipici, e riuscire a farla convivere con l’italiano. Preoccupazione che poi si è sciolta subito, poiché le canzoni sono andate a comporsi da sé, in modo naturale, facendo incontrare le mie due lingue madri, immerse in un sound minimale (tutti strumenti acustici e solo il basso elettrico) che narra assieme alla parola.»

Dove si sposterà l’asticella per il prossimo futuro?

«Accanto alla composizione da cantautrice, mi piacerebbe cimentarmi in un disco da interprete. Vorrei provare a spostare l’asticella oltre oceano, magari in direzione del Pakistan, affiancando all’alternanza siciliano-italiano anche altri linguaggi musicali. Pur mantenendo la mia matrice di cantante che guarda al world e all’indie, tra i miei progetti futuri vorrei riuscire ad abbracciare anche il genere pop, il fusion, il jazz.»

Un lavoro intenso e delicato, tra canzone e world music, alla ricerca di emozioni da raccontare. Che infanzia è stata la tua? Che storie ti raccontavano da piccola?

«La mia è stata un’infanzia di “vanedda” (stradina di paese), una dimensione che oggi abbiamo perduto; la “vanedda” di vicinato, dove ci si incontrava, ci si raccontava, si giocava lontano da qualsiasi dispositivo tecnologico dei giorni nostri. La “vanedda” è il luogo dove sono cresciuta, anche attraverso gli aneddoti dei miei nonni. La mia esigenza di scrivere, raccontare, andare a ricercare le storie degli altri deriva proprio dalle trasmissioni di mia nonna, figura molto importante nella mia vita. Ricordo che a tredici anni ho cominciato a suonare i tamburi a cornice e facevamo le prove nella “vanedda”.»

Invece, ormai grande, quali storie ami raccontarti ogni giorno?

«Prima le canto, poi me le racconto. Sono storie di cambiamento, un cambiamento ancora da affrontare, che mi sono scritta come una sorta di auto-profezia; sono storie di coraggio, quel coraggio che occorre ad emergere per chi viene da un piccolo paesino, a buttare il cuore oltre l’ostacolo.»

“Tarakè” è lo scompiglio necessario. Qual è il cambiamento che ti fa più paura affrontare?

«Se tutti vanno via, chi resta? È la croce e delizia del cambiamento: da un lato la voglia di andare via, a ricaricarmi, per questa dimenticanza in cui ci troviamo; dall’altro la paura di lasciare la mia terra, amara e bella. E lo rimarrà per sempre.»

Oggi, anche i musicisti di valore, incontrano grandi difficoltà a far conoscere le proprie opere. Hai mai vagliato la possibilità di partecipare a un talent show?

«Mi hanno proposto di partecipare a X Factor, ma ho declinato l’invito. Il problema comunque non sono i ragazzi che partecipano, ma tutto quello che ci sta dietro, il meccanismo. Diciamo che non mi sento vicina a quel tipo di esperienza, è una questione di obiettivi: vorrei che la mia musica non fosse di consumo o di semplice intrattenimento. Vorrei riuscire a fare della musica per restare.»

Rispondendo alla promessa fatta a te stessa di essere “autentica”, ti chiedo: chi è Francesca Incudine?

«È una piccola anima su un palco, che aspetta di sentire quel silenzio prima dell’applauso. Perché è lì che si gioca la partita tra l’artista e il pubblico; lì senti veramente se il messaggio che volevi trasmettere è arrivato. Francesca Incudine adesso è sul palco, un minuto prima dell’applauso.»

 

Gino Morabito

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