RADIODERVISH, L’ESIGENZA DI UNIRE “IL SANGRE E IL SAL”

Conobbi i Radiodervish un giorno, quando quella “vanità come dolce follia” fece breccia nelle orecchie e nella pancia, segnando un incontro che avrebbe elevato i miei ascolti.

«Cambiano gli oggetti ma l’esigenza di cercare l’unità, dove c’è la divisione, quella no» mi racconta Michele Lobaccaro.

«È una via molto difficile da seguire; un’esigenza ontologica della condizione umana, alla continua ricerca dell’unità: ora erotica, ora spirituale.»

Il brano a cui fa riferimento è contenuto nel terzo album della band formatasi a Bari nel 1997, che, a distanza di circa vent’anni, pubblica “Il sangre e il sal”, disco nel quale quell’“esigenza” ontologica è declinata nell’appartenenza al “cantautorato mediterraneo”, in una narrazione di ampio respiro, che scava in profondità, fino alle nostre radici.

La cifra inseguita è l’idea della civiltà: una civiltà fatta, non di scontri tra grandi culture, non di confronti con la Storia con la esse maiuscola, ma delle piccole storie di persone che, a qualsiasi latitudine, creano degli esempi, delle piccole luci. Luci che segnano il cammino, in direzione ostinata e contraria: da Occidente verso Oriente.

Storie di persone che accettano di “contaminarsi”; di aderire a modi di vita differenti; di confrontarsi, per aprirsi al dialogo. Storie in cui rivivono echi di Baudelaire, Kavafis, Omero, Pasolini… e che i Radiodervish hanno voluto raccontare.

 

Dall’incontro tra mondi sonori differenti e testi colti e declinati in lingue diverse nasce quello che i Radiodervish amano chiamare “cantautorato mediterraneo”. Più nello specifico, di che cosa si tratta?

«Quando abbiamo cominciato a comporre canzoni, ci è venuto spontaneo avere dei punti di riferimento, che poi sono quelli del cantautorato, un fenomeno collocabile negli anni Cinquanta-Sessanta-Settanta-Ottanta, che ha interessato un po’ tutto il mondo. Possiamo anche dire che, via via, ci siamo resi conto che esiste anche una “cifra cantautorale mediterranea”, che raccoglie cantautori italiani, francesi, nordafricani, mediorientali, spagnoli… che hanno una sensibilità comune. Non essendo la nostra una pura world music, basata solo sull’incrocio di musicalità, di sonorità, ma anche di racconti, in questo senso, ci è sembrato più consono auto-collocarci in un ambiente del genere.»

“Il sangre e il sal” fa parte proprio di quel “cantautorato mediterraneo”: siamo in presenza di una narrazione di ampio respiro, che scava in profondità, fino alle nostre radici.

«L’approccio che abbiamo avuto al disco è stato quello di non inseguire l’urgenza della quotidianità, la notizia del giorno, cercando invece di mantenerci ad un livello di cicli più ampi: senza partire necessariamente dalle situazioni riportate dai media, abbiamo fatto il tentativo di raccontare un Mediterraneo più radicale, che sta alle radici, “dietro le quinte”; che ha dei tempi di riflessione più lunghi. Non abbiamo voluto schierarci – come avviene nell’epoca di Facebook, col mi piace o non mi piace, al ritmo breve dei post – preferendo appoggiarci piuttosto sulle spalle di poeti, scrittori, intellettuali, che hanno raccontato il Mediterraneo da secoli a questa parte, cogliendone le cifre più profonde.»

Qual è la cifra più profonda che avete inseguito?

«È sicuramente l’idea della civiltà: una civiltà fatta, non di scontri tra grandi culture, non di confronti con la Storia con la esse maiuscola, ma delle piccole storie, dei piccoli racconti; una civiltà fatta di persone che, a qualsiasi latitudine, con il proprio impegno, con il proprio lavoro, con il proprio sforzo, creano degli esempi, delle piccole luci: essere “Una candela nel buio”, come il titolo di una canzone contenuta nell’album; essere una piccola luce, che potrebbe sembrare inutile, ma in realtà è indispensabile per cominciare a delineare i contorni dell’epoca buia che stiamo vivendo.»

 

Un messaggio che si riceve è sicuramente quello che, con il proprio sforzo, con il proprio impegno, si riesce ad affrancarsi dalla condizione di moderna schiavitù, alla quale siamo soggiogati.

