CARMINE MIGLIORE: «IO NON FACCIO IL MUSICISTA, IO SONO UN MUSICISTA!»

Forti e chiare, già dall’ingresso dello studio di registrazione, mi arrivano inequivocabili le note di “Here I go again” dei Whitesnake.

Chiedo dove stiano provando i Sunset Strip Band e, con mia grande sorpresa, mi indicano la terza sala, in fondo al corridoio. «Non puoi avere la prepotenza di imporre la tua musica anche agli altri due gruppi che stanno provando in questo posto!» Lo apostrofo, ironicamente, per provocare una reazione che non tarda ad arrivare: «Scherzi? Lo faccio da sempre!

Ho iniziato scrivendo sui muri delle aule dell’istituto magistrale il nome del mio primo gruppo “Zephirus”.

Mi costò una sospensione e le spese per rimbiancare tutto ma il progetto Zephirus è ancora vivo oltreoceano… Ne è valsa la pena, non credi?»

Carmine Migliore ride ma non riesce a nascondere un leggero imbarazzo al ricordo del rimprovero dei genitori, attribuendo così forza alla tesi che, molto spesso, è la musica stessa ad essere accentratrice e autoritaria: si impone nella vita di alcuni artisti, ne monopolizza il talento e a loro non resta che adeguarsi.

Poco più che dodicenne formi la tua prima band, gli Zephirus; a sedici anni registri due 45 giri; a ventidue sei in tour in Italia e all’estero con Mal; a ventisei anni inizia la tua esperienza con i Collage, con i quali registrerai due dischi. Poi è la volta di Paolo Belli, Adriano Pappalardo e Ivana Spagna. Cosa avrebbe potuto fare nella vita Carmine Migliore se non fosse diventato un musicista?

«Con questa domanda mi hai letteralmente distrutto! Credimi, non saprei davvero cosa risponderti. La verità è che ho sempre saputo che avrei fatto il musicista e non ho mai pensato a come sarebbe stata la mia vita senza la musica. Sorrido, per esempio, al ricordo di quando mio fratello portò a casa il disco dei Deep Purple, “Made in Japan”, avevo circa 6 anni e mi chiudevo in camera cantando a squarciagola le loro canzoni davanti allo specchio. Facevo talmente tanto baccano che ricordo nitidamente le urla esasperate di mia madre provenire dall’altra stanza. Dopo qualche mese misi su una sorta di band coi bambini del mio quartiere. Costruimmo gli strumenti con bastoni, corde, mazze di scopa, fustini di Dash e coperchi di pentole. Il palco era un recinto che ci circoscriveva dalle ragazzine che venivano ad applaudirci. Ma, aspetta, voglio farti vedere una cosa (Carmine tira fuori dalla tasca il cellulare e mi mostra una foto in bianco e nero di un bimbo che impugna, con la manina paffuta, un microfono e sembra intento ad interpretare un canto appassionato, N.d.R): questo sono io, avevo circa 3 anni e obbligavo i miei ad assistere alle mie performances canore. No, non credo che avrei mai potuto svolgere un’altra professione. Io ripeto spesso questa frase che, nel tempo, è diventato il mio motto: “Io non faccio il musicista, io sono un musicista!”.»

Hai avuto modo di partecipare a diverse trasmissioni televisive, ne cito solo alcune: 30 ore per la vita, Buona domenica, La vita in diretta, Anima mia, Affari tuoi… Alcuni musicisti, soprattutto del passato, affermano di preferire il contatto diretto con il pubblico e si ritraggono alla tivù. Tu, invece, sembri particolarmente a tuo agio davanti alle telecamere, sbaglio?

«Credo proprio che dovrò deluderti. Certo che mi piace esibirmi in tivù ma mi ritengo un musicista old style, molto più di quanto rappresenti la mia età anagrafica. Adoro la musica live: mi piace tanto di più guardare negli occhi la persona che viene ad ascoltarmi e percepire, in quel contatto visivo, ciò che gli sto trasmettendo.

Ritengo che la preparazione ad uno show sia importantissima ma lo è molto di più lo show stesso, che è anche improvvisazione. La tivù, così come anche lo studio di registrazione, mi danno quella sensazione di compressione che mi limita…

Il palco è, senza ombra di dubbio, la mia dimensione naturale.»

Virtuoso chitarrista ma anche eclettico cantautore, hai partecipato a molti festival tendenzialmente rock e blues, le tue grandi passioni, riscuotendo larghi consensi di critica. C’è stata una tua qualche partecipazione o collaborazione che ti ha lasciato ricordi emozionanti, che ti ha segnato in maniera indelebile?

