SARA MODIGLIANI, NEL CUORE DEL FOLK SBOCCIA UN FIORE SCARLATTO

“Fior de scarlatto

a le porte de Roma ce sta’ scritto

gira pur quanto vòi, che qui t’aspetto”

(stornello romanesco anonimo)

Finalmente a Roma il tanto atteso secondo concerto del nuovissimo ensemble Fiorescarlatto da Zazie nel Metrò, locale trendy del Pigneto che, per falsa modestia, si definisce ‘baretto di quartiere’. Creato da Sara Modigliani – voce storica del folk revival degli anni Settanta e poi della canzone romanesca – con le giovani Vanessa Cremaschi al violino e Stefania Placidi alla chitarra, il trio tutto al femminile aveva esordito nell’estate del 2018 al Folk Festival di Civitella Alfedena, riscuotendo da subito enormi consensi.

Fiorescarlatto è infatti un ensemble d’eccezione visto il background delle tre artiste: Sara Modigliani può avvalersi di un’estensione vocale calibrata sulle tonalità della canzone romanesca, allenata in tanti anni di carriera; Vanessa Cremaschi, nonostante il look sbarazzino da ragazza ribelle, è una violinista eclettica ma di salda formazione classica, che può vantare un’esperienza professionale pluriventennale in formazioni concertistiche; e in ultimo, ma non meno importante, Stefania Placidi, chitarrista, cantante e compositrice formatasi sul repertorio classico prima di avvicinarsi al folk italiano e alla musica brasiliana, che con la sua interpretazione strumentale e vocale riesce a dar corpo alla performance.

 

Nella cornice della rassegna “Regina di Fiori e Radici” curata da Zazie nel Metrò, i tre ‘fior de scarlatto’ hanno cantato e raccontato l’amore in tutte le sue sfaccettature con verve e humor travolgenti, riproponendo canzoni d’amore e serenate di Roma e del Lazio. Fiorescarlatto utilizza gran parte del repetorio che Sara Modigliani, come mi spiega lei stessa, ha messo insieme in tanti anni di carriera, ma ha anche la possibilità di accedere alle registrazioni inedite dell’Archivio Sonoro Franco Còggiola del Circolo Gianni Bosio. Riesce così a presentare al suo pubblico canzoni inedite e canti popolari, come ad esempio le ‘strofe per gli sposi’, antichissimi canti raccolti col metodo della ricerca etnologica sul campo direttamente dalla viva voce di vecchie signore in paesini sperduti del Lazio.

Ma non solo: con alle spalle un lavoro di ricerca volto al recupero e alla trasmissione della musica popolare e d’autore, le tre artiste attingono infatti anche al loro repertorio personale sconfinando spesso e volentieri nel territorio dei canti popolari di altre regioni, soprattutto del centro e sud Italia, modificando la scaletta a secondo dell’umore e del polso della sala. Canzoni che, riportandoci alle nostre radici, fanno muovere i piedi e battere le mani a giovani e meno giovani, e intonare allegramente cori di “piuriurì piuriurà” o di “zumpa balla e lariullà”. Un repertorio, quello di Fiorescarlatto, che ha fatto brillare gli occhi al pubblico in sala, certamente romano ma non di sette generazioni, e non immemore di sagre popolari e feste paesane; un emozionante viaggio di riscoperta delle tradizioni lungo un paio di ore, che abbiamo avuto il piacere e l’onore di continuare intrattenendoci a conversare con Sara Modigliani.

 

Penso tra me, e le chiedo se è ‘romana de Roma’, come si suol dire, a conferma della veracità.

«», conferma Sara, «di sette generazioni: essendo di famiglia ebraica romana, non potrebbe che essere così, perché la comunità ebraica qui è la più antica d’Europa.»

Rotto il ghiaccio, si comincia: com’è nato il trio Fiorescarlatto, come si sono incrociate le vostre strade – tua, di Vanessa Cremaschi e Stefania Placidi?