«Raccontiamo storie come quella del contadino, che, nonostante tutte le contrarietà della natura, riesce a far fiorire il suo campo, con la fatica, con il “sangre”, con l’appartenenza a una terra, sentendola come propria; uscendo da quella condizione di schiavitù alienante, nella quale più o meno siamo tutti immersi. In “Nuovi schiavi”, brano ispirato alla poesia di Alekos Panagoulis, si parla proprio della differenza tra gli schiavi classici e gli schiavi moderni. Gli schiavi classici dell’epoca dello schiavismo, per quanto brutale, conservavano comunque una parte di umanità libera, tant’è vero che potevano riconquistare la libertà. Noi oggi siamo schiavi moderni, incatenati da catene invisibili, che sono quelle del seguire i modelli consumistici; catene delle quali non ci accorgiamo e che ci fanno sentire liberi solo quando consumiamo, solo quando aderiamo a un certo tipo di proposta, rendendoci ancora più schiavi. Non abbiamo la capacità di immaginare una vita altra, una vita originale.»

Per riuscire a intravedere una vita altra, da che cosa dovremmo cominciare a distaccarci?

«Dalla condizione di ipnosi, nella quale siamo piombati, e anche di pigrizia, e fare lo sforzo di non avere paura del sapore del sale, che poi è il sapore che hanno in bocca i migranti: quella gente che lascia la propria terra, il proprio spazio di comodità, la propria zona di comfort, per intraprendere un viaggio più interessante.»

Prima si parlava di appartenenza e sradicamento. I Radiodervish hanno composto canzoni che, come radici, si avventurano alla ricerca di un Mediterraneo fatto di persone impegnate nel loro viaggio verso Itaca. Ma come la si riconosce?

«Con la canzone “Itaca” ci siamo ispirati alla poesia di Kavafis, dove il viaggio per quell’isola vale, non tanto per l’approdo, ma per la navigazione in sé. E, quando arrivi su quella terra, se non hai mai distolto lo sguardo dalla meta, rimanendo sempre concentrato, allora sei stato presente nel viaggio e sarà il viaggio stesso che ti avrà dato ricchezza o povertà. Itaca intesa come lo sforzo presente per quest’aspirazione e, più che riconoscerla, è importante ricordarsi che siamo in cammino, e goderselo.»

Il premio, alla fine, è la meraviglia del paesaggio che ci ristora. Dunque, solo la bellezza ci potrà salvare?!

«Gli antichi filosofi, nella bellezza, ci vedevano anche la giustizia, la bontà, l’equilibrio: è un concetto estetico dietro il quale c’è tutta una serie di punti di riferimento che possono rappresentare l’orizzonte, l’Itaca della nostra epoca. La bellezza parla attraverso le epoche, attraverso le culture. Avere una capacità recettiva, in grado cioè di accogliere la bellezza, ti permette di arrivare a costruire cose meravigliose. Venezia, ad esempio, è costruita su una palude, come un fiore di loto che si nutre di quella melma. Questo contrasto tra sforzo umano e bellezza è la vera via della salvezza.»

Michele, per te cos’è la bellezza?

«La bellezza è la mia bussola, nel momento in cui compongo, nel momento in cui vivo. Se non scorgo bellezza, significa allora che non c’è armonia ed è necessario ritrovare un equilibrio. Essere sensibili alla bellezza, è sicuramente uno strumento potente che abbiamo in mano per orientarci.»

Bellezza come ispiratrice delle composizioni dei Radiodervish e, in quest’ultimo lavoro, sentiamo echi di Kavafis, Pasolini, Panagoulis, Baudelaire, Omero, che nei secoli hanno saputo interpretare quello spazio geografico e umano, che è il Mediterraneo. Come nasce l’idea di un simile percorso poetico-musicale?

«Nasce dall’incontro con Pino Petruzzelli, che è un regista e attore del Teatro Stabile di Genova, con il quale abbiamo collaborato, offrendo le nostre musiche alla sua pièce teatrale “Mediterraneo”; poi, alcune di quelle musiche sono andate a creare quello che sarebbe diventato “Il sangre e il sal”. Sicuramente è stata l’interazione con Pino, le storie che lui ha raccolto hanno ispirato molte delle storie che fanno parte del disco. Un disco dove, assieme ai brani sotto forma di canzone, abbiamo voluto inserire dei passaggi strumentali, che diventano delle vere e proprie pause, con la funzione di connettere un brano all’altro, spostando l’emozione da una canzone all’altra.»