«Sono state diverse le esperienze che mi hanno lasciato bei ricordi e che mi hanno insegnato tanto ma, più che le partecipazioni ai festival, ciò che mi ha completato come artista e come uomo sono stati i progetti in collaborazione con il Secondo Policlinico di Napoli e con l’Unicef. Con la mia musica ho avuto l’onore di supportare delle meravigliose iniziative in favore di persone in difficoltà e meno fortunate di noi. Per il Secondo Policlinico sono stato testimonial in favore della raccolta di fondi per gli ammalati di Còrea di Huntington, una gravissima patologia neurodegenerativa della quale si parla, purtroppo, ancora poco. Per l’Unicef, insieme ad un gruppo di artisti campani (tra cui Tony Esposito ed Enzo Avitabile) registrammo una compilation e i proventi delle vendite finanziarono la costruzione di una scuola in Palestina. Ritengo siano queste le emozioni vere che, più di altre, permangono nel cuore.»

Tra le tue diverse produzioni ha attirato la mia attenzione il titolo “Morire per vivere”, singolo pubblicato nel 2014 con la band Password, da te formata. Com’è nata l’idea del brano e perché proprio quel titolo?

«L’idea iniziale era di far cantare la canzone ad un altro componente della band ma, successivamente, decisi di registrarla io perché ritengo che mi rappresenti particolarmente. Nel corso della vita mi è capitato diverse volte di sentire l’impulso di ammazzare, metaforicamente, una parte di me per permettermi di rinascere o di far rivivere un aspetto di me stesso che avevo mortificato. Il titolo, però, ha un duplice significato: racchiude anche il conflitto che tante persone, almeno una volta nella propria vita, si trovano a combattere, cercando un equilibrio tra il cuore che invita ad esplorare nuovi mondi e la razionalità che limita e ammonisce l’istinto.»

È risaputo che dietro ogni professionista c’è una formazione ferrea; ci sono studi approfonditi e sacrifici per portarli a termine. Tu non fai eccezione: dopo il Conservatorio, l’Università della Musica, svariati seminari e corsi di specializzazione, decidi di riprendere gli studi. Oltre che maestro di chitarra e di canto non disdegni di essere allievo, quindi?

«Certo che no! Premesso che io mi reputo l’allievo numero tra i miei allievi, ripeto spesso loro che, se do 20 ad ognuno, ognuno mi restituisce almeno 1; avendo circa 50 allievi e facendo un calcolo veloce, se ne deduce che il primo a non smettere di continuare a imparare sono proprio io! Ma a prescindere da questo, nel 2010, parlando con un amico batterista che aveva ripreso gli studi, appresi che al conservatorio di Napoli avevano introdotto il corso di chitarra jazz. Io avevo già completato gli studi in chitarra rock e jazz fusion ma mi incuriosì questo nuovo percorso e decisi di iscrivermi. Portai a termine l’esperienza con un entusiasmo tale, spaziando tra diverse discipline, che volli che la mia tesi vertesse sull’aspetto filosofico, apollineo e dionisiaco del jazz, facendomi prendere per pazzo dal mio maestro che mi invitava a suonare i canonici quattro brani, come facevano tutti. Oltretutto mi fa sorridere l’idea di risultare, agli annali del conservatorio di Napoli, il primo laureato in chitarra jazz della sua storia!»

Da tre anni sei chitarrista e corista per Ivana Spagna. Avendo avuto il piacere di confrontarmi con lei, ne ho ricavato una personale concezione di donna estremamente dolce e disponibile. Sarei curiosa di sapere se riesce a mantenere quella incredibile affabilità anche se, mentre state lavorando, qualcosa va storto…

«Assolutamente sì! Lei è dotata di una sensibilità e di una delicatezza tale che, piuttosto che mostrare insofferenza, tende a defilarsi ma – credimi – non l’ho mai vista arrabbiata. Del resto, lavorare con lei è meraviglioso: Ivana infonde una serenità nel gruppo inimmaginabile. Considera che io, da ragazzo, ero un suo fan accanito e anche se seguivo altri filoni musicali, aspettavo il Festivalbar solo per vedere lei. Mi piaceva particolarmente Call me, l’ho ballata in discoteca ed è stato il liet motiv delle serate con gli amici. Adoravo i suoi look ed aveva quella voce talmente particolare e dalla pronuncia così perfetta che, per molto tempo, ho pensato fosse inglese. Considera che, quando è arrivata la proposta di suonare per lei, stavo terminando degli studi di specializzazione e mi stavo convincendo che fosse più giusto concentrarmi sull’insegnamento e abbandonare definitivamente i tour. Al contrario, accettai subito di vivere l’esperienza con Ivana, forse anche perché è stato un po’ come ritornare indietro nel tempo e rievocare quelle emozioni dei miei 20 anni.»

Temporaneamente accantonato il tour con Ivana sei impegnato in ben tre diverse formazioni: Carmine Migliore Blues Experience Trio; SuperNatural Band e Sunset Strip Band, con le quali stai portando in giro per i club degli spettacoli davvero molto coinvolgenti. Ciascuno di questi progetti risulta, a suo modo, sfidante e ambizioso. Chiederti a quale sei più affezionato è un po’ come chiedere ad un bambino se si vuole più bene alla mamma o al papà?

