GIORGIO BORGHETTI, COME DENTRO UN FILM

Di Gino Morabito

Il mestiere dell’attore non l’ha scelto, gli è capitato. Ma, prima di farsi conoscere con il suo volto, ha conquistato tutti con la voce.

Tra fiction, doppiaggio, cinema, teatro, Giorgio Borghetti ha saputo ritagliarsi ruoli da indiscusso protagonista: L’uomo di fumo, Captain T, Il sogno di un uomo ridicolo. Il racconto di un figlio diventato padre, a cui la vita ha insegnato due cose: il rispetto per sé stessi e per gli altri, e l’amore.

L’augurio è sempre quello: “Solo cose belle”. Un’opera prima, per la regia di Kristian Gianfreda, realizzata con i sacrifici di tutti. Un piccolo miracolo italiano che tratta il tema delle case famiglie e dell’integrazione.

«Solo cose belle è la dimostrazione che, quando c’è dietro una storia bella da raccontare, non è necessario ricorrere ai soliti noti per poter realizzare un’opera. È un film no budget. È costato 420mila euro in tutto, come se fosse stato realizzato con il solo cachet che avrebbe preso uno dei nomi altisonanti del cinema italiano. I produttori e i distributori dovrebbero dare ascolto anche ad altri volti e non affidarsi esclusivamente agli stessi attori. Per carità, bravi, ma sempre e solo gli stessi! Altrimenti, guardi la locandina di un film e ti sembra già visto.»

Captain T – La condanna della consuetudine racconta la storia di Tommaso, un doppiatore cinquantenne che sogna di fare l’attore ma viene riconosciuto per la sua voce, che diventa inevitabilmente la sua condanna.

«Della sua faccia non importa niente a nessuno. Vive quindi uno stato di depressione, di dolore. Il corto è distribuito da Premiere Film ed è stato scritto e diretto da Andrea Walts. Nel chiudere gli occhi si ha come la sensazione di sentire una voce conosciuta ma, soltanto aprendoli, si realizza di avere dinanzi volti, corpi ed anime di grandi artisti. Tutto ciò vuol essere un mio personale omaggio a quel mondo che mi ha permesso di avvicinarmi a questo mestiere.»

Fin da quando ha prestato la voce a Elliot di E.T. Giorgio Borghetti si è innamorato di un mondo in cui riuscire ad esprimere appieno la propria professionalità e le proprie emozioni.

«Un buon doppiaggio è quando viene fatto esattamente come l’originale, ma nella propria lingua. Per dirla con un tono più alto: il doppiaggio come riproduzione originale di un originale, che in Italia diventa cultura.»

Una delle pagine più tragiche del nostro Paese riguarda la mafia, con tutte le violenze e i lutti di cui si è macchiata e di cui continua ancora a macchiarsi. Per fortuna, ci sono anche pagine che ci fanno sentire orgogliosi di essere italiani.

«Una di quelle pagine è stata raccontata egregiamente nel film Marcinelle, che ripercorre una delle più gravi sciagure minerarie mai verificatesi, quando nel 1956 perdono la vita oltre duecento persone nel crollo della miniera. Quel film l’ho mancato per un soffio: ero stato scelto per uno dei ruoli e poi, a causa di altri impegni lavorativi, non l’ho potuto più girare. Un vero peccato!»

L’ultimo discendente di nove generazioni di romani si racconta ogni giorno la storia di un figlio diventato padre.

«Ho avuto la fortuna di essere diventato genitore e ogni giorno vivo questa duplice veste di figlio e di padre. Per mio figlio sono un punto di riferimento e, da qualche tempo, lo sono diventato anche per mio padre che, andando avanti negli anni, è un po’ come se fosse tornato figlio.»

Dalla madre ha imparato la difficile arte del perdono e la gratitudine verso chi ha sempre sostenuto le sue scelte.

«Nella perfezione di un ragazzino bravo a scuola, in grado di praticare qualsiasi sport, con un lavoro nel doppiaggio già avviato a soli otto anni, l’imperfezione dei tanti passaggi importanti della vita, che mi sono venuti a mancare. Tuttavia, così come i miei genitori, vorrei essere un padre imperfetto. Perché, in tutta quella imperfezione, ho respirato solo amore.»

Resta vivido un rimpianto.

«Un’esperienza di vita mancata è sapere di non riuscire più a tagliare il traguardo delle nozze d’oro, così come hanno fatto i miei nonni e i miei genitori.»

Dalle partite di tennis nel garage all’aperto dietro casa, le righe col gesso sulla strada, ai tornei di calcetto con gli amici di sempre, Giorgio Borghetti ha imparato ad incassare le sconfitte della vita e a dare il giusto peso alle vittorie.

«La vittoria che mi ha entusiasmato più di tutte è stata quando ho interpretato il mio primo ruolo da protagonista sul set di Incantesimo. Era luglio del 1999 e vengo chiamato dalla mia agenzia per andare a fare il provino: otto pagine di copione da imparare per la mattina del giorno dopo. Così decido di non presentarmi. I primi di ottobre vengo nuovamente richiamato per sostenere il provino, perché non avevano ancora trovato chi potesse ricoprire il ruolo da protagonista, e, quando vado, sono completamente calato nella parte: giacca, cravatta, valigetta, cartelline da avvocato… Il regista, Leandro Castellani, comincia da me.» Il resto è fiction.

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