MARIELLA NAVA: LA MUSICA COME FOSSE UNA ROSA

Mariella Nava 01_musicaintorno«Una rosa spero di riceverla dal mio pubblico, dopo tanto tempo di dedizione, di amore, di passione per questo lavoro; e spero che, in cambio, riceva sempre da me la musica come fosse una rosa

Un’immagine di libertà, di conquista, che Mariella Nava trasforma in musica e parole che riescono a coniugare la tradizione e il futuro della nostra canzone, in un’epoca così “nebbiosa” come la nostra.

“Epoca” come il nome dell’ultimo progetto discografico che l’artista tarantina, naturalizzata romana, porterà in tour a partire dal prossimo 31 maggio. Sul palco i compagni di viaggio musicisti con cui si attornia da sempre, a dare vita a trent’anni di carriera di una donna che scrive, interpreta, suona, arrangia… e trasmette al pubblico la stessa emozione che ha provato quando quell’idea su carta è lievitata e ha preso forma. Quale forma? Quella di una rosa, ovviamente.

A cinque anni da “Tempo mosso”, il 3 febbraio 2017, esce “Epoca”, il nuovo album di inediti di Mariella Nava. Hai impiegato 3 anni a “registrarla”, è davvero un’epoca così complicata?

«Un’epoca è un impegno – sorride Mariella -, un’epoca è un tempo lungo. Sono solita fare sempre così: i dischi li ho pubblicati a distanza di tre, quattro, cinque anni… Non metto subito giù la prima idea, mi piace farla un po’ lievitare e vedere che forma prende nel tempo, misurarla; capire se, quel momento emozionante che ho vissuto mentre stavo scrivendo, lo ritrovo nel riascolto “decantato”. E allora lì sono certa che quel che ho fatto ha un valore assoluto. Ci metto sempre un po’ di tempo, ma – nel frattempo – non mi sono mai esentata dal partecipare ad eventi e progetti, dando il mio contributo; dallo scrivere canzoni. Adesso, che era pronto il nuovo disco, con dietro tutto un lavoro molto impegnativo, sono convinta di aver realizzato un altro capitolo importante della mia storia artistica.»

Mariella Nava 02_musicaintorno“… Vedere che forma prende nel tempo”. Se gliene potessi dare una, che forma avrebbe la nostra epoca?

«La vedo nebbiosa. Siamo tutti convinti di essere proiettati ad alta velocità nel futuro, però, prima di farlo davvero, dobbiamo gettare delle zavorre che sono ancora presenti: chiusure all’accoglienza, chiusure al mescolamento della cultura; festeggiamo l’abbattimento del muro di Berlino e improvvisamente si vota chi ti dice che bisogna tirare su degli altri muri…

Ci sono queste contraddizioni, questi ritorni, e l’aspetto più grave è che questi ritorni sono proprio tra i più giovani: la preoccupazione sorge, quando ti accorgi che anche persone di 30-40 anni vorrebbero far tornare indietro il mondo. E questo è motivo per me di dubbiosità, di nebbia.»

Credi, allora, che possa trattarsi di un problema di cultura?

«Penso anche che l’essere umano è fatto di paure… La vera evoluzione va fatta prima dentro. C’è questo accantonamento della spiritualità in generale, per dare praticità alla vita, che però ha stranamente generato un arretramento culturale, mentale: siamo col cellulare in mano, però spesso nel cellulare c’è dentro una superstizione. Il bianco e nero del nostro vivere, in una società che misura ancora la velocità in cavalli motore.»

Superstizione anche in campo musicale?

«Abbiamo avuto un caso emblematico: si è raccontata più volte la storia di una grande Mia Martini, che ha avuto un percorso difficile, perché su di lei era stato applicato un timbro di superstizione… Poi, una volta persa una simile grandezza, tutti quanti ci siamo accorti di quanto fosse stupida quella superstizione, e oggi – in totale normalità – la amiamo, la guardiamo in tivù, la ascoltiamo.»

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Per contro, cos’è che invece ti affascina della nostra epoca?

«Mi affascina il pensiero dell’andare avanti, del continuare comunque; non per tutti, ma per tanti, trovare quelle medicine nuove che possano sanare i mali contro cui l’umanità combatte da tempo; sapere che il pensiero, il ragionamento possa essere a disposizione di tutti; la possibilità che hanno le persone, oggi, di farsi delle domande e darsi delle risposte. Tutto questo mi affascina molto.»

Prima citavi Mia Martini, e Mia Martini ci riporta alla memoria Sanremo. La tua carriera artistica è iniziata proprio lì, in quel tuo primo festival del 1987…

«Sì, è iniziata a Sanremo, anche se avevo già dato una canzone a Gianni Morandi, due anni prima. Ma il mio primo passo importante sul palco – da artista – è stato quello del 1987, così come la prima presenza televisiva. Ho esordito su quel palco, presentata da Pippo Baudo, cantavo “Fai piano”. Era un anno buono per le “Nuove Proposte”, perché dentro c’era anche Michele Zarrillo, che vinse; c’erano Paola Turci, Andrea Mirò, Bungaro… tutta gente che poi si è fatta notare, nel tempo. È una cosa buona poter confermarsi. Oggi, invece, i ragazzi che arrivano in velocità su quel palco, vengono messi in un posto, dove, se sbagli, diventa tutto più pericoloso; non hanno la possibilità di testarsi, di provare. Si bruciano più in fretta.»

