MENTRE LE OMBRE SI ALLUNGANO, LA POETICA VISIONARIA DEI LA CRUS

«Cantavo in inglese con i The Carnival of Fools e la madre della mia fidanzata di allora mi disse che le ricordavo un certo Luigi Tenco, e mi fece ascoltare “Angela”» il racconto inedito di Mauro Ermanno Giovanardi, di nuovo insieme con Cesare Malfatti, unicamente per un progetto artistico che esce dall’alveo della rappresentazione scenica per entrare in un universo culturale più ampio e stratificato.

Sullo stesso palco, le due anime fondanti dei La Crus nella riproposizione di uno spettacolo seminale che ha fatto scuola. A vent’anni dalla sua prima rappresentazione, si riapre il sipario su “Mentre le ombre si allungano – appunti scenici per voci, suoni e immagini”.

«Abbiamo fatto le prove in teatro per giorni. Io devo cantare alcuni pezzi seduto su una poltrona, altri in piedi… Per ogni brano, canto, recito e devo performare…» continuando il cantautore monzese quattro volte Targa Tenco. Si diffondono frammenti di voci; versi di Pasolini, Pagliarani, Bufalino, Salinas, Tenco che canta l’amata Angela. Le canzoni rappresentano l’innesco all’esplosione di un mondo fatto di parole, immagini e suoni.

Un emozionato ed emozionante “inventario” di sogni, visioni, delusioni e passioni, che disvelano ancora una volta l’universo artistico di Mauro Ermanno Giovanardi e dei La Crus: “Mentre le ombre si allungano”. Pura poesia, semplicemente.

I La Crus sono tra i precursori di quella stagione rivoluzionaria che fu il rock italiano degli anni ‘90. Un’epoca in cui le performance dal vivo erano frutto di estenuanti prove e gavetta, e non di ausili della moderna tecnologia da palco. Mauro, che generazione è la nostra?

«Siamo testimoni oculari di un cambiamento epocale senza precedenti. Quando noi eravamo ragazzetti, per telefonare si metteva il dito nella rotella del telefono; adesso con il telefono ci potresti fare perfino la pizza. Fino all’età di sei anni, tornato da scuola e visti i cartoni che finivano alle tredici e trenta, dovevo aspettare le diciotto per vedere altro in tivù. Se l’accendevi, c’era solo il simbolo e il suono acuto e fisso della Rai. Che ricordi!»

Questa generazione è ancora capace di sognare, e di sognare in grande?

«Forse c’è più apatia. Quando hai già tutto, è più difficile immaginare. La mia generazione doveva sforzarsi di immaginare parecchio, perché tante cose ancora non esistevano, anche musicalmente. Nell’ottanta avevo diciott’anni e ho vissuto appieno l’esplosione della new wave, del punk, del post punk, e mi ricordo che, quando entravo nei negozi di dischi specializzati a Milano, compravo dei dischi senza alcun riferimento. Oggi la rete ti dà così tante possibilità, che l’immaginazione è meno stimolata. Mi sembra che ci sia più apatia in generale.»

La vostra era una sorta di appartenenza a uno stesso sentire.

«Sì, più un sentire culturale che musicale. C’è un abisso musicale tra i La Crus e i Marlene Kuntz, e tra i Marlene e gli Almamegretta… Però arrivavamo tutti da una scena alternativa, più vicina ai centri sociali che ai network, più vicina alle produzioni indipendenti che non alle multinazionali. Tra le etichette super indipendenti e le multinazionali, in mezzo, non c’era nulla. La nostra generazione ha fatto un po’ da ponte per chiudere questa forbice così larga. È stata importante proprio per quello che ha seminato.»

A volte, si spargono i semi di un progetto in forza di una pura e semplice intuizione.

«L’intuizione più grande l’ha avuta Stefano Senardi, che ai tempi era direttore della PolyGram. Si inventò la Black Out e mise sotto contratto, tra gli altri, il Consorzio Suonatori Indipendenti e il Casino Royale. Però noi, in qualche modo, gli abbiamo tirato la volata. Dall’ottantanove al novantaquattro, come Vox Pop, abbiamo fatto centosette numeri di catalogo. Da noi sono passati tutti: dai Mau Mau ai Prozac, agli Afterhours, agli Africa Unite, ai Sottotono… La Vox Pop, nei primi anni Novanta, era una delle etichette più ambite. Quando un disco vendeva duemila copie, era già un successo! Le grandi rivoluzioni accadono anche per congiunzioni astrali favorevoli.»

Che condizioni si sono verificate, di preciso?

