RITROVANDO PAOLO VALLESI, IL RACCONTO DI CHI NON HA MAI SMESSO DI CREDERE NELLA FORZA DELLA VITA

Quando lo vidi per la prima volta, al Festival di Sanremo del 1991, avevo 15 anni: il classico adolescente in preda ai cambiamenti tipica di quell’età, con la ribellione nelle vene. All’epoca ascoltavo tutt’altro, ma ricordo che quella voce un po’ roca, che cantava di un’altra umanità “fatta di gente destinata a perdere, in balia di un dio della disallegria”, mi lasciò incollato alla tivù.

Quelle persone inutili raccontate da Paolo Vallesi, riccioli neri e barbetta incolta a incorniciare uno sguardo leggermente malinconico, colpirono nel segno. Nel 1991 – seppur agli estremi della stessa giovinezza – eravamo due “ragazzi”: per me un futuro ancora in via di definizione; per Paolo Vallesi, invece, si spalancavano già le porte del successo internazionale.

Quasi 30 anni dopo, quella camicia bianca sotto il gilet scuro diventano rispettivamente t-shirt e giacca alla moda; l’evidenza di due collane sottolinea una barba folta leggermente brizzolata; i riccioli neri si sono ingrigiti – certo – ma la voce, quella voce un po’ roca è rimasta, e la dolce malinconia nello sguardo si trasforma in pura gioia, mentre agita le braccia in segno di vittoria. È sabato 2 marzo 2019, è sera tarda su Rai 1, quando Paolo Vallesi viene proclamato vincitore della seconda edizione di “Ora o mai più”. Il cantautore toscano si siede al pianoforte e, per la prima volta, canta “Ritrovarsi ancora” (Joe&Joe distr. Believe Digital), il brano inedito che farà parte del nuovo progetto discografico.

Quando l’occhio di bue gli illumina il viso, l’espressione tradisce una voglia di rivalsa: gli occhi brillano, la melodia ti prende e il sostegno del pubblico arriva forte come un abbraccio, lungo tutta una carriera. La carriera di un musicista a 360°, che, anche nei momenti più difficili, quando il successo sembrava ormai gli avesse voltato le spalle, ha continuato a scrivere, comporre, suonare la sua musica, e crederci fino in fondo. È tempo di soddisfazioni per il terzino sinistro della Nazionale italiana cantanti! Una vita vissuta in modo generoso, talvolta al limite della sopravvivenza, che gli fa stringere in mano un altro biglietto per l’ottovolante. La vita di un padre che augura al figlio di non crescere mai, restando umili; i tratti espressivi di un artista che non ha mai smesso di cantare la forza della vita. E noi ne dipingiamo il racconto.

Paolo, con quella voglia di rivalsa negli occhi, è tempo di soddisfazioni! Posso immaginare il motivo, ma te lo chiedo ugualmente: oggi cos’è che ti rende felice?

«Quello che sto facendo adesso! Mi rende ancora più felice perché, quando l’ho fatto in altri momenti, magari senza ottenere i risultati sperati… beh, sai, sono quelle cose che, alla fine, quando vai a letto a dormire, ti lasciano un po’ di amaro in bocca. Oggi, invece, quando vado a letto e so che l’indomani già dalle 8 avrò mille cose da fare, provo una sensazione di benessere. Mi rende felice cucinare: spesso e volentieri invito gli amici a cena, dilettandomi a far loro assaggiare tutti gli intrugli che preparo; mi rende felice la mia compagna; mi rende felice il rapporto con mio figlio.»

Che tipo di padre sei per Francesco?

«Ultimamente, sembrerebbe buono. Lo sono sempre stato buono, se non per il fatto di essere a mezzo servizio, soprattutto i primi anni della sua vita. Da genitore separato, capita di non riuscire ad avere tutto il tempo che si vorrebbe; però, per quanto possibile, quel tempo che si ha a disposizione, lo si moltiplica in qualità. Adesso, che Francesco è cresciuto, abbiamo sicuramente un ottimo rapporto e mi ha seguito anche nella nuova avventura televisiva di “Ora o mai più”, imparando a conoscere questa parte di mondo un po’ più dall’interno.»

