ALFIO ANTICO, LA MAGIA DEL RITMO COME UN’ARIA BAROCCA

Di Paolo Miano

Alfiere della musica popolare siciliana nel mondo, tra i maggiori esponenti ed innovatori della tammorra e del tamburo a cornice, la personalità artistica di Alfio Antico spicca anche per una storia personale romanzesca, che lo ha portato da un’infanzia da pastorello con la passione per la musica e per i suoi tamburelli autocostruiti nelle campagne lentinesi all’incontro casuale con Eugenio Bennato che lo introdurrà nei suoi Musicanova, sancendone così l’ingresso definitivo nel mondo dell’arte e dello spettacolo.

Comincia per il musicista siciliano