DIMENSIONE STÀLTERI

Conoscevamo Arturo Stàlteri per fama già ai tempi dei nostri esami in conservatorio: la sua musica nuova, le personali ma sempre misurate reinterpretazioni, le sue accattivanti proposte radiofoniche ci attraevano prima e conquistavano immediatamente dopo. I nostri studi classici intravedevano soluzioni che gli insegnanti non prospettavano.

Stàlteri, partito dal basso dei ‘70, nei ‘90 assumeva già una delle fisionomie italiane migliori da affiancare senza riserve ai grandi contemporanei internazionali. Dovevamo saperne di più. L’avvento di Myspace, il primo social, nato quasi esclusivamente per musicisti e artisti, ci fece incontrare senza problemi. Cercavamo l’artista e la sua musica e non abbiamo più smesso di trovarli.

In questi giorni, complice il concerto natalizio a Brindisi, abbiamo incontrato l’artista. Come per gli altri importanti musicisti che Musica Intorno ci ha dato modo di incrociare, tratto distintivo della nostra chiacchierata, la generosa disponibilità.

Siamo convinti che nessuno meglio di noi ci conosca. Chi è l’artista Arturo Stàlteri per l’uomo Arturo?

«Sai, tutto sommato alla fine non è così vero: la cosa più difficile è conoscersi, nel senso che si sta sempre a contatto con sé stessi e si danno per scontate certe cose. Però, dal punto di vista musicale, credo di poter affermare, ora che sono trascorsi più di 50 anni da quando ho cominciato a suonare – ho iniziato a 6 anni con la musica classica prima del rock progressive… –, che, al di là del fatto di fare la musica, ho sempre vissuto ascoltando la musica. Questo è infatti quello che mi ha permesso di curare l’altro mio ruolo per la proposta musicale in radio – anche lì ho cominciato giovanissimo, ancor prima di diplomarmi, a fine anni Settanta nelle prime radio private di Roma. Ho ascoltato e ascolto tanta musica di tutti i tipi, anche se, chiaramente, ci sono dei campi da cui sono più attratto e altri meno. Per esempio, posso riconoscermi poco in un certo jazz e prediligere, per esempio ultimamente, il post-rock che arriva dal nord Europa e in cui trovo che ci siano molti stimoli. Al di là del mio reinterpretare la musica degli altri – retaggio questo dell’esperienza classica, di quell’aver studiato sempre interpretando ed entrando un po’ nella veste di altri artisti – credo che, alla fine, anche la musica che io ho composto e compongo sia legata inevitabilmente alle mie passioni e a quello che ascolto.»

Giovanissimo hai esordito discograficamente, nel rock progressive. Pierrot Lunaire è ormai brillante marchio di un’epoca in cui la tecnologia aiutava meno di oggi, quando contiamo molti esordi “maturi” in un mare di proposte. È solo una questione di metamorfosi sociale o ieri qualcosa funzionava meglio?

«Quello che dici è verissimo. Quando nel ‘75 ho cominciato ad incidere non potevi contare sulla tecnologia digitale dei computer. Si andava in studio, c’era la macchina col 16 tracce e quello che registravi, registravi. Potevi forse tentare qualche taglio sui nastri, ma neanche tanto, e non potevi intonare uno strumento, modificare granché la timbrica… Con l’avvento della musica digitale e dei computer è diverso: tutti possono riuscire ad elaborare un tema o fare un disco anche se, paradossalmente, non sanno suonare. E se da un lato questo porta, come tu dici, anche a tanto materiale meno interessante, da un altro punto di vista se hai già delle idee, un poco di fantasia, la tecnologia è una ricchezza enorme: non sei più costretto a passare attraverso le forche caudine del discografico che ti deve ascoltare, che deve decidere di spendere parecchi soldi – perché incidere un disco una volta voleva solo dire entrare in uno studio molto costoso, il che rendeva quasi impossibile creare qualcosa con i propri mezzi.

