… INTANTO LUCA CARBONI: CAMBIA TUTTO, MA NON IL BISOGNO DI RACCONTARE

luca-carboni01_musicaintorno… intanto Luca Carboni non sbaglia un disco. Mi verrebbe da cominciare così questa straordinaria chiacchierata con uno dei cantautori più sensibili e pop-up – consentitemi il gioco di parole – del panorama musicale italiano.

In realtà, il chitarrista e compositore del gruppo Teobaldi Rock, che non ha mai fatto un mistero di amare la sua Bologna e di schierarsi tra le persone silenziose… beh, Luca Carboni, a trent’anni da “Forever”, serba intatto lo stupore, lo stupore legato all’osservazione del mondo; la meraviglia dietro l’angolo; la possibilità di cambiamento.

«Cambia tutto, ma non il bisogno di raccontare.» Quella capacità che gli animi sensibili hanno nel confrontarsi con la novità delle generazioni emergenti e rimanere portatori sani di sé stessi.

Manifesto di un pensiero, in base al quale si può essere “happy” «senza dover vincere a tutti i costi, e si può essere felici amando una persona, o essendo amati.»

È l’autoritratto di un cantautore, che, con delicata ironia, racconta le tante sfaccettature delle proprie filosofia di vita e sensibilità artistica.

“Pop-Up” arriva a trent’anni da “Forever”. Cos’è rimasto “per sempre”?

 

luca-carboni12_musicaintorno«È vero che c’è un legame con “Forever”: inconsciamente, senza rendermene conto, è arrivato a trent’anni di distanza… Anche questa volta un titolo in inglese, un titolo che non svela l’album… Quello che rimane per sempre è la voglia di raccontare innanzitutto, e poi – entrando nel racconto – la voglia di raccontare il proprio tempo. All’epoca, ero un ragazzino che raccontava, in qualche modo, la sua generazione, e anche lo stupore del mondo che stava cambiando. Ma alla fine le cose cambiano sempre: quindi, anche dopo trent’anni, hai ancora lo stupore; la voglia di fermare quello che stai sentendo, i cambiamenti che stai vivendo… Cambia tutto, ma non il bisogno di raccontare.»

Prendendo spunto dallo stupore, oggi per cosa ti meravigli?

«Per la tecnologia, ad esempio; per tutto quello che, trent’anni fa, ti chiedevi se sarebbe stato possibile realizzare un giorno… parlarsi, guardandosi al telefono… Cose che ieri sembravano assurde, oggi sono sorprendentemente attuali e anche utili: ho visto – su FaceTime – parlare due sordomuti con i segni. Poi sono tante le cose che ti stupiscono… Ho un figlio di 17 anni, quindi mi stupisce anche rivivere – attraverso di lui – i miei 17 anni, confrontarli; rimanere sorpresi dalle cose che fanno le nuove generazioni… Non c’è mai un momento di stanca nell’osservazione, nel ricevere input dall’esterno.»

luca-carboni10_musicaintorno… E delle regole, invece, che mi dici? Bologna è una, poi le altre nella tua vita?

«Diciamo che non simpatizzo tanto per le regole (ride), anche se ho scritto una canzone come “Bologna è una regola”… lì dentro, dico poi che, in realtà, non saprei quale sia questa regola… ancora più giusto osare dire questa magia… In generale – a mio avviso – le regole sono sempre legate alla possibilità di poterle in qualche modo modificare, interpretare, personalizzare… a seconda degli eventi, dei momenti.

Se devo parlarti, invece, di una regola morale che mi accompagna sempre, è quella del rispetto per gli altri; della tolleranza per le idee diverse, per le diversità.»

A proposito di diversi punti di vista e cambiamenti… “Come fanno i capi della mafia a non pentirsi, come fanno certi potenti a non convertirsi”… erano gli anni di Falcone e Borsellino. Oggi canti “Happy”

«Sì, canto “Happy”… ma, in realtà, “Happy” l’ho sempre cantata… perché è una canzone in cui si dice che si può vivere senza il lusso; si può essere felici senza tanti aspetti materiali legati alle cose, senza dover vincere a tutti i costi; si può essere felici amando una persona, o essendo amati. È un piccolo autoritratto, in cui – con l’ironia – racconto tante sfaccettature della mia filosofia di vita, della mia sensibilità.»

Già nel 1989 avevi scelto gli umili, coloro che non comandano, che non vanno sui giornali… le persone silenziose insomma. Non sarebbe il caso di dar loro un bel megafono?

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«In quella canzone dicevo “Il silenzio fa rumore”… ma era una canzone molto intima, non era politica; non era una canzone che – per forza – dovesse avere un contenuto sociale di riscatto. Semplicemente, era la descrizione di me stesso, in quel momento. Più in generale, invece, dovremmo imparare noi ad ascoltare chi non può avere voce, o chi non riesce a farsi sentire.»

