LE “NUOVE CANZONI” DI EDOARDO DE ANGELIS, DODICI STORIE SOSPESE TRA REALTÀ E IMMAGINAZIONE

Se siamo qui a scrivervi dell’equilibrio perfetto tra l’abile artista e il gentiluomo, è perché conosciamo bene Edoardo De Angelis, almeno dai tempi del nostro primo incontro dieci anni fa a LuccAutori, rinomato festival letterario lucchese. Allora ci fu ben chiaro da subito lo spessore del cantautore che incontravamo: voce e chitarra da sole a convincere il silenzio intorno…

… a rapire con disarmante semplicità qualsiasi orecchio.

Cantautore di razza – il che per noi significa poesia confortata da scelte certosine e usi misurati di parole e suoni –, porta scritta tra le rughe del sorriso buono la storia della sua lunga e straordinaria carriera di artista che, partito dagli Schola Cantorum e dal celeberrimo Folkstudio romano, ha finito per segnare la canzone italiana con centinaia di titoli, per sé e per altri, e un interminabile elenco di invidiabili collaborazioni. Dell’artigiano instancabile, stabilmente immerso in una nuova produzione, cogliamo il presente di Nuove canzoni, un album per dodici storie sospese tra realtà e immaginazione.

Il lavoro ci pare chiudere una sorta di trilogia bianca del decennio in corso. Ma, al di là di una veste di copertina affine, la vicinanza che pensiamo di riconoscere coi lavori precedenti sta più in una scelta temporale, in una coniugazione al presente che caratterizza ancora la narrazione, come avvenuto in Sale di Sicilia – dichiarazione d’amore per l’isola –, e nel ringiovanimento centrato di alcune delle più belle canzone d’autore italiane che formano l’altro album Il cantautore necessario.

Tuttavia, nelle Nuove canzoni ci sorprende soprattutto il raggiungimento di una chiarezza melodica rara, che può la meravigliosa facilità di ascolto e la conseguente assimilazione, merito anche degli eleganti arrangiamenti di Primiano di Biase. La cantabilità dei disinvolti refrain di alcune delle tracce, come ne Il mago e le stelle e in Una notte romana, è di straordinaria freschezza. Subiamo piacevolmente il disco e allora ne canticchiamo anche mentre raggiungiamo per voi l’amico Edoardo per una chiacchierata.

È il leitmotiv di Nuove canzoni, il tuo ultimo album: “Arriva il tempo di celebrare il tempo”. Ci piace riconoscere questo bisogno di considerare il tempo in un lavoro che ce ne allontana mentre lo ascoltiamo. Il tempo, dunque, riferimento fondamentale. Un valore senza frontiere da approfittarne “alleggiu”, lentamente, o la misura di una mancanza da ricercare continuamente?

«Grazie per il delicatissimo complimento! Il tempo è un valore che si conosce e si impara ad apprezzare “da grandi”, quando si attenua la giovanile convinzione di essere immortali. Quindi sono valide entrambe le condizioni: prima, quando si potrebbe vivere “alleggiu”, si ha un’ansia di rincorsa… poi, quando il tempo va misurato… si vorrebbe viverlo più lentamente.»

Edoardo, oltre cinquant’anni di canzoni. Ci spieghi da dove inizi quando ti lanci in un nuovo progetto e come si riesce a trovare ogni volta un’occasione sempre ispirata?

«La famosa “ispirazione”, si sa, non è che la sintesi, più o meno consapevole, di quello che viviamo, raccogliamo in giro tra emozioni, letture, concerti, contatti con le arti, incontri, passioni… bisogna rimanere accesi, pronti a rubare l’attimo, le ali sempre pronte al volo. Potrei raccontare mille occasioni nelle quali un film, una canzone, uno stupore della vita hanno costretto la mia mano, sotto dettatura. Posso vantarmi di non aver mai scritto partendo dal tavolino o dalla punta della matita.»

Esiste qualcuno a cui sottoponi in anteprima le tue creazioni? Intendo dire, la tua poesia cerca un intimo confronto, un conforto prima di darsi agli altri?

 

«Sì, ma senza che sia una regola precisa. Di solito la mia sponda è a Palermo, un mio carissimo collega e amico che si chiama Francesco Giunta. Altre volte, più raramente, cerco la persona giusta per una collaborazione che avverto necessaria, ma senza una regola precisa, a istinto. A parte questi casi, le canzoni si fanno ascoltare solo quando sono levigate. Qualche volta… mai!»

Hai collaborato con moltissimi artisti, che a contarli tutti… In questi giorni ti abbiamo ritrovato al Tenco con l’amico Neri Marcorè, insieme a te sul palco ormai da anni. Che coppia siete?

«Credo di poter affermare che siamo buoni amici, nel senso più concreto del termine. Diversi tra noi, quindi complementari, in grado di completarci. Neri ha un talento e una passione per la musica, arte con la quale ha iniziato a visitare i palcoscenici di provincia da ragazzino, cantando le canzoni dei Bee Gees. Io ho il merito di averlo avviato al ruolo di artista da concerto, chiamandolo in causa nel 2012, quando ero direttore dei progetti speciali di Folkest. Adesso, quando non ha impegni professionali, dividiamo il palco con uno spettacolo totalmente improvvisato, che risponde al titolo “Due amici dopo cena (tra chiacchiere e canzoni”. Con questo saremo in Sicilia, al Teatro Jolly di Palermo, dal 30 novembre al 9 dicembre prossimo.»