Quindi, il digitale può permettere tanta diffusione musicale, tanta più musica in giro, ma anche una dispersione enorme quando viene meno quel po’ di volontà necessaria e quel po’ di fortuna che, ovviamente, ci vuole sempre. Poi, una volta avevi pochi canali di diffusione per il disco ed erano solo quelli. Ma se passavi su Radio 1 o Radio 2, da Rai1 o Rai 2, come capitato ai Pierrot Lunaire, ti ascoltavano in tutta Italia con una visibilità enorme. Oggi sei perso in un miliardo di occasioni diverse che devi andare a trovare, molte sulla rete. È un’arma a doppio taglio quella che può permettere di essere diffusi in tutto il mondo – vedi YouTube. Ma oggi è anche più facile contattare altri musicisti, collaborare. Quindi, sì, io direi che forse le cose sono migliorate sotto alcuni punti di vista ma che esiste anche un’altra faccia della medaglia.»

Nella tua carriera e nei tuoi lavori hai saputo sapientemente miscelare stili e gusti differenti, appartenenti anche ad epoche diverse e lontane. Leggiamo di te: post-minimalista romantico. Ti piace sconfinare o credi in una dimensione musicale senza confini?

«(Ride). Sì, credo in effetti in una dimensione musicale senza confini. Quello che hai letto è una definizione che ho inventato io, nel tentativo di dare una sorta di orientamento per chi non ti conosce. In effetti, nasco come musicista classico amante del romanticismo (Chopin, Schubert…), e la mia musica è molto melodica. Però ho avuto una sbandata che è durata tanto tempo per i minimalisti (Riley, Glass, Reich…).»

Musica del nostro tempo, tutto sommato.

«Sì, esatto. Non essendo io molto affascinato dalla musica di Shönberg e dalla Scuola di Vienna, che però negli anni ho imparato veramente ad apprezzare, la musica dei minimalisti è quella che mi ha dato una sferzata nuova. Mi definisco post, perché il minimalismo è oggi una corrente già passata, ma che ha fatto tanto. In questa mi ritrovo molto in un artista, che poi ho conosciuto anche personalmente: Wim Mertens, molto bravo nel miscelare il minimalismo, quindi certi temi e frasi un po’ ipnotiche, con gusti propri del romanticismo e del neoclassicismo che sono in lui molto presenti.»

Certo. Il celebre Close cover ne è forse un esempio.

«Straordinario.»

Il 21 dicembre in concerto a Brindisi per suonare il Natale, tema che ti riconosciamo caro, già fissato qualche anno fa nel lungo elenco della tua discografia con la registrazione di A little Christmas album. Siamo curiosi del programma.

«È un programma abbastanza particolare. Io l’ho chiamato I colori dell’anima, tra l’altro come un film su Modigliani, perché ci sono dei temi tratti dal disco che citavi – quindi classici tradizionali del Natale che io ho rielaborato al pianoforte, da Stille Nacht a Away in a manager, a In the bleack midwinter –, accanto a pezzi che io stesso ho scritto sul Natale, e che inserisco come trittico, piccola suite – uno, Christmas day, è presente anche nell’ultimo mio disco – e poi pezzi che hanno anche a che vedere con la spiritualità. In tal senso ho voluto inserire Mad rush di Glass che lui scrisse per il Dalai Lama e due pezzi di Wim Mertens molto spirituali: Prudence, da un disco che fu scritto ispirandosi alle virtù cardinali. e Casting no shadow, che vuol dire… “di qualcosa che non ha un’ombra”, e quindi di un’identità spirituale. Quindi, una forma di religiosità all’interno di questi pezzi, ma anche un misto tra sacro e profano, se vogliamo, o tra la dimensione del Natale più giocoso e quella più spirituale. E non poteva mancare il Franco Battiato de L’oceano del silenzio, un pezzo per me meraviglioso, che ho potuto anche rielaborare in un mio disco a lui dedicato.»