«… Oppure come chiedere a te se vuoi più bene al tuo figlio maschio o alla tua figlia femmina. Impossibile rispondere! Carmine Migliore Blues Experience Trio è la mia band storica, che ha cambiato diverse denominazioni nel tempo ma ha mantenuto l’idea di base che è, fondamentalmente, improntata sul rock blues. La considero come il porto sicuro al quale approdo per rigenerarmi e ritrovarmi. SuperNatural Band è il tributo a Carlos Santana: è un progetto che esiste da circa dieci anni e mi piace particolarmente perché mi permette di spaziare mentre suono. A me non piace, nei tributi, imitare il personaggio e scimmiottarne le movenze; per me un tributo è l’esecuzione soggettiva che prende spunto dall’artista e reinterpreta la sua musica. Ritenendo Santana di forte impronta dionisiaca – considera che partendo da “Samba pa tì” può scatenarti un inferno – mi risulta estremamente piacevole e interessante suonare i suoi pezzi, perché è un po’ come se fossero sempre nuovi. Nel 1994 ho assistito ad un suo concerto e sono stato travolto dalle dinamiche, dai suoni di questo ensemble immenso, dai colori… è davvero pazzesco! I Sunset Strip Band, invece, sono la mia ultima creatura e fra poco assisterai alle nostre prove. Il progetto era in cantiere da un po’ di anni: volevo rivivere le emozioni dei brani con i quali sono cresciuto e che mi hanno fatto amare ancora di più la musica. Con il gruppo riproponiamo brani dei Kiss, Bon Jovi, Van Halen, Journey, Motley Crue e artisti metal e glam rock and hair che hanno fatto storia negli anni ‘80 e ‘90 e che si esibivano nella Sunset Boulevard di Hollywood, da qui il nome.»

Come saprai, la storia che Babbo Natale non esiste è un’invenzione dei grandi che hanno smesso di sognare. Tu, che hai mantenuto uno “spirito bambino”, avrai sicuramente scritto la tua letterina. Cosa gli hai chiesto?

«E cosa potrebbe chiedere a Babbo Natale un cattivone come me? Neanche ci provo a scrivere la letterina! Scherzi a parte, ogni anno chiedo solo tanta serenità, che è ciò di cui tutti abbiamo un immenso bisogno. E poi, a dirla tutta, ha già esaudito un mio grande desiderio che quest’anno non mi azzardo a chiedere altro. Devi sapere che, quando ero poco più che un ragazzino, partecipando ad una trasmissione Rai, un giornalista mi fece più o meno la tua stessa domanda e io risposi che speravo che Babbo Natale mi desse, un giorno, l’opportunità di poter andare a Los Angeles per suonare la mia musica su un grande palco. Ebbene, anche se un tantino in ritardo, l’anno scorso mi ha portato il tanto atteso regalo. Nel gennaio 2018, infatti, mi sono esibito al fianco di Frank Gambale, Stu Hamm, Marcus Miller e Alain Caron al Namm di Anaheim-Los Angeles (la fiera di strumenti musicali più importante al mondo, dove gli espositori fanno esibire gli endorsers più virtuosi, N.d.R.). Ho avuto l’onore di suonare su uno dei palchi più prestigiosi della manifestazione: quello dello stand DV Mark e Mark Bass, amplificatori made in Italy per i quali sono endorser. Nella stessa occasione, ho presentato la mia “NeverLandAngel”, la chitarra che è stata costruita da Marconi LAB, altra eccellenza tutta tricolore, su mie specifiche richieste e che, pare, stia andando molto forte oltreoceano. Sono davvero lusingato da tutto questo… Che ti avevo detto? Io non faccio il musicista, io sono un musicista! Esperienze incredibilmente forti, chissà se le avrò meritate?!»

Si schernisce così, Carmine, prendendosi quasi gioco di sé. Del resto, è capace ancora di ringraziare imbarazzato ai complimenti che, di fronte a un virtuosismo artistico come il suo, sorgono spontanei in chiunque abbia il piacere di assistere a un suo live. È vero, adora imporsi con la sua musica ma lo fa con la delicatezza di chi, nonostante riconosca il proprio talento, rimane pregno di sana umiltà. Ribadisce tenacemente quel “sono un musicista” perché sia chiaro che la musica lo avvolge completamente, è padrona della sua essenza e sovrana di ogni sua fibra. A dispetto della mole, Carmine Migliore ricorda a tratti ancora quel ragazzino che imbrattò i muri della scuola: ha negli occhi la luce propria di chi esige libertà di espressione, perché un istinto ancestrale gli suggerisce che solo se non smetterà di credere nel suo sogno, il cerchio potrà chiudersi perfettamente.

 

Brigida Buonfiglio

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