Durante il viaggio all’interno del disco, quasi sul finale, ecco un’oasi. Un’oasi di senso che si materializza, a patto di essere disposti ad attraversare i propri deserti. I tuoi quali sono?

«Sono i deserti di tutti. L’esistenza è un viaggio per ciascuno di noi, ognuno con i propri limiti, con le proprie caverne; tutti abbiamo le nostre catene, le nostre zone aride, i nostri passaggi da compiere per diventare qualcos’altro. Diversamente, non avrebbe senso vivere. Ognuno di noi parte da un punto diverso: per cui, quello che può essere difficile per me, potrà essere facile per qualcun altro, e viceversa. L’importante è compiere lo sforzo per affrontare questi passaggi. I deserti sono la zona inconscia che rappresenta tutto quello che non siamo e che vorremmo essere, tutto ciò che non accettiamo e che dovremmo accettare; sono le ombre, le parti più oscure di noi stessi, che hanno bisogno di essere portate alla luce.»

Una luce che segna il cammino, in direzione ostinata e contraria: da Occidente verso Oriente.

«Abbiamo immaginato un viaggio, invece che da Oriente a Occidente (come siamo soliti fare), da Occidente a Oriente; un viaggio, per così dire, da Nord verso Sud. La consapevolezza di un’Europa che è un po’ vecchia, un po’ malata; che sta declinando i suoi valori, ormai entrati in fortissima crisi; un’Europa che non incanta più nessuno e che deve prendere atto di non poter bastare a sé stessa, per cui si apre: ben venga allora il viaggio verso Sud, verso Oriente!»

 

L’Oriente come nuova opportunità per aprire la propria mente, le proprie percezioni.

«Quello verso Oriente è un viaggio lungo. Nel passato si è sempre teso ad arroccarsi nella propria cultura, nel proprio campanile, nelle proprie sicurezze; oggi non è più così. Oggi abbiamo bisogno di persone che accettino di “contaminarsi”; accettino di aderire a modi di vita differenti, di confrontarsi, per aprirsi al dialogo.»

Potremmo affermare che non è più tempo per stanziali ma per viandanti: cioè di persone che agiscono, operano per il bene comune. Una maggiore sottolineatura va fatta per “Il sogno delle lucciole”, un brano che canta di quanti, a prezzo di una vita breve ma intensa come quella di quei piccoli insetti, difendono la terra dalle grinfie delle mafie legali e illegali. Salvatore Vassallo, il sindaco di Pollica, è stato certamente un eroe del quotidiano. Poi chi altri?

«Ce ne sono tanti, anche che non conosciamo. Sono piccoli gesti che ti danno la misura del fatto che, a un certo punto della tua vita, hai bisogno di contrapporre l’umanità al disumano, disubbidendo a quello che il buonsenso del vivere senza troppi problemi ti vorrebbe imporre. Sicuramente Salvatore Vassallo è stato un esempio in questo contesto, facendo delle cose molto normali, come portare la raccolta differenziata nel suo paese del SudItalia, in modo che le strade non fossero più sporche. Gesti normali che però infastidivano evidentemente poteri basati, invece, su questo tipo di abitudini quotidiane, per giustificare sé stessi. C’è Vassallo; c’è chi si oppone al Tap, chi si oppone alla Tav; persone che riescono a portare avanti dei valori che oggi non sono ponderabili.»

In controtendenza a una mutazione globale, che vede il genere umano sempre più aderire a un’ideologia che vorrebbe tutto commercializzabile, quali potrebbero essere i valori non negoziabili?

«Oggi i valori sono tutti ponderabili in funzione del denaro; magari però ne esistono altri, come il vivere umano, la natura, l’equilibrio ecologico, la salute, che non sono negoziabili. Ci sono persone singole, ma anche intere popolazioni che riescono a incarnare questi valori non ancora mercificati a quello che è il pensiero unico dominante. In questo senso, un punto di riferimento forte per il disco è stato anche Pier Paolo Pasolini: un uomo con l’idea che, antropologicamente, si assiste alla mutazione degli italiani, ma potremmo dire ormai generale, globale, di gente che perde i tratti umani per aderire sempre più all’ideologia unica, che vorrebbe tutto commercializzabile. Persone, come Pier Paolo Pasolini, che hanno quella capacità di prefigurare, sono oggi molto preziose e, nel nostro piccolo, abbiamo voluto raccontarle.»

 

Gino Morabito

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