Hai tirato fuori Battiato. La prima volta che ascoltammo il suo primo Fleurs ci venne in mente il tuo precedente Flowers. Entrambi i lavori omaggiano in maniera impeccabile composizioni e canzoni di altri autori, al punto da preferirne le reinterpretazioni sugli originali. Ci era sembrato così quasi naturale associarne il tipo di proposta, al di là di un vostro incontro già nel ‘99. Poi, nel 2014 In Sete altère, omaggio e collaborazione per e con lo stesso Battiato. I fiori hanno messo lo zampino, sono stati solo un caso?

«Guarda, secondo me, hanno messo un po’ lo zampino. Tra l’altro per il mio disco Préludes ho scritto anche un pezzo che si chiama Fleurs, che in un certo senso si ispira anche ai tre Fleurs di Franco. In realtà questo omaggio a Battiato doveva nascere molti anni prima, almeno quando io l’ho conosciuto nel ’99, allora che pensavo di incontrare una persona molto difficile e un po’ lontana, e invece avevo trovato qualcuno di enorme disponibilità. Solo dopo un paio di anni gli dissi: “… mi piacerebbe fare un disco sulla tua musica e anche che tu mi dessi un inedito…”. E lui, che è sempre gentilissimo fece: “… Sì, sì… assolutamente, te lo scrivo”. Dopo circa dieci anni ci avevo rinunciato, questo pezzo non arrivava mai. Finché una bella sera a cena, un paio d’anni prima del mio disco dedicato a lui, mi disse che voleva reinterpretare, che cercava insomma qualcuno che risuonasse la sua suite ispirata a Gurdjeff, ovvero L’Egitto prima delle sabbie. La voleva un po’ più morbida, dal momento che l’originale, del ‘78, era molto contemporanea. Quindi mi sono offerto per primo, e quell’occasione è diventata un po’ la molla che ha fatto scattare il disco, ma non pensavo che Battiato avrebbe addirittura deciso di firmare di nuovo e insieme un paio di brani, tanto ne aveva apprezzato il modo in cui li avevo elaborati.»

Ti sappiamo intensamente legato ai Rolling Stones. La tua versione di Ruby Tuesday – brano che non possiamo non ricordare proprio tra le reinterpretazioni di Battiato – cosa racconta della tua passione per la storica band inglese?

«Ah, infatti ho incontrato Battiato per quello (nel ‘99, N.d.R.). Perché per Radio 2 volevo intervistarlo, dato che mi era molto piaciuta la sua versione. Poi, tanto per cominciare, i Rolling Stones sono un fatto strano nei miei gusti musicali, perché il loro è un tipo di rock che viene profondamente dal blues, un genere che io non ho mai seguito molto… Se tu vedi casa mia, per esempio, dischi di blues ce ne sono praticamente pochissimi. Ma è stata proprio Ruby Tuesday che mi ha in qualche modo imbrogliato. Nel senso che io ero molto piccolo quando uscì nel ‘67. Mia sorella, invece, più grande di me di circa otto anni, era allora una teenager. Arrivò a casa con questo 45 giri in cui c’erano Ruby Tuesday e Let’s spend the night together, e mise sul piatto del giradischi il pezzo in questione, che è una canzone molto inusuale per gli Stones: c’è il flauto dolce di Brian Jones, ci sono contrabbasso, pianoforte…

Mi piacque tantissimo, perché era molto melodica e molto delicata. Mi incuriosì e a quel punto andai ad ascoltare anche le cose precedenti: il dado era tratto, erano entrati nel mio cuore. Da lì non li ho mai abbandonati e anche recentemente li ho rivisti a Berlino. Ma è chiaro che la prima volta li ho visti nel ‘70 a Roma, quando proprio mia sorella mi portò a vederli: Jagger era una specie di diavolo, nel senso che saltava da una parte all’altra. Ora a 75 anni salta un po’ meno ma è sempre estremamente vivace. Sul palco tutti hanno questa carica, a parte Richards che è ormai una scommessa, vuoi perché è caduto da una palma e perché ha avuto nella sua esistenza qualche anno diciamo… pericoloso.»