“Silvia lo sai” e “Farfallina” diventano inni generazionali alla fine degli Ottanta…

«Le canzoni poi diventano inni – nostro malgrado – non nascono con quella pretesa. Le canzoni nascono per l’urgenza di un racconto di qualcosa che ti tocca, di qualcosa che ti colpisce. In quelle due canzoni raccontavo – anche lì – qualcosa di autobiografico. “Silvia lo sai” era una canzone che guardava al passato: l’ho pubblicata nel 1987, ma raccontava i miei 14-15 anni… dove la vita dei giovani, dei ragazzi, dei cortili si mescolava con la tragedia dell’eroina, che arrivò in Italia in modo prepotente e devastante, mietendo molte vittime. “Farfallina”, invece, era una canzone, in cui cercavo di guardare idealmente negli occhi una persona, le persone… guardarle fino in fondo, per comprendere quali fossero le nostre esigenze. Era il periodo della guerra fredda, dove – nella mia adolescenza – tutto era diviso tra destra e sinistra; dove sembrava che anche un ragazzo proveniente da una famiglia di destra e uno di sinistra non potessero stare insieme. Quelli erano anni in cui la politica la faceva da padrona, e anche l’umanità sembrava – in qualche modo – divisa da confini molto precisi di appartenenza. Canzoni come “Farfallina” cercavano di togliere le divise di dosso, di scardinare i luoghi comuni, per guardare dentro noi stessi e capire quali fossero le domande e le urgenze più profonde per essere felici.

Quelle canzoni sono diventate inni generazionali, anche perché c’era un contesto storico particolare, che trovava che questi momenti, raccontati in quel modo, fossero quasi nuovi e trasgressivi, rispetto al linguaggio che eravamo abituati a sentire dai cantautori più politicizzati, più legati a canzoni ideologiche. In quel momento era quasi una novità raccontare l’umanità di una nuova generazione…»

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… Negli anni Duemila quali brani potrebbero esserlo?

«… Adesso appare chiaro come quello che mi chiedi risulta più difficile… Gli inni generazionali è inevitabile che vengano fuori da chi ha vent’anni: tu puoi continuare a scrivere anche canzoni straordinarie per tutta la vita, ma quell’impatto generazionale… la forza di raccontare un mondo ce l’hanno avuta i Beatles e i Rolling Stones nei primi dischi. Gli inni arrivano inevitabilmente da una generazione, non è un cantante solo che può farlo. Un cantante si porta dietro le domande e le inquietudini, non solo sue personali ma di tutta una generazione. Gli inni sono strettamente legati alla giovinezza: non a caso la grande forza del pop (italiano, inglese, americano…) è sempre legata alla rottura di una nuova generazione, che arriva per cambiare le regole del gioco; quasi ad annullare quello che c’è stato fino a quel momento… Credo che alla mia età, a 54 anni, abbia ancora qualcosa da dire; possa raccontare il rapporto col mio tempo, dove potranno riconoscersi tanti della mia generazione, dei giovani di un certo pensiero… ma non porto più la novità da assurgere ad inno generazionale.»

Gli inni non si fanno da soli, si diceva. Nella vita artistica Luca Carboni è “un tipo da band”, un cantautore che ama le collaborazioni con altri artisti…

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«Io sono diventato cantautore – mio malgrado – perché si è sciolta la band con cui suonavo e, peraltro, dentro la quale non ero la voce, ma un musicista e autore (perché c’era un altro cantante). Sognavo che la storia della nostra band potesse andare avanti, fare dischi… Poi, per tutta una serie di ragioni, si è sciolta e io sono rimasto da solo…

… Sono diventato cantautore, grazie anche a Lucio Dalla, che in qualche modo mi ha fatto capire che potevo cantare le cose che scrivevo, non solo darle ad altri…

… Sono diventato cantautore, non perché lo desiderassi, ma semplicemente come conseguenza della vocazione di scrivere…

Ho sempre sofferto la mancanza della band; non ho mai sognato (come accade adesso ai ragazzini che partecipano ai talent, per cercare – in prima persona – la possibilità di realizzarsi) di cantare come frontman… Io non avevo tutti questi meccanismi nella testa: ho cominciato a cantare a 21 anni, realizzando il primo album… Poi, nel tour successivo legato a quell’album, è stata la prima volta che mi sono trovato a cantare da solo davanti al pubblico. Sono rimasto sempre un po’ orfano della band, e questa cosa mi è rimasta dentro: da un lato mi ha permesso di crescere come cantautore; dall’altro mi manca e mi piace molto, e mi stimola l’idea di lavorare come si lavora in una band, dove anche la scrittura nasce collettivamente.»

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Sogni e vocazioni: calciatore, cestista, chitarrista… Il prossimo?

«Il prossimo chissà… A me piace molto dipingere, quindi potrei anche nutrire il sogno di fare il pittore, però è una cosa che tengo per me: un po’ come esercizio, piacere, divertimento… un po’ come viaggio che mi possa aiutare.

Dedico tempo alla pittura, ma non mi sento ancora pronto per mostrarmi ufficialmente come pittore.»

 

 

Gino Morabito

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