RITRATTO DI ANDREA GRIMINELLI

Andrea Griminelli flutist. Un epiteto che suona tutt’uno col nome. Flautista, indossato come una seconda pelle, che diventa significato e significante di un musicista dalla caratura internazionale.

Il ritratto di un uomo e artista che, come i più grandi, resta semplice, genuino, autentico.

Acclamato dalle platee di tutto il mondo, ha lavorato con i maestri della classica, ma anche del jazz e del pop. Il musicista di Correggio interpreta le più celebri arie d’opera “senza parole” e nelle orecchie gira e rigira il suono di quel flauto d’oro, pregiatissimo; uno strumento che presenta caratteristiche d’emissione affini a quelle proprie del canto.

Suona e incanta Andrea Griminelli. Standing ovation del pubblico dopo le magistrali esecuzioni al Madison Square Garden di New York, all’Hyde Park di Londra, alla Tour Eiffel di Parigi, nella Piazza Rossa di Mosca. Perché il suono, “se è vivo, se ha cuore… beh, allora quel cuore esce fuori dal disco, dal concerto… e arriva al cuore della gente”.

Griminelli propone “Nessun dorma – The opera I love you”, consapevole che la classica non è musica d’élite e che si tratta di un genere nel quale, o sai suonare davvero o c’è poco da fare. Andrea, è davvero così?

«È una sfida! Ho avuto la fortuna e il privilegio di sentire “Nessun dorma” cantata da Pavarotti dal vivo almeno duecento volte, mentre ero con lui in concerto. Cimentarmi in un brano del genere, potrebbe apparire pretenzioso, se non arrogante, ma l’idea è nata proprio da Pavarotti. È stato lui ad insegnarmi che il flauto è lo strumento musicale più vicino alla voce umana e che in certi fraseggi devo usare il vibrato dei cantanti. Ciò non vuol dire che, con il mio flauto, voglia superare la voce, e nemmeno sostituirla. Sarebbe impossibile! Piuttosto vuol essere un modo di interpretare e di esprimermi con il flauto nei brani che amo di più. Il titolo del disco non l’ho scelto io ma la Decca, che ha voluto omaggiare una delle romanze più conosciute.»

Mettere dentro un disco “Nessun dorma” è un’operazione ardita.

«Non voglio sfidare i cantanti! La mia è un altro tipo di interpretazione, mediante la quale ho cercato di suonare il flauto come se cantassi, facendo tesoro di ciò che i cantanti, quelli per cui ho avuto la possibilità di suonare, mi hanno insegnato, a partire da Luciano Pavarotti, Joan Sutherland, Andrea Bocelli. Ho usato anche dei vocalizzi, che facevo con la voce quando provavo con loro. Nel disco precedente, pubblicato sempre dalla Decca (un disco dedicato a Bach), non ho usato vibrati e preferito un flauto in ebano.»

Che differenza c’è tra il flauto in ebano e quello d’oro?

«Il flauto in ebano è molto più caldo, ma meno sonoro e più limitato nei vari timbri. Il flauto in oro, ma anche quello in argento, dà invece la possibilità di avvalersi di un numero maggiore di timbri, timbri “alla francese”, un po’ più intubati. Come risultato finale, con quello in ebano ti devi concentrare per far uscire il suono, e quello che esce non lo puoi modificare; con il flauto moderno il suono ha tante sfaccettature e hai molti più armonici.»

Per Pavarotti sei stato il figlio maschio che non ha mai avuto. Fu proprio lui che ti fece avere il flauto d’oro, pregiatissimo. Come si declina il sentimento di gratitudine nella tua musica?

«Per l’occasione che mi è capitata, credo di essere stato davvero molto fortunato! A venticinque anni, viaggiare con aerei privati, soggiornare in hotel a cinque stelle e avere a che fare con alcuni tra i musicisti più importanti al mondo, cominciava a sembrarmi abituale. Ma è chiaro che, senza il talento, la tecnica e l’impegno costante, non sarebbe durato. Se non mi avessero reputato capace, anche se presentato da Pavarotti, non mi avrebbero fatto esibire in diretta PBS, con la Decca che realizzava il dvd… a venticinque anni! Nel mondo, di talenti ce ne sono tanti, non sono il solo. Ma io ho avuto una fortuna unica e devo essere riconoscente a Dio, alla musica e a chi ha creduto in me per queste opportunità.»

Come hai conosciuto Big Luciano?