Ascoltando la tua musica, quella del compositore Stàlteri, ci sembra di riconoscere nel tempo una naturale evoluzione di scrittura e forma. Per esempio, la prima volta che ti scrissi ero alla ricerca dello spartito di Scarlett, versione del ’95… Da quello agli agili Préludes del 2016, al di là della scelta strumentale, qualcosa è cambiato. È così?

«Verissimo: sono cambiato molto! Non dico di aver sofferto, ma è stata mia caratteristica fino ai notturni di Child of the moon del 2007 di voler mettere istintivamente sul pianoforte tutte le mie abilità, se ci sono ovviamente. Quindi non solo inventare una melodia che avesse un senso ma anche dimostrare di sapere suonare. Brani molto lunghi e molto elaborati, tantissime note, molte modulazioni, quindi pezzi molto complessi da suonare e in cui mi sembrava necessario esprimere un virtuosismo. Nel tempo, sempre molto istintivamente, e questo è cominciato già dall’album Half angels, disco per ensamble più semplice musicalmente, ho cominciato a rendermi conto che non c’era bisogno di esprimere così tanto, che quando c’era una buona idea poteva anche essere abbandonata così: espressa in maniera semplice, senza dovere per forza infarcirla di una miriade di note. Questo si è concretizzato soprattutto in Préludes, disco con molti brani brevi e una volontà di non voler più lasciarmi tentare dal volere per forza elaborare, sviluppare. E credo di avere confermato questa inclinazione anche negli ultimi lavori che ho realizzato.»

Dopotutto, grandissimi compositori hanno praticato con successo la forma breve e, se vogliamo, anche il Poe della narrazione esaltava definendola perfetta la forma del racconto a dispetto di quella più elaborata del romanzo.

«Certo. Ma, naturalmente io non voglio minimamente paragonarmi ai grandi del passato, a quelli che hanno scritto preludi, da Chopin a Debussy. Però, ho voluto in qualche modo omaggiare quel loro modo di saper condensare in pochissimo delle idee molto interessanti. Almeno le loro, sicuramente.»

Ci piace riconoscere nella tua musica anche una dedizione per la ricerca sonora e la sperimentazione. Insomma, quando si ha da dire serve anche una maniera precisa, un suono particolare per farlo?

«Sì, infatti. Anche se ultimamente uso il solo pianoforte, cerco di trattare questo strumento in maniera sperimentale e in ciò mi aiuta molto l’idea del digitale, perché riesco a rovesciarlo, rallentarlo, a dargli altre timbriche. Per esempio nell’ultimo disco, Low & loud, il pianoforte è stato registrato in un modo molto particolare. Con dei microfoni sono stati catturati soprattutto i suoni armonici – nel senso che ogni volta che una corda vibra si sprigiona una quantità di suoni detti armonici –, che ho cercato di fare risaltare di più, alzandoli di livello in fase di missaggio, per cui le note aumentano di durata risultando anche più ricche, più dense. All’inizio non ero convinto fosse un bel risultato, poi però ho pensato che era quello che volevo e che forse valeva la pena rischiare un po’ proponendo quella sonorità così come oggi è.»

A proposito del tuo ultimo album per pianoforte, Low e & loud, è di una bellezza disarmante probabilmente anche per queste caratteristiche sonore. Nel tuo perfetto omaggio allo strumento, in una tua personale rilettura ritroviamo anche Bach. Dopo secoli il tedesco rimane un’àncora?