«Le congiunzioni astrali favorevoli, a cui alludo, furono che tutti noi, che cercavamo di scimmiottare quello che arrivava dall’Inghilterra e dall’America, siamo maturati e abbiamo intuito l’importanza di farci capire nella nostra lingua. Le major hanno realizzato che quel sottobosco poteva arrivare a più persone, e i La Crus sono arrivati al momento giusto. L’anno della vera svolta è stato dal novantaquattro al novantacinque: siamo passati dal fare concerti con centocinquanta persone alla folla di piazza San Giovanni. L’intelligenza di Senardi nel farci arrivare a un pubblico più vasto ha poi aiutato le congiunzioni astrali positive…»

… Un’altra congiunzione astrale favorevole è stata quella, negli anni, di realizzare un contenitore di arte e cultura dentro il quale si confrontano artisti che hanno segnato la scena musicale di diverse decadi. Mi racconteresti, per immagini e suoni, le caratterizzazioni di queste ultimi trent’anni, dagli anni Novanta fino ai giorni nostri?

«Per gli anni Novanta potrebbe essere il rullante, con quel suono preciso di pop. Dell’ultimissima decade, anche se non mi piace, è l’Auto-Tune per i pezzi trap. Per la prima decade degli anni Duemila, le voci non intonate. Sono un maniaco delle voci; un grandissimo estimatore di quelle voci che, se togli la musica sotto, sono melodie pure. Per me la voce deve essere uno strumento accordato, come la chitarra. Certo, ci sono voci che non sono così belle, ma che sono ugualmente interessanti. Se devo mettere su un disco, l’interpretazione della voce, la gradevolezza, la fruibilità, sono le caratteristiche che amo maggiormente e che vado a ricercare.»

Giocando ancora un po’ con immagini e suoni, a vent’anni dalla prima rappresentazione, torna in scena “Mentre le ombre si allungano – appunti scenici per voci, suoni e immagini”. Credi che, nella civiltà dell’immagine, il futuro della musica si debba riconfigurare a partire da quegli appunti scenici “presi”, per così dire, due decenni fa?

«Con “Mentre le ombre si allungano” i La Crus sono stati i primi a portare avanti un progetto davvero avanguardistico. Ho sentito Francesco Frongia, il regista, e gli ho chiesto se avesse ancora i video dello spettacolo. Quando mi ha risposto che li aveva ritrovati, ho chiamato anche Cesare, perché noi eravamo stati i primi a far convivere musica, teatro, cinema, poesia e letteratura. Contemporaneamente. Al di là dell’emozione fortissima della sera della prima (ho faticato a finire di cantare alcuni pezzi per il magone che avevo in gola…), io e Cesare Malfatti ci siamo resi conto, ancora una volta, dell’amore e dell’affetto straordinario del pubblico, che non ci aspettavamo, ma soprattutto, finito il concerto, ci ha fatto davvero piacere che, nei camerini, siano venuti a trovarci alcuni colleghi e qualche discografico che non avevano visto lo spettacolo vent’anni fa ed erano letteralmente sbalorditi.»

Lo stupore per qualcosa di inatteso e inimmaginabile.

«Si tratta di un concerto che è uno spettacolo teatrale puro, dove, al posto di un testo, ci sono le canzoni e delle letture; per ogni canzone e lettura, il regista ha costruito dei video, prendendo dei campioni di immagini dei primi esperimenti di cinema di Man Ray, a cavallo degli anni Trenta. Sono ventidue film, di cui uno a colori, “Correre”, tutto il resto in bianco e nero. Sono piccoli film poetici, uno per ogni canzone, dove scorrono dei versi, alcuni della canzone che sto cantando, altri presi da poeti e scrittori che c’entrano con il senso del brano. È uno spettacolo vero.»

Immagino le continue prove, per far sì che la resa live dello spettacolo sia ottimale.

«Abbiamo fatto le prove in teatro per giorni. Io devo cantare alcuni pezzi seduto su una poltrona, altri in piedi, senza mai perdere la concentrazione. Per ogni brano, canto, recito e devo performare; con il pezzo in corso, bisogna ricordare cosa c’è subito dopo, la posizione stabilita… è impegnativo… I colleghi e discografici, che sono venuti a vederlo, sono rimasti sbalorditi dalla potenza dello spettacolo che riunisce, allo stesso tempo, musica, elettronica, immagini, teatralità, poesia. L’unica differenza rispetto all’originale è che, mentre allora avevo registrato su un walkman delle poesie, e, per farle ascoltare, mettevo il microfono davanti, sentendole così come se fossero degli appunti della memoria, adesso non c’è più il walkman e le poesie vengono lette. Ma la contemporaneità dello spettacolo resta intatta.»

Quest’anno ricorrono anche i vent’anni di “Dietro la curva del cuore”, un album che nasce dall’idea “rischiosa” di affrontare la canzone d’amore attraverso la poetica dei La Crus. Come descrivereste alle nuove generazioni l’amore ai tempi dei social?

