MARIO VENUTI, RAFFINATO ARTISTA POP CHE VIVE, CANTA, AMA, SPERA

C’eravamo già incontrati il 9 maggio del 2015, una sera di primavera inoltrata, dalla calura estiva. Catania era raggiante, il MA esplodeva di gente.

Durante questi quattro anni di attività, il percorso artistico del mio concittadino si è impreziosito di altre piccole gemme pop, orgogliosamente pop;

le tracce di uno degli ultimi interpreti rimasti fedeli a una certa estetica della musica, frutto di un istinto sapiente, che ha esperienza, storia, memoria.

Mario Venuti lancia il suo missile pieno di canzoni e nell’orbita musicale esplode “Soyuz 10”.

“Vivi, canta, ama, spera”, il nuovo comandamento con il quale – in risposta a una realtà che vorrebbe morderci il cuore – la sensibilità di una raffinata personalità artistica sprona il pubblico e sé stesso. Valori di gioia e positività che si alimentano alla fiamma ardente del desiderio. Desiderio di chi nasce danzando sul naso del mondo e inventa la bellezza; desiderio che è e rimane motore di vita, quella imperscrutabile leva mistica “che move il sole e l’altre stelle”.

“Soyuz 10” richiama la denominazione di un volo spaziale nel quale per la prima volta venne impegnato un tipo di navicella appositamente progettato per l’effettuazione di missioni di trasporto. Nel nuovo album, cos’hai messo dentro? E dove ci vorresti trasportare?

«Di cose che si fanno sulla terra, da portare nello spazio, ne ho messe tante: musica proveniente da varie decadi, dai Sessanta ai Settanta, agli Ottanta, ai Novanta… È una sorta di enciclopedia pop, che ho fondamentalmente dentro di me. Nel tempo ho assimilato e metabolizzato così tanta musica, che poi rilascio istintivamente, poiché il disco non è stato fatto in modo calcolato, ma è frutto dell’istinto: un istinto sapiente; un istinto che ha esperienza, che ha storia, che ha memoria. Il mio istinto produce “pop evoluto”, come qualcuno l’ha battezzato tempo fa.»

Nel tuo ultimo lavoro si scorge l’impronta di Pierpaolo Latina, “Il tramonto dell’Occidente” è stato scritto a quattro mani con Francesco Bianconi, mentre “Motore di vita” vede la collaborazione del catanese Seba. Quali riflessioni si trovano dietro la scelta del produttore artistico di un album?

«Come per la scrittura di canzoni, così per la coproduzione degli album, cerco una sponda, un complice per costruire un suono a cui sono rimasto, tutto sommato, fedele nel corso degli anni. Ora è leggermente più elettronico, anni Ottanta, ora è leggermente più suonato e orchestrato, come in quest’ultimo disco. Sono delle leggere divagazioni, si tratta di piccoli contributi esterni che racchiudo all’interno di una mia idea di suono particolare, che ormai mi caratterizza.»

Per lanciare il tuo album nell’orbita musicale è stato scelto un inno motivazionale che indaga nelle nostre insicurezze, nell’ansia da prestazione che ci attanaglia ogni giorno. Quanti sforzi per andare bene agli altri… invece, cos’è che a Mario Venuti piace più di sé stesso?

«Chi si loda, s’imbroda. Diciamo che mi riconosco una certa capacità di sintesi musicale e letteraria che dà vita alla canzone. Col tempo, con l’esperienza, credo di essere diventato abbastanza abile nel surrogare questi due mondi nello spazio di tre minuti.»

“La cosa più difficile che si possa immaginare: riuscire a diventare ciò che sei”. Da ragazzo come ti vedevi?

«Da ragazzo ero insicuro; non avevo la padronanza dei mezzi, che penso di aver acquisito col tempo. La mia maturazione è stata lenta, lunga e le mie conquiste me le sono sudate.»

Una conquista, ad esempio, potrebbe essere quella che oggi Mario Venuti è diventato un raffinato artista pop. È una sfida considerarsi “pop” in questi anni?