Le esperienze della vita ti fanno crescere e tuo figlio sta diventando adulto. Gli faresti lo stesso ammonimento fatto a te stesso più di vent’anni fa, non essere mai grande?

«La foto della copertina dell’album era scattata in una giostra… È una condizione privilegiata degli artisti, quella di riuscire a non crescere mai, ad essere degli eterni Peter Pan, perché ci confrontiamo sempre con qualcosa che per noi è ludico, la musica. Il senso della canzone era duplice: non crescere mai da una parte, restando umili dall’altra.»

Tu da grande come ti vedi?

«Mi vedo cambiare strada facendo. Il me stesso di un anno fa, ad esempio, non avrebbe mai pensato di poter vivere un anno così importante. Sono in continua evoluzione; continuo a crescere, senza mai chiedermi come sarò o come sono nel frattempo. Il cambiamento lo avvertono le persone che ti stanno accanto. Tu da solo pensi sempre di avere 12 anni, fondamentalmente: continui a vedere i calciatori come se fossero più grandi di te, in realtà, forse, non è così.»

Ti guardavo in televisione e mi hanno molto colpito l’ironia e la maturità con cui riferivi del momento più basso della tua carriera artistica. Non ti chiedo di rievocare l’aneddoto, quanto piuttosto cosa ti abbia insegnato quell’esperienza.

«Quella esperienza mi ha insegnato a non accettare più offerte “artistiche” che potessero ledere il mio fegato. Fortunatamente, la mia attività musicale è sempre e comunque proseguita e, se in quel dato momento non ero magari benvoluto, non era necessario dover apparire per forza. Ho continuato tranquillamente a lavorare ai miei progetti.»

 

Dai tuoi progetti prende vita “Ritrovarsi ancora”, la canzone inedita presentata per la prima volta il sabato sera dal palco televisivo delle “seconde opportunità”, su Rai 1.

«Soprattutto la televisione ha dato una grande visibilità a questo singolo: i 4 milioni di persone che l’hanno ascoltato sono stati davvero importanti, come numerose sono state le visualizzazioni del video appena uscito e i download dalle piattaforme online. C’è stato fermento attorno a questo pezzo, perché la canzone è arrivata al pubblico così com’era nata. Fondamentalmente per due motivi: è stata scritta in modo estremamente veloce e probabilmente non ci sono troppi artifici sopra la composizione; è arrivata durante un periodo per me particolarmente felice, in cui, parlare di certi argomenti, mi rendeva “comunicativo”. E questa comunicazione è arrivata, sia per la parte musicale, sia per quella del testo, raccogliendo dei bei consensi.»

Consenso televisivo a parte, pensi che la televisione possa far bene alla musica?

«Questa trasmissione di Rai 1, in onda il sabato sera, secondo me è stata una grande scommessa. Basta fare un giro di canali, per vedere che il sabato sera la televisione è fatta di altri programmi, che poco o nulla hanno a che fare con la musica, lo sappiamo! Lanciare, il sabato sera, la musica in tivù con quel pepe necessario, quella polemicuccia ad hoc, per far sì che il programma diventasse uno spettacolo, è stata una scommessa vinta dalla Rai, che, con personalità artistiche di primo livello (e parlo dei coach), concorrenti che sapevano cantare e un’orchestra che suonava dal vivo, è riuscita a confezionare – nel nome della musica – un programma che ha funzionato molto bene.»

Qual è il prezzo che chiede in cambio?

«Chiede in cambio che uno si rimetta in gioco, com’è stato nel mio caso. Quando “Ora o mai più” mi fu proposto per il primo anno, dissi di no subito, perché non mi piaceva il titolo, l’espressione “mai più” la ritenevo piuttosto cinica; avevo paura che si trattasse di uno sberleffo per i cantanti non più in voga. In realtà, vidi la prima edizione; trovai che era fatta veramente bene, che tutti i concorrenti in gara erano trattati col più profondo rispetto della loro dignità e, quando me l’hanno riproposto, stavolta ho detto di sì. Portavo una storia importante, forse un po’ più importante di quella di qualcun altro che era là dentro. Si trattava di rimettersi in gioco, perché, quando si partecipa a una competizione, si parte tutti da zero. La televisione mi ha chiesto di accettare la condizione di non essere più un cantante in voga e di lottare, insieme agli altri, per tornare ad esserlo.»