«Si stanno affievolendo sempre più le relazioni personali, e non solo tra i giovani-giovanissimi. La rivoluzione di Internet è stata potentissima e, al contempo, disumana. Siamo sempre connessi: foto, video, social… ma bisogna riappropriarsi dei rapporti umani. Con “Dietro la curva del cuore” abbiamo fatto un’operazione davvero rischiosa. La musica italiana è la canzone d’amore, la “canzonetta”, la musica sanremese. Agli esordi io cantavo in inglese con i The Carnival of Fools e la madre della mia fidanzata di allora mi disse che le ricordavo un certo Luigi Tenco, e mi fece ascoltare “Angela”. Per me fu uno shock! Quando sentii quella canzone, ebbi come l’impressione che stesse raccontando l’amore, come poteva farlo Nick Cave, con lo stesso tipo di approccio. È stato un colpo di fulmine che mi ha fatto esclamare: “Allora si può fare!”.»

Si può raccontare anche un’altra faccia dell’amore, in un modo diverso.

«“Dietro la curva del cuore” è figlio di quel modo di raccontare l’amore che proviene da esperienze fatte di centri sociali, etichette indipendenti, musica alternativa. Esperienze come quelle dei La Crus. Per noi è stato importante poter realizzare un disco di canzoni d’amore alla nostra maniera, sfatando così la convinzione che le canzoni d’amore debbano essere solo quelle melense. Abbiamo voluto raccontare anche le altre sfaccettature dell’amore.»

Un’altra forma d’amore è quella che tu riversi nel “Festival Equilibri-Tutti siamo diversi”, una manifestazione, che si svolge ad Avola (SR), dove il focus principale è l’attenzione e la divulgazione del problema della disabilità e l’abbattimento delle barriere fisiche e mentali che questo grave handicap produce. La musica quale ruolo gioca?

«La musica gioca un ruolo di forte sensibilizzazione. Nelle serate del festival abbiamo la possibilità di raccontare la disabilità, attraverso la mia faccia, quella di Roy Paci, di Irene Grandi e di altri amici che si esibiscono generosamente: raccontiamo, tra le altre, l’esperienza di Giovanni, papà di Sergio, un bimbo disabile costretto in carrozzella dalla nascita, che, vivendo a Noto, città poco accessibile con la carrozzella, immagina il calvario. Gli artisti che intervengono vogliono metterci la faccia, per riuscire a far comprendere le difficoltà quotidiane di chi versa nelle condizioni di disabilità. Lo fanno col cuore. E la città di Avola e le istituzioni ci hanno dato, nel tempo, supporto e grandi soddisfazioni.»

La Sicilia è anche un tuo luogo del cuore, Siracusa una seconda casa.

«Il festival è anche una possibilità in più per venire in Sicilia. Siracusa la sento come una seconda casa: tantissimi miei amici sono di lì, per alcuni anni ho anche avuto una fidanzata siracusana e ho vissuto ad Ortigia. Ho letto Pirandello in siciliano. Lei si era laureata in Lettere con indirizzo teatrale, con centodieci e lode, ma, quando doveva dire una minchiata, la diceva in siracusano. Alcune espressioni sono intraducibili, soprattutto in catanese. Il catanese è stato amore al primo ascolto. Quando apprendi cos’è la “liscia”, puoi dire di aver capito tutto della vita. Dai primi concerti dei La Crus mi sono innamorato della Sicilia, della lingua, dei siciliani, delle siciliane… I primi rudimenti del siciliano, “U pacchiu è duci e a minchia ietta vuci”, me li ha insegnati Peppe, il papà di Carmen Consoli, mentre io ero ospite da lei durante la registrazione di “Mediamente isterica”. Poi mi hanno fatto scuola anche Cesare Basile, Paola Maugeri, Mario Venuti… tutti amici che mi hanno insegnato “i capisaldi”…»

Carmen, Cesare, Mario, Paola… sono amici, donne e uomini a cui sei legato da profonda stima e affetto. C’è qualche persona in particolare a cui vorresti rivolgere il tuo grazie?

«Sicuramente alla mamma della mia ex fidanzata, che mi fece ascoltare Tenco; a Luigi Tenco, che mi ha aperto un mondo; a Giacomo Spazio, artista a tuttotondo e socio della Vox Pop, amico dall’ottantadue. Avevo intenzione di mollare la musica, per iscrivermi alla “Paolo Grassi” di Milano, perché volevo fare teatro, e Giacomo, che veniva dal percorso inverso, non solo me lo sconsigliò, ma – fraternamente – quasi mi obbligò a cantare in italiano. E, a proposito di lingua madre, paradossalmente, devo dire grazie anche ai Mau Mau: nonostante fossero così distanti dal mio immaginario e da quello dei La Crus, mi hanno fatto comprendere quanto possa arrivare un testo, anche in dialetto con sprazzi di italiano.»

 

Gino Morabito

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