PINO SCOTTO, LET’S ROCK!

 

La voce più irriverente del panorama rock italiano, un personaggio conosciuto non solo per la sua musica ma anche per le opinioni sfacciate nei confronti di colleghi, politici e figure dello star system. Un musicista con decenni di carriera alle spalle, ma che ha ancora qualcosa da dire. Parlare con Pino Scotto è come entrare nei meandri del rock, quello libero, autentico, cazzuto. Quando la chitarra di Jimi Hendrix risuonava al Brancaccio di Roma e il nostro Giuseppe Scotto Di Carlo si esibiva con Lemmy Kilmister al Marquee Club di Londra.

Dog eat dog è il ventunesimo album della carriera di Pino Scotto, l’undicesimo da solista. Una vita di musica.

«Sono originario di un piccolo paesino della provincia di Napoli, Monte di Procida. Un bellissimo posto di mare che, quando ero giovane, una cinquantina di anni fa, aveva poco o niente da offrire. Mio padre non voleva che facessi il musicista, così a diciassette anni scappai a Napoli, dove c’era già molto fermento in ambito musicale. Certo, i primi tempi furono duri! Per tre mesi dormii nelle macchine abbandonate, non avevo neanche i soldi per mangiare, finché iniziai a suonare il basso con un gruppo che faceva musica nei night club, una roba noiosissima, ma almeno mi permetteva l’affitto di una camera. Poi cominciai con le prime band, i Daydream e Gli Ebrei. Sembrava che le cose si stessero mettendo bene ma, nel momento in cui eravamo prossimi a registrare un album con Renzo Arbore come produttore, fui chiamato per il fare il militare e dovetti lasciare tutto per trasferirmi a Milano.»

Milano, come segno del cambiamento.

«Dopo il militare conobbi quella che sarebbe diventata mia moglie. Nello stesso periodo venni a sapere che il mio chitarrista a Napoli era morto di overdose. Quella notizia mi provocò un senso di disgusto per l’ambiente musicale e me ne allontanai. Trovai un lavoro in fabbrica e per un po’ smisi completamente con la musica. La mia vita era casa, lavoro e famiglia. Poi conobbi Ray Accardi, bassista con cui fondai i Pulsar, e quella fu la vera consacrazione al rock’n’roll. Suonavamo tanto in giro e iniziai a farmi un nome nella scena musicale del nord Italia, finché arrivarono i Vanadium. Il resto è storia.»

Il nuovo capitolo della tua storia in musica è rappresentato dall’album Dog eat dog.

«Molti stanno scrivendo che si tratta del mio miglior album. In realtà è l’album più libero che abbia mai fatto. Ho cercato di mettere all’interno undici brani all’insegna del rock che piace a me, dagli anni Settanta fino ad oggi. C’è del blues, del prog, dell’heavy metal. Insomma, è un album che raccoglie diversi stili. I testi sono sempre di protesta, perché, nonostante abbia 71 anni, ho ancora molte cose da dire. E poi c’è una cosa che non ho mai fatto prima: un brano dedicato a mio figlio Brian, che parla della straordinaria gioia che si prova quando ti nasce un bambino. Mi ci sono voluti quasi cinquant’anni per esprimerlo. Ricordo ancora quando lo presi in braccio appena nato, quella notte, e piansi per ore.»

Qual è stato il momento top della tua carriera artistica?

«Se dovessi scegliere uno e un solo momento, direi il primo tour con i Motorhead, quando conobbi Lemmy Kilmister. Eravamo in Inghilterra per la registrazione del quarto album dei Vanadium, Born to fight, e il guardiano dello studio era proprio il fratello di Lemmy. Finite le registrazioni, di sera andavamo a casa sua a bere. In quel periodo suonammo al Marquee Club di Londra e lì registrammo quella che divenne la sigla di Discoring, un famoso programma musicale della Rai. Insomma, fu un periodo straordinario che culminò con la notizia che di lì a breve saremmo partiti in tour con i Motorhead. Così, durante la prima data al palasport di Bologna, mi presentai nel camerino di Lemmy con due bottiglie di Jack Daniel’s. Con lui si parlava di blues e del rock degli anni Settanta, quello vero. Non esistevano metal, heavy metal ed etichette. Lemmy era un purista del rock. Condividevamo la stessa passione autentica. Per lui i Motorhead suonavano “rock’n’roll alla velocità della luce”. Questa era la sua filosofia, e io condividevo pienamente.»

Qual è stata l’esperienza rock che ti ha segnato di più?

