ROBERTO ANDÒ, IL FASCINO DI TIRESIA E LA MUSICA DELLA BELLEZZA

Ogni tanto, raramente, la vita ti riserva quegli incontri che “sanno di musica”, di colonna sonora della tua esistenza. Li riconosci subito, ti bastano poche battute.

Uno di questi formidabili confronti è certamente quello con il mio conterraneo Roberto Andò.

Conversazioni su Tiresia, il racconto mitico pensato, scritto e narrato da Andrea Camilleri, è stata un’opportunità per cogliere alcuni tratti meno evidenti della personalità del regista de “Il manoscritto del Principe”; la possibilità di scorgere “il teatro al di là del teatro”; la testimonianza della cultura dell’incontro di un testo, di un attore, del proprio pubblico; l’urgenza di “trasmettere quello che sei nel dialogo tra generazioni”.

Ne scaturisce un confronto da leggere alla luce della bellezza, quella stessa bellezza che – secondo Andò – avvolge le opere di Mozart: «pagine che corrispondono a qualcosa di profondo; pagine sospese tra un momento estremamente umano e una comunicazione con qualcosa che sta al di sopra e non ci appartiene; pagine che mi accompagnano e che ritornano.»

 

“Conversazioni su Tiresia”: un’esperienza di testimonianza urgente per il maestro Camilleri, la spinta e la molla per rimettersi in gioco. Ancora una volta. Roberto, la tua urgenza invece qual è?

«Mi ha fatto piacere che lui abbia pensato a me per intraprendere quest’avventura; poi ho trovato il testo davvero bello e mi è piaciuto molto che fosse legato a un momento della vita di una persona che stimo, che ammiro… di un grande maestro. C’erano, dunque, sufficienti motivi per aderire al progetto. Quando Tiresia parla, hai l’impressione che a parlare sia proprio Camilleri; le carte si mescolano. Ed è anche questo un aspetto che mi attrae: mi piace sempre di più che il teatro vada al di là del teatro. Conversazioni su Tiresia è stata la giusta occasione affinché tutto questo si compisse, e lo spettatore l’ha capito, lo ha colto. Quanto alla mia urgenza, è quella di incontrare un testo e un attore. Quando si verificano queste due condizioni, si può già aderire all’iniziativa. In più Tiresia è una figura di grande fascino: ha attraversato tutta la letteratura fino a oggi e, probabilmente, continuerà ad esercitare il suo fascino anche sui poeti e gli scrittori del futuro.»

In un certo senso, l’indovino Tiresia è un alter ego dello scrittore Camilleri. Analogamente, c’è un tuo film, una regia teatrale o quella di un’opera lirica, che potrebbero essere il tuo autoritratto?

«Ce n’è un pezzo in ogni film, più o meno, c’è un mio coinvolgimento. Ne “Il manoscritto del Principe” è investita appieno Palermo, la mia città, ed è presente una mia ossessione: come trasmettere quello che sei nel dialogo tra generazioni. Forse lì mi sono dissimulato, vuoi nel Principe, vuoi nel ragazzo che va a lezione da lui.»

Nella narrazione si avverte l’eco dello spettatore che si lega allo scrittore, due tipi di esperienze a confronto: la capacità di amore verso un progetto e la consapevolezza di doverlo destinare a qualcuno diverso da te. Hai in mente un pubblico ideale mentre dirigi?

«Francamente no, penso sia meglio non averlo; anche se, a un certo punto della tua carriera, questo pubblico lo incontri, ti testimonia la sua stima, ti segue. È come se diventasse un amico, un familiare. Lo penso piuttosto così, e in un modo totalmente inconscio, non premeditato, mi rivolgo a lui.»

Immagini immortalate nella pellicola cinematografica come nei solchi di un vinile. Per sempre. Cos’è per te l’eternità?

«L’eternità è qualcosa che, a volte, cogliamo nel modo più semplice: in controluce, un particolare scenario che si apre davanti ai nostri occhi, rivelandoci qualcosa che va oltre il tempo. A volte, la rivelazione non ha nemmeno un aspetto solenne. Penso che oggi sia difficile trovarla o discuterla; bisogna impegnarsi per intuirla, come dice Camilleri.»

La confidenza con l’eterno è stemperata dall’ironia, una dimensione che appartiene al nostro essere siciliani. Ti capita mai di sentire quest’“abito di scena” un po’ stretto?

«Sicuramente non ho mai avuto nessun tipo di complicità con il cosiddetto “sicilianismo”. Riconosco di certo quella tradizione in cui nel tempo si sono identificati scrittori, registi, fotografi, pittori ma la degenerazione del sicilianismo non mi appartiene affatto! Da questo punto di vista mi ritengo un uomo che ha sempre giocato un gioco solitario. Ed è forse questa la mia dimensione.»

Sei anche tu dell’idea che “la bellezza salverà il mondo”?

«… Lo diceva Dostoevskij e lo continuiamo a pensare, ma l’impressione è che le cose stiano andando in un modo diverso. È già difficile cogliere che cosa sia la bellezza, nel senso che è talmente mescolata alla contraffazione, al falso, al brutto, da non saperla riconoscere. Per riconoscerla devi fare uno sforzo, devi fare spazio. L’attività di fare spazio oggi mi sembra molto negata, perché la gente si riempie di immagini, di cose discutibili. Concentrarsi su sé stessi; elaborare, nella solitudine, la lettura, il pensiero… credo sia questa la prospettiva della bellezza.»

Roberto, esiste una musica della bellezza?

«Ho anche la fortuna di fare delle opere, occasioni per intrattenersi con colonne sonore meravigliose: una di queste è sicuramente Mozart. Mi sembra che Mozart, in tutta la sua opera, abbia scritto delle pagine che corrispondono a qualcosa di profondo; pagine sospese tra un momento estremamente umano come l’amore e una comunicazione con qualcosa, con qualcuno che sta sopra di noi e non ci appartiene; pagine che mi accompagnano e che ritornano.»

 

Gino Morabito

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