Come una sorta di riflesso mentale condizionato, se dico Paolo Vallesi si associa automaticamente “La forza della vita”, come a rinchiudere in un recinto musicale senza uscita la carriera di un artista che è in attività dal 1989, pubblicando 7 album in studio e 1 live. In tutta onestà, non sei stanco di essere ricondotto quasi unicamente a quella canzone?

«È una canzone che continuo ad amare, poiché armonicamente molto aperta, che si fa suonare molto bene. Quando ci sono dei brani così importanti – considera che “La forza della vita”, solo in Italia, ha venduto oltre 570 mila copia dell’album; è stata pubblicata in tutto il mondo, tradotta in più lingue, e ancora oggi viene suonata nei locali di tutti e cinque i continenti… quando una canzone è così forte, è normale che dopo oscuri un po’ le altre. Ma non la considero una cosa negativa, anzi… Non tutti i cantanti hanno la fortuna di avere una canzone così importante. Lo scorso anno la SIAE ha certificato “La forza della vita” come “evergreen”: cioè farà parte del repertorio della musica popolare italiana per sempre.»

Dal ‘91 al ‘97 sono stati anni difficili da gestire, in cui si è innescata la dinamica in base alla quale più successo hai e più ne vorresti ottenere. Che rapporto hai con quello che tu ami definire un “ottovolante”?

«Crescendo, ho capito semplicemente che il successo è qualcosa che ci può essere come non essere, e che non cambia le cose importanti della vita: gli affetti; le persone a cui sei legato; ciò in cui credi, che nel mio caso è fare musica. Nel tempo, ho imparato che il successo è un ottovolante. È molto labile il successo, come la notorietà, e non bisogna ancorare la propria felicità a questi aspetti. L’importante è credere in quello che fai e avere delle basi solide: se a venticinque anni forse non le avevo, adesso, superati i cinquanta, sono sicuro di averle.»

La realizzazione personale risiede altrove, in un luogo da difendere strenuamente come fa un terzino sinistro. Continuando con la metafora calcistica, tifi ancora per le persone inutili?

«Assolutamente sì! È il mio credo: cerco di avere una vita quanto più semplice possibile e di fare del bene, quando riesco a farlo. Sono convinto che ci siano delle persone che non sprecano la propria vita, ma la mettono al servizio degli altri: grazie alla Nazionale italiana cantanti e a tutte le associazioni di volontariato con cui sono entrato in contatto, ne ho conosciute tante.»

Cinquant’anni è un’età nella quale ci si conosce ormai bene. Che consiglio darebbe il Paolo di oggi a quel giovane degli esordi?

«Gli direi di stare tranquillo e di non pensare di essere chissà chi, qualunque cosa lui faccia. Se qualche errore l’hai fatto, Paolo, è stato per quella presunzione che si ha, non tanto per colpa tua, quanto piuttosto perché sei circondato di persone che hanno interesse a lavorare con te; per le quali qualunque cosa tu dica, andrà sempre bene. Questo ti toglie un po’ il senso della misura e ti porta a credere di essere infallibile. Il consiglio che gli darei è quello di riflettere molto sulle persone che ti hanno aiutato a fare successo, dare ascolto a tutti e non pensare di essere superiore a nessuno.»

Se si dovesse concentrare la tua biografia in poche righe, cosa ti piacerebbe ci fosse scritto?

«Mi piacerebbe essere ricordato come un musicista a tuttotondo, che nella vita ha fatto il cantante, il cantautore, ma soprattutto ha scritto musica. Mi piacerebbe che rimanesse di me che sono un musicista che ha votato la propria vita alla musica.»

 

Gino Morabito

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