«Ho conosciuto Pavarotti grazie a un mio vicino di casa, che era il suo migliore amico. Nell’ottantadue studiavo al conservatorio di Parigi con J. P. Rampal e Luciano si recava molto spesso all’Opéra. Ma, ancor prima, questa opportunità la devo alla mia cittadina, Correggio, che mi diede una borsa di studio. A vent’anni avevo già un posto da insegnante al conservatorio di Ferrara e alla Fenicia di Venezia come flautista. Ma, per andare a studiare a Parigi con Rampal, che era il mio idolo, diedi le dimissioni. Lì poi, per fortuna, incontrai Pavarotti. È tutto collegato. Se investi su te stesso, prima o poi i risultati arrivano. Il mio investimento, nello specifico, fu quello di rinunciare a due stipendi pieni per andare a fare il borsista per cinque anni. Ma ho riavuto tutto indietro con gli interessi!»

Correggio è stata lo scenario della festa per i tuoi primi sessant’anni.

«Per i miei sessant’anni ho voluto festeggiare con un concerto, a scopo benefico, con molti dei miei amici musicisti. Anche se ormai vivo a Roma, ho scelto Reggio Emilia, la mia terra. Mi sembrava il minimo. È stata un’esperienza unica e irripetibile. Tutto è stato organizzato in modo molto casareccio, senza grandi produttori dietro. È stata una fatica micidiale, ma in molti sono venuti per farmi un regalo.»

Quali sono gli attimi, le immagini, che ti porti dietro da quello che è stato ribattezzato il “Griminelli & Friends”?

«Il momento più bello è stato quando sono arrivati, perché, fintanto che non li ho visti con i miei occhi, non ci credevo. L’immagine più emozionante è quella dell’arrivo di Sting da New York, su un volo di linea (abituato com’è a spostarsi con aerei privati). Bocelli arrivava da Parigi, e poi in macchina da casa sua, da Forte dei Marmi, fino a Reggio Emilia. Zucchero avrebbe dovuto essere in Germania, Renato Zero è venuto apposta, Amy Stewart è arrivata il giorno prima… Per ognuno mi sono emozionato, ed è stata un’emozione continua, dalla mattina fino a quando sono scoppiato, nell’ultimo brano con Sting, “Roxanne”, che ho dedicato a mia moglie Rossana.»

C’è un suono in particolare che ha caratterizzato quell’evento unico nel suo genere?

«Il suono è il timbro di ogni artista che saliva sul palco. Parliamo di eccellenze mondiali. Non mi porto dietro un suono mio. Quella sera, mi sono messo al servizio dei miei amici. Inizialmente avevo previsto di suonare più brani, ma, man mano che si aggiungevano artisti, ne toglievo qualcuno. E sono felice di averlo fatto, perché me la sono goduta di più! Il concerto l’abbiamo anche videoregistrato e non mi dispiacerebbe se venisse trasmesso.»

Un concerto capace di trasmettere gioia, a partire dall’ingresso sul palco di una bimba di sei anni.

«Ad aprire il concerto è stata Sofia, la mia bimba di sei anni. Si è seduta al pianoforte ed ha eseguito l’Inno alla gioia, con il coro dei bambini “Sorridi con me” e l’orchestra sinfonica Stradivarius. Siamo partiti da una bimba di sei anni al piano fino ad un coro di centocinquanta persone. Un momento davvero toccante, che nemmeno mi aspettavo! E, come tutte le cose inaspettate, dà una gioia ancora maggiore. Le cose più belle nella vita accadono quando meno te l’aspetti.»

In un mondo sempre più tecnologico, – mi si passi l’espressione – “sintetizzato”, quanto influisce la componente umana nella musica?

«Nella mia musica, il mille per cento! Anche nell’ultimo lavoro, “Nessun dorma – The opera I love you”, la componente umana è palpabile. Di elettronico non c’è niente. Oggi anche un musicista mediocre può fare un buon disco, grazie a tutte quelle macchine che ti intonano, ti fanno chiudere il vibrato… puoi fare di tutto. Prima nei dischi si trovavano sicuramente più imperfezioni, ma erano più umani. Purtroppo questo è un processo irreversibile e bisognerebbe fare di tutto, affinché un po’ di umanità permanga. Chi, come me, insegna musica ai giovani, ai ragazzi, dovrebbe innanzitutto insegnare loro l’umanità e la precisione della tecnica dello strumento, non solo ad usare la tecnologia. È chiaro, però, che, quando si fanno i concerti all’aperto, con dieci, venti, centomila persone… la tecnologia è essenziale. Ma questo è un altro ambito.»

Cosa ti piacerebbe che i ragazzi comprendessero?