«Nel 2016, dopo il terremoto, un’amica ha avuto l’idea di andare ad aiutare la Casa delle Donne di Amatrice a cui era crollata la sede, creando un gruppo con amiche musiciste e organizzando un concerto di raccolta fondi per la ricostruzione. Abbiamo chiamato il gruppo TerreDonne, cioè ‘le donne per il terremoto’. Quando poi sono stata invitata al Folk Festival di Civitella Alfedena nell’estate del 2018, ho pensato di partecipare con un trio: ‘pescando in questo ‘gruppone’, ho scelto Vanessa Cremaschi e Stefania Placidi. Vanessa è un violino classico e un’accademica, ma talmente eclettica che fa mille cose, suona anche con Venditti, Fiorella Mannoia ecc. Stefania, dal canto suo, ha una padronanza dello strumento fuori dal comune, lei ci parla con la chitarra! Io sono più grande di loro, e per questo la mia storia è un po’ più conosciuta, diciamo così…»

La prima canzone della scaletta proposta da Zazie nel Metrò, mi spiega Sara, «è la più antica canzone romana esistente, la serenata “Bella quanno te fece mamma tua”, fatta da me precedere dallo stornello “Fiore scarlatto”», che non a caso dà nome al trio. Lo stornello è un componimento poetico di undici sillabe, di solito cantato improvvisando in quanto modo di lanciare dei versi, d’argomento amoroso o ironico, alla persona alla quale ci si rivolge, che poi potrebbe a sua volta rispondere cantando di rimando: «Ci si può mettere dentro qualsiasi contenuto, in quanto la melodia è sempre uguale mentre le parole cambiano ad estro del cantante.»

Poi aggiunge: «Inoltre, l’invito ad Alfedena, è stato l’occasione per tirare fuori dei brani dell’Archivio Sonoro Franco Còggiola del Circolo Gianni Bosio, che è un archivio di canzoni popolari ricchissimo, risalente alla fine degli anni Sessanta.»

 

Dov’è fisicamente il Circolo Gianni Bosio?

«L’Archivio Sonoro si trova all’interno della Casa della Memoria a Trastevere, in un edificio comunale; ma la sede sociale del Circolo Bosio, a Sant’Ambrogio, non esiste più da quando siamo stati fatti sgomberare, indiscriminatamente, all’inizio del 2016. Lì avevamo la segreteria, una grande sala concerti, e una scuola di musica dove io e Susanna Buffa insegnavamo i canti popolari, altri insegnavano zampogna, organetto, fisarmonica, mandolino, tamburello, chitarre di tutti i generi e tutti gli altri strumenti della musica popolare… Ora ci arrabattiamo per continuare l’attività didattica in aule prestate; io dirigo il coro del circolo una volta alla settimana in una sala in affitto.»

Tu che strumenti suoni?

«Io ho studiato il flauto dolce, infatti lo suono anche in un gruppo di musica rinascimentale. Ho imparato anche a suonare il pianoforte e la chitarra, ma solo a fini pratici, giusto per quello che mi serve per canticchiare.»

Com’è iniziata la tua carriera?

«Secondo me non è mai iniziata e non inizierà mai, perché è una parola che non mi piace. Chi ha in testa una carriera, si pone una meta: io non ho una meta, non mi interessa proprio. Se hai una voglia, un talento, il piacere di fare una cosa, la fai e basta! Sai quante volte nella mia vita mi hanno detto: “Nun sei famosa te, perché non stai alla televisione”! Ma a me non interessa minimamente apparire: mi interessa ‘essere’. Cantare ho sempre cantato, mi sembra di essere nata cantando, è innato. In famiglia, mio fratello suonava la chitarra e io cantavo, cantavo sempre! Mio padre cantava un po’, i primi canti popolari me li ha insegnati lui, che era ‘romano de Roma’, perché gli ebrei sono più romani dei romani in quanto stavano a Roma ancor prima. Il mio bisnonno era uscito dal ghetto e aveva comprato una casa a Monti, in via Palermo, dove vivevamo. Mio padre mi cantava le canzoni popolari, soprattutto quando ero malata, e io non vedevo l’ora di ammalarmi per ascoltarlo!»