«Un concerto che mi segnò nel profondo fu quello di Jimi Hendrix nel ‘68 al Brancaccio di Roma. Un’esperienza quasi mistica, lui sembrava un extraterrestre sul palco, con quel suono di chitarra. Ne ricordo anche un altro di concerto, anche se in modo più amaro. Si tratta dell’ultima volta che vidi Lemmy, all’ippodromo di Milano, qualche anno fa. Era chiaro che stava già malissimo, faceva fatica a reggersi in piedi. Aveva la bombola dell’ossigeno e, tra un brano e l’altro, si nascondeva dietro gli amplificatori per riposarsi. Non era il Lemmy che conoscevo, eppure neanche in quelle condizioni si è tirato indietro di fronte al rock’n’roll!»

Raccontaci un incontro, al di fuori della musica, che ti sta a cuore.

«Festival dell’Unità a Milano, anni Settanta. Avevamo appena finito il soundcheck ed ero seduto su una panca, quando accanto a me venne a sedersi il grande Enrico Berlinguer. Si mise a parlare con noi di musica e di vita. Ricordo che aveva un luccichio particolare negli occhi quando parlava della sua passione per la politica. Gli feci alcune domande su questioni politiche e lui mi rispose con una sincerità, che sembrava parlasse con l’amore con cui si parla della propria famiglia.»

Alla luce del tuo vissuto umano e professionale, che consiglio ti sentiresti di dare a chi vuol fare musica oggi?

«Ai ragazzi dico sempre di fare musica per passione, non per lavoro. Ho lavorato in fabbrica per 35 lunghi anni, ma quando uscivo da lì ero libero di fare ciò che volevo. Quello stipendio mi dava la sicurezza di provvedere alla mia famiglia e la libertà di suonare quello che piaceva a me, senza mai scendere a compromessi. Se la vostra passione è la musica, trovatevi un altro lavoro per vivere, e alla musica dedicatevi in piena libertà. Suonate solo ciò che vi piace, perché vi fa stare bene!»

Parte della fama di Pino Scotto, soprattutto negli ultimi anni, è dovuta alle opinioni “forti” che hai scagliato verso personaggi della tivù, della musica, della politica.

«A volte mi chiedono se io sia proprio così o se, quella che emerge dai miei video di opinioni tratte da Rock Tv, sia un’immagine costruita a tavolino. Il fatto è che sono proprio così, sono quello che vedete e che sentite. Non ho peli sulla lingua e non le mando a dire. Sono una persona semplice e autentica, esprimo i pensieri che mi passano per la testa, senza filtri. Ho cominciato un po’ per gioco su Rock Tv, quando mi hanno chiesto di realizzare una trasmissione in cui rispondevo ai messaggi che arrivavano da casa. Mi hanno chiesto di essere quello che ero, e ho accettato. Perché mai dovremmo trattenerci dal mandare a quel paese la gente solo perché siamo in tivù, quando invece nella vita quotidiana lo facciamo continuamente?»

Tra i personaggi del momento, chi manderesti a quel paese?

«Di personaggi da mandare a quel paese potrei farti un elenco! In giro c’è tanta gente falsa, ipocrita, che cambia posizione così come cambia il vento. Parlo anche di colleghi che si sono venduti ai meccanismi dell’industria televisiva (vedi i vari giudici dei talent). E poi sicuramente stroncherei tutti coloro che promuovono il mondo dei reality e la tivù spazzatura. Una su tutti? Barbara D’Urso, lei andrebbe arrestata per spaccio di demenza! (ride divertito)»

Quello che non tutti sanno, però, è che negli ultimi anni sei anche stato al centro di vari progetti di beneficenza.

«Diciamo che abbastanza impegnato su questo fronte. Molti amici e colleghi come Caparezza, i Sud Sound System, i Modena City Ramblers hanno collaborato con me in diversi concerti di beneficenza. Inoltre, insieme alla dottoressa Caterina Vetro, faccio parte di Rainbow Projects. Grazie ai fondi raccolti, abbiamo costruito una clinica per i bambini di una città del Guatemala. Si tratta di bambini poverissimi, dai 4 ai 12 anni circa, che passano il loro tempo raccogliendo rifiuti da una discarica, per poi rivenderli per pochi dollari all’industria del riciclo. Sono bambini molto malati, che hanno bisogno di medicinali, assistenza e beni di prima necessità. Con Rainbow Projects cerchiamo di dar loro una speranza. Tutti possono contribuire al progetto, anche con una piccola donazione. Per saperne di più basta visitare il sito www.rainbowprojects.it.»

Pino Scotto è tutto questo: grezzo come il suono del rock’n’roll, saggio come chi ne ha passate tante, verace come la terra da cui proviene e, in fondo in fondo, tenero. Come solo i più duri sanno essere!

 

Federica Lauda

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