«Vorrei riuscire a spiegare ai ragazzi che il suono del flauto, così come i suoni che piacciono di più alla gente (sono ormai diversi anni che conduco degli studi sull’argomento), è un suono che cura dalle ansie, dalle preoccupazioni, che ti fa sentire bene. Molto spesso, soprattutto tra i giovani, c’è una grande cura della tecnica, ma viene meno quella dei suoni. Quando avevo dieci anni e c’erano solo gli LP (io ne avevo un paio di James Galway e di Jean-Pierre Rampal), li ascoltavo in continuazione, per cercare di carpire quel suono. Così faceva anche Pavarotti. Mi raccontava di ascoltare Beniamino Gigli e Giuseppe Di Stefano, e cercava di emularli. Oggi i ragazzi hanno fin troppe informazioni, si perdono tra Internet e la tecnologia. Vorrei aiutarli a cercare il loro punto di arrivo, a trovare il loro nord. Non voglio certo sminuire nessuno. Vorrei solo si comprendesse che il suono, se è vivo, se ha cuore… beh, allora quel cuore esce fuori dal disco, dal concerto… e arriva al cuore della gente.»

Come direbbe il tuo amico, nonché testimone di nozze Gordon Matthew Thomas Sumner: “If you love somebody set them free”. Qual è il prezzo della tua libertà artistica, Andrea?

«Hai toccato un tasto dolente. All’inizio l’ho pagato molto caro! Ho scelto di suonare liberamente, rinunciando anche a carriere che sarebbero state più remunerative. Pavarotti mi aveva chiesto di fargli da manager, e mi avrebbe fatto ponti d’oro. Ho rifiutato! Nonostante fosse una cosa che avrei saputo fare. La libertà di suonare, facendo quello che mi pare, non ha prezzo. Mi alzo la mattina felice di poter seguire i progetti che mi entusiasmano.»

Sei riuscito a portare la musica classica dove non c’era. A fronte di quali difficoltà?

«Ho iniziato a farlo vent’anni fa. Ho partecipato anche alla trasmissione “Roxy Bar” di Red Ronnie, trasmissione di musica rock e pop, e, oltre alla classica (perché proponevo Mozart, Bach ecc.) duettavo con i cantanti che venivano invitati. Mi hanno criticato in molti, dai miei amici “classici” ai miei manager: credevano nuocesse alla mia immagine. Adesso è tutto cambiato. Trent’anni fa era molto difficile realizzare dei dischi classici crossover, oggi i solisti li fanno senza problemi. Come diceva Bernstein, esiste solo una divisione: quella tra musica bella e musica brutta. A me emoziona allo stesso modo, sia un tema di Mission di Morricone, sia un adagio di Bach.»

Come già successo per altre personalità dalla grande levatura artistica, mentre ti ascoltavo, notavo con piacere di essere riuscito a relazionarmi con l’uomo, ancor prima del musicista: una persona, rimasta umile, che condivide un’esperienza in cui crede profondamente.

«Più vai avanti, più riconosci di essere imperfetto. Ti ritrovi a lavorare con artisti grandissimi, che sono delle vere eccellenze, e li scopri più umili di te. Bocelli, Sting, Renato Zero, Zucchero… sono artisti di un’umiltà incredibile. Ricordo che, nel concerto dell’undici settembre del duemilauno a Reggio Emilia, il motto dei bambini era: “Per diventare amici bisogna fare musica insieme”.»

La musica è la quadratura della nostra chiacchierata. Concludendo così come abbiamo iniziato: nessun dorma! Andrea Griminelli a chi vorrebbe dedicare quest’esortazione e perché?

«Intanto la dedico a me stesso. Un uomo, che si sente libero, è facile che si addormenti: nel senso che potrebbe non aver voglia di iniziare nuovi progetti o si addormenta sugli allori. Devi sempre entusiasmarti nelle cose che fai! È molto facile vivere addormentati, più difficile è sentirsi vivi. E, per farlo, bisogna darsi una svegliata. Ogni giorno. Questo tipo di atteggiamento è importante condividerlo anche con le persone di cui ti circondi, con gli amici. All’età di sessant’anni, so di essere fortunato ad avere una famiglia unita, ma sono sempre felice di incontrare gente nuova, persone di valore. Mi reputo più arricchito di una volta, perché oggi comprendo maggiormente il valore delle persone con cui condivido un pranzo, una cena… magari per caso. Molte volte uno si addormenta chiudendosi in sé stesso. Invece noi dobbiamo cercare di aprirci agli altri.»

 

Gino Morabito

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