 

Quando hai cominciato ad esibirti in pubblico?

«Quando Alessandro Portelli mise su il primo gruppo del “Canzoniere del Lazio” – con Piero Brega, Carlo Siliotto e Francesco Giannattasio – ho cominciato a cantare davanti a un pubblico. Cantavamo le canzoni dell’archivio, girando negli stessi paesi dove erano stati registrati i canti originali, ‘restituendoli’ per così dire alle persone del posto, che ci ascoltavano allibite perché da Roma si aspettavano piuttosto un gruppo che facesse musica leggera! Eravamo nel pieno del folk revival e questo era un modo per fargli capire il valore della loro cultura musicale, era proprio un lavoro politico. Poi, nel 1975, con amici jazzisti abbiamo fondato la Scuola Popolare di Musica di Testaccio, dove io ho insegnato flauto. Sempre in quegli anni, attraverso il Canzoniere sono diventata amica di Giovanna Marini e ho fatto due spettacoli con lei. Un’amicizia di lunga data: il 9 gennaio scorso abbiamo fatto un concerto insieme al Teatro di Villa Torlonia, cantando tra le altre anche 4 canzoni bellissime e commoventi di Gianni Nebbiosigrandissimo cantautore e mio primo marito. Questo per dire che io canto anche canzoni di altro genere, tra cui quelle di Nebbiosi, ma sempre nello stesso modo in cui canto quelle popolari: non posso cambiare modo di cantare, perché è la mia forza.»

Hai avuto modelli o ti sei ispirata ad altri cantanti?

«Gabriella Ferri è quella che ha rotto con la tradizione romana del bel canto di Claudia Villa e ha cominciato a cantare le canzoni romane interpretandole con un suo stile. Chiaramente, per me che cantavo le canzone romana, il modello era lei, non Claudio Villa – anche se poi ho rivalutato il modo di cantare antico, bello e difficilissimo. Successivamente, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, ho avuto la fortuna di conoscere Italia Ranaldi, una signora sabina di Poggio Moiano, preziosa per il mondo del canto popolare. Grazie a lei, ho rinnovato il mio repertorio con canti di lavoro, d’amore, stornelli, ballate narrative e canti religiosi popolari, che io però non canto. Mi ha insegnato quello che lei sa, è un’informatrice. Mentre Graziella Di Prospero è una ricercatrice che ha registrato 3 dischi, cantando pezzi popolari di tutto il Lazio. Queste tre cantanti per me sono un riferimento fondamentale. Oltre a Giovanna Marini, naturalmente

 

La musica popolare, qualcuno potrebbe obbiettare, non è forse ricca in quanto a costruzione melodica e armonica, ma ha contenuti autentici, che ci riportano alle nostre radici. È importante tornare alle radici oggi?

«Certo, ma non ‘oggi’. È sempre importante, senza le radici crolli, però non bisogna dimenticarsi l’oggi. Come dice sempre Sandro Portelli, “la memoria non è una cosa vecchia”, perché se penso all’eccidio delle Fosse Ardeatine del marzo 1943, me lo sto ricordando adesso, quindi è una memoria viva. La memoria non muore mai, è senza tempo, lo stesso vale per le radici. Anche se adesso la musica è intrattenimento, non dobbiamo dimenticare quei canti, ma non perché “quelli erano bei tempi”: perché è la nostra storia, sono le nostre radici. Oppure pensiamo ai rapper che cantano l’oggi, cantano poesie sul presente: fra 50 anni le loro canzoni saranno considerate le nostre radici! Le nostre radici non finiscono mai, noi siamo la memoria di domani

Sara, prima di concludere, ancora una domanda: il repertorio che voi proponete piace ai giovani?

«Sì! Sto scoprendo che piace molto ai giovani, soprattutto l’aspetto romantico, le serenate, le canzoni d’amore. Forse, in questo mondo di violenza, c’è tanta voglia di amore, di leggerezza e di sentimenti lievi e belli.»

 

Dorina Alimonti

PDFStampa

Related posts