Mariella Nava 05_musicaintornoEri ragazza, quando cominciasti a formarti alla musica. Correvano gli anni Settanta e si poteva parlare, con cognizione di causa, di ricercatezza di armonie e di testi. Oggi, invece?

«I giovani autori, oggi, sono molto più asciutti musicalmente, è un po’ l’onda che corre adesso: verte più sul ritmo; sulla parola che abbia un suono, più che un senso, una parola a volte ripetuta. C’è proprio un altro modo di comporre. La canzone di oggi è un mondo molto piccolo, che si consuma presto: c’è un nucleo lavorato poco, anche se molto elaborato dal punto di vista dell’arrangiamento; molto arrangiamento e poco nucleo-canzone, poca sostanza. Ogni tanto c’è qualche idea carina, musicalmente parlando…

Ma non è colpa dei ragazzi che scrivono adesso, che si cimentano in questa pratica… A differenza nostra, che avevamo tanta musica diversa da ascoltare (perché anche le radio trasmettevano musica molto varia) e ricca, grazie alla quale ci formavamo e partorivamo il nostro stile; oggi, invece, sentendo sempre un suono, un tipo di arrangiamento unico, una tipologia di canzone molto simile omologata a tutte le radio, sempre quella… ma come fanno a formarsi i ragazzi? Ormai il loro gusto è stato tagliato in quel modo, è difficile che si aprano ad altre forme musicali. Da qui il limite, nel quale si muovono, per scrivere e diventare gli autori di domani. Io proporrei alle radio di riaprirsi, cancellando il periodo che va dal Novanta ad oggi, cercando invece di personalizzarsi nella proposta della musica. Allora questo salverebbe la musica stessa.»

Oggi la musica si consuma nel web. Abbiamo ceduto le armi al nuovo che avanza?

«Pensiamo semplicemente che il web sia alla nostra portata, ma si tratta di un’illusione. Abbiamo la percezione che lì dentro finalmente ci siamo noi, ma in realtà noi siamo stati tirati dentro… Viviamo l’epoca dell’illusione.»

Passiamo, invece, alla concreta realtà del tuo nuovo progetto discografico: Mariella Nava scrive, interpreta, suona, arrangia e si circonda dei suoi più affezionati musicisti…

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«Come scrivo dentro “La ferita”, una canzone che pone l’attenzione proprio sull’importanza dei valori, dei sentimenti, nella mia vita loro sono al primo posto. Se c’è una persona che inizia a viaggiare con me e con cui mi trovo bene, con cui ho fatto già delle conquiste, non c’è motivo di separazione, se non per lavoro; perché ci sono compagni di viaggio musicisti che, fortunatamente, lavorano anche con altre tournée importanti. Non metto il vincolo, però ho un modo di vivere con fiducia e fedeltà tutto intorno… Antonio Coggio, che mi segue da lontano, è stato il mio primo maestro; quello che, quando mi ha ascoltata, ha detto: “In te ci vedo del buono, ora bisogna fare un po’ di ordine”. È lui che mi ha insegnato a capire quando c’ero e quando non c’ero. Quindi, come fai a lasciare un maestro così importante, che ti ha messo sulla strada del successo? Perché per me il successo è quando sai effettivamente chi sei.»

Pensavo anche a un altro amico, Renato Zero… In vista una nuova collaborazione?

«Diciamo che Renato è uno dei grandi miei estimatori; non mi ha mai persa di vista e, di conseguenza, ha continuato sempre a darmi dei consigli; ad aiutarmi quando ci sono state delle difficoltà. Lui è uno dei pochi, di quella grandezza, a rischiare in proprio ormai; è il primo che si è staccato dalla discografia e mette di tasca il danaro, per fare il proprio lavoro. Renato ha avuto questo grande coraggio, e io lo apprezzo molto. Anche io, nel mio piccolo, ho fatto la stessa cosa, mettendo su una piccola etichetta… È bello per un amore reale, musicale, metterci tutto di te; investi quello che guadagni nel tuo progetto, e non è da tutti questo coraggio. Renato è sempre lì; fa tutto quello che fa veramente “… solo per amore”, come sta dicendo nel suo “Zerovskij”. E io lo guardo con grande ammirazione, da sempre. Credo che sia unico nel suo genere. E non ha mai smesso di apprezzarmi, anche adesso. Probabilmente, più avanti, ci sarà qualcosa insieme… ma mi rimetto comunque al giudizio ultimo suo.»

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… Amore anche per la terra, dove la natura fa il suo corso e sboccia – selvatica – la vita… Cosa si nasconde dentro una rosa? E da chi ti piacerebbe riceverla?

«La rosa ha un profumo che resta, e io l’ho anche messa dentro un mio disco. Significa passione, significa amore, significa stima; il bello della natura… una rosa sa anche essere selvatica. Non la puoi piantare con un seme, ma la devi generare dalla rosa stessa: questo vuol dire che la terra decide da sola di offrirtela; come la margherita, è un fiore che ti premia da sé. Ed è un premio che non è per tutti, quindi ha un valore ancora più alto. Non a caso, quando l’amore si deve pronunciare, si deve in qualche modo manifestare, ci si affida alla rosa. E, dopo la rosa, il bacio… Beh, io spero di riceverla dal mio pubblico, dopo tanto tempo di dedizione, di amore, di passione per questo lavoro; e spero che, in cambio, riceva sempre da me la musica come fosse una rosa, in fondo. La rosa, poi, mi dà un senso di libertà, di conquista, e la voglio dedicare – come ho già fatto con quella canzone – a tutte le donne che devono trovare la forza di rinascere.»

 

 

Gino Morabito

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