Il tuo è un tratto stilistico nitido, solare anche quando ci racconti i particolari dei drammi attuali e l’intimità dello spirito, come in Tempo sconosciuto e Padre nostro. Una luce di idee che ci sembra riconoscibile anche nella ripetuta veste bianca del disco, dopo quel capolavoro che è Sale di Sicilia. Ma De Angelis ha dei punti di riferimento musicali e letterari?

«Le tue parole sono una sorgente di orgoglio, mi farai peccare di vanità! Non credo di avere riferimenti precisi, ma tanti, invece, e diversi, continui: una canzone può nascere in qualsiasi occasione, da qualunque sollecitazione- Detto questo, i miei preferiti in assoluto per l’ascolto sono tutti i cantautori italiani, da Fabrizio a Endrigo, da Ciampi a Tenco, Gaber, Fossati, De Gregori, fino a Bersani, Fabi … e, pensa, Brunori. Lì mi fermo. Poi ci sono stati e ci sono Paul Simon, Dylan, Cohen, Taylor, Bob Seger. Per le letture sono onnivoro. Ho amato molto Borges, molta narrativa italiana, il mondo della poesia… ora mi affascina le semplicità di Erri De Luca. Se ci spostiamo in Sicilia… da Verga a Pirandello a Sciascia, da Brancati a Vittorini, a Quasimodo… ho amato e amo tutti. Colpa di mio nonno, che quando avevo nove anni mi regalò le Novelle di Pirandello.»

Adesso sei tu a toccarmi con la mia Sicilia e Brunori, artista benamato. A proposito, riguardo alla condizione della canzone di oggi, Fossati ha recentemente dichiarato che a mancare è la ricerca: “Con la scusa dell’assenza di credibilità tutti si uniformano a uno standard assolutamente poco credibile”. Anche il compositore Solbiati ha detto la sua: “Una fuga di Bach, una sonata di Beethoven… esprimono l’uomo ad un livello infinitamente più profondo di una canzone del Festival di Sanremo”. Tocca a te.

«Concordo pienamente con entrambi. Sono sempre stato un convinto sostenitore di una particolare funzione della musica (come di tutte le arti), eletta, anch’essa, a liberare l’uomo dalle sue piccole quotidianità, a suggerirgli quel lampo di infinito, quella fiammella di divinità, quello “stargate” verso il pensiero universale. A volte basta poco, una frase, un verso, a provocare un incendio…»

Tra i colleghi di nuova generazione, oltre ai già citati Bersani, Fabi e Brunori, qualcun altro che stimi? E nel repertorio dei colleghi maturi, invece, c’è una canzone che avresti voluto scrivere?

«Guardando al futuro, ci sono artisti siciliani che seguo con passione, e che considero dei predestinati: Giulia Mei, Danilo Ruggero (quest’anno entrambi in finale al Premio De André) e i Pupi di Surfaro, di Totò Nocera, che hanno già vinto una quantità di importanti premi. Canzoni altrui? Sorrido al pensiero di quante sono quelle che mi piacciono… se devo proprio sceglierne una, è Khorakhanè, una delle ultime di Fabrizio. La canto spesso nei concerti, sempre con un po’ di commozione.»

Cambieresti qualcosa del tuo percorso artistico o quel “ti giuro che sarò come quello che sento”, cantato nella delicatissima Galileo, ha rappresentato sempre una forma di appagamento, il tuo principio per essere?

«Domanda curiosa, intrigante e… indiscreta. Dall’inizio… sì, ci sono molte cose che cambierei nella autogestione del mio percorso… troppe volte ho sbagliato strada. Nella produzione, direi che sono più vicino al “giuramento” di Galileo. Ma poi, sai come sono le canzoni… chi potrebbe dire che sia davvero Galileo a parlare con quelle parole…?»

Hai sempre avuto a cuore il sociale. In Nuove canzoni troviamo la già citata preghiera laica Padre nostro. Può bastare una preghiera davanti a un’umanità che dimentica di essere umana?

«No, certo, non basta. Però serve. Serve a contagiare i malati di ignoranza e paura con il virus della sensibilità, dell’apertura. In una canzone di Sale di Sicilia, che ricordavi, chiamo i migranti “metodo del futuro”. La storia non si ferma: siamo di fronte a eventi epocali che ne cambieranno il corso. Quello che accade va interpretato correttamente, altrimenti si corre il rischio di ripetere errori che i nostri nonni e padri hanno pagato con sacrificio di sangue e dolore. L’ignoranza e la paura vanno combattute e abbattute, con le persone che le usano come strumenti, come armi.»

Chissà… Una parola per racchiudere la bellezza del chiedersi apre il disco ne Il mago e le stelle. Il brano è riproposto in chiusura nella splendida veste orchestrale. Perché alla musica per andare oltre occorre liberarsi dal condizionamento delle parole?

«Sono punti di vista differenti. Esiste la musica assoluta, esiste la canzone, esistono le parole della poesia, della letteratura. La cultura araba, ad esempio, non ha coltivato in maniera particolare la musica, né la pittura, sostenendo che la musicalità è già nel suono del linguaggio, e la bellezza della forma è nel segno della scrittura. Così è vero per la poesia, che ha cadenza, ritmo e suono già nel tessuto. Non vedo lo splendore delle arti in cellule divise e non comunicanti, mi piace leggerlo vivo, nel suo insieme. Come per i popoli del mondo.»

 

Giuseppe Sanalitro

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