«Assolutamente. Io ho sempre detto di avere due grandi punti di riferimento: uno è Johann Sebastian Bach e l’altro è… Keith Richards, i due opposti (ride). Ritengo che Bach – che possiamo arrivare forse a credere in contatto con un’entità superiore – abbia veramente scritto tutto, prima di tutti, e con una perfezione ed una capacità straordinarie nel riuscire a mettere insieme la geometria della sua musica, estremamente matematica, con una ispirazione melodica incredibile! A sentire i preludi del suo Clavicembalo ben temperato non ce n’è uno che sia simile a quello precedente o successivo. Credo che Bach sia stato una sorta di unicum nella storia della musica, al quale poi tutti gli altri si siano rifatti. Lo stesso Chopin affermava che Bach era il massimo senza il quale era impossibile pensare alla musica. Un monumento inarrivabile, insomma.»

Nella tua carriera hai dedicato ampio spazio ad altri artisti contemporanei, in incisioni ed esecuzioni, da Brian Eno, a Glass, passando per Mertens, Sakamoto, Corea e fino ai Sigur Rós. Le tue proposte seguono più un piacere personale o assecondano l’esigenza di confermare lo spessore dei nomi scelti?

«È più un piacere personale. Nel senso che quando un artista mi colpisce profondamente, mi piace pensare di poter dare una mia lettura. Poi, l’idea che siano dei nomi che abbiano anche un grosso spessore che potrà farli rimanere nel tempo, chiaramente questo io non posso saperlo. Sui Sigur Rós, credo siano stati negli ultimi 15 anni almeno la più grande scoperta. Quando ho ascoltato per la prima volta Ágætis byrjun sono rimasto sconvolto e ho pensato: ma questi da quale pianeta arrivano? Poi, mi dispiace osservare si siano un po’ persi, che l’ultimo lavoro Kveikur sia quel disco molto ben prodotto ma con poche idee – forse per il fatto che man mano i grandi protagonisti della loro musica abbiano lasciato il gruppo, come Kjartan Sveinsson, il pianista che ritengo un artista geniale, o Gunnarsson, il batterista che per altre vicende ha lasciato il gruppo. Negli ultimi tempi, dopo di loro, pochi mi hanno entusiasmato. Penso solo a Jon Hopkins. Sono, insomma, curioso di trovare qualche altro spunto per elaborare un altro tema in futuro.»

Parlando di futuro, cos’è questo timore che avresti del tempo? Cos’è il tempo per Arturo e Arturo domani?

«Terrore. Sì, è una delle mie angosce che ho messo anche nel mio ultimo disco con un pezzo che si chiama La vertigine del tempo. Sai, ognuno ha le sue debolezze, le sue angosce e credo che scrivere musica significhi anche scrivere quello che ti piace e quello che ti spaventa. Così, buttando fuori dovresti riuscire a maneggiare, ma io purtroppo non ci sono riuscito. Nel senso che per me il tempo sembra essere una sorta di vortice che ti cattura e che non riesci a fermarlo mentre io ho voglia di potermi fermare ogni tanto e dire: vediamo cosa posso fare. Insomma, mi sembra che il tempo non mi dia questa possibilità, che tutto arrivi troppo in fretta e passi troppo velocemente, naturalmente anche per le cose brutte – e, allora, è un vantaggio. Ci sono degli amici che dicono che quando diventi più grande in fondo diventi anche stanco, con meno voglia e meno entusiasmo, ma questo non è il mio caso. Perché se mi dicessero che ho a disposizione altri 400-500 anni per fare la mia musica, vedere il mondo e conoscere persone, io sarei felicissimo e non credo che mi stancherei. Per cui, sì: il tempo è una mia paura e spero sempre che inventino un modo per rallentarlo o per allungare la vita.»

Lasciamo Arturo, condizionati dal suo desiderio di una vita lunghissima da riempire. Speriamo possa raggiungerci nella nostra Sicilia, notoriamente isola dai ritmi blandi, per godere noi della sua arte e dell’amicizia preziosa e lui di più dei nostri giorni lenti.

 

Giuseppe Sanalitro

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