«Oggi il pop ha preso altre forme. Forse sarò anche inattuale, fuori dal tempo; mi sento come uno degli ultimi interpreti di un’epoca destinata al tramonto… ma rimango fedele a una certa estetica della musica. Scusa il paragone magari un po’ azzardato con il grande Bach, che ancora produceva musica contrappuntistica, quando oramai la musica aveva preso altre vie e il contrappunto e tutti quei contrasti armonici che lui continuava ad utilizzare riguardavano il passato.»

Catania, spesso e volentieri, è il suggestivo teatro dei tuoi videoclip. Una realtà viva che, dagli inizi con i Denovo, negli anni, ha cambiato forma, aspetto, cultura. Com’era la Catania musicale degli anni ‘80? E come si presenta oggi il ventre della città?

«Negli anni Ottanta era il deserto dei tartari, non succedeva niente; la dimensione del privato era molto più accentuata. Oggi è tutto diverso: si vive per la strada; non ci si vede più a casa, poco; la gente si incontra fuori. Si è tutto sbilanciato verso la dimensione del pubblico, della piazza, dell’agorà. Ma è anche un bene: girare per Catania ti dà una sensazione di allegria, nonostante la città sia in default e la disoccupazione abbia raggiunto livelli drammatici; si gira per le strade e sembra che sia tutto apposto, che la gente stia bene, con voglia di socializzare e soldi da spendere, magari in giro nei locali, per trascorrere le serate e divertirsi.»

Consideri la tua provenienza come un vantaggio o un limite?

«Fin dai tempi dei Denovo, l’ho considerata un vantaggio: ero orgogliosamente provinciale. Quella dimensione della provincia che ti rende anche meno omologato, meno standardizzato. Io ho sempre rivendicato la bella diversità dell’essere provinciale, che porta con sé un vissuto che è quello del particolare, del non comune.»

Alla luce del tuo vissuto, oggi che consiglio daresti a quel ragazzo che eri agli esordi?

«È sempre difficile dare dei consigli, soprattutto a sé stessi, guardando al passato. Penso che, con gli immancabili errori che si possono fare e con i passi falsi, tutto sommato, l’istinto, l’approccio che ho avuto nel fare il musicista sia stato quello giusto.»

Hai mosso i primi passi in un’epoca in cui prima di emergere era necessario formarsi nelle cantine e nei garage. Cosa ne pensi del mondo diametralmente opposto dei talent?

«Sono un fautore della credibilità che ci si conquista sul campo, suonando nei locali, facendo i concerti; non credo nelle scorciatoie che oggi ti può dare la televisione, nella popolarità che proviene dal mondo del talent. Credo nella necessità di doversi costruire una credibilità negli anni, producendo buona musica, avendo anche la pazienza di aspettare il momento giusto per proporre le cose. Il mio è stato un lavoro lento e costante, nel tempo, e che continuerà così – penso – almeno finché avrò voglia di fare musica.»

Una musica forgiata nell’officina del fantastico, all’interno di un percorso artistico che prosegue da oltre trent’anni.

«Dagli anni Ottanta, ho visto passare tanta gente che ha avuto un grande successo subito ma che adesso fa altro; io, invece, sono ancora qui a fare musica. È la testimonianza del fatto che un investimento sulla qualità rende più longevi. Magari i successi sono meno eclatanti. Però i successi eclatanti hanno spesso il limite di essere temporanei, durano poco; a volte possono essere dei fuochi di paglia…»

… invece qualcosa brucia ancora, mi verrebbe da dirti. Mario, in conclusione, cos’è quello che ci manca?

«Quello che ci manca è il desiderio. Il desiderio è quello che muove il mondo. Ma il rapporto con il proprio desiderio è difficile da gestire: ad esempio, le filosofie buddiste cercano di spegnare i desideri, poiché sono considerati la fonte della sofferenza; invece c’è chi come me decide di sposare la filosofia del desiderio come motore di vita: io preferisco correre il rischio di soffrire ma voglio che la fiamma del desiderio rimanga sempre viva.»

 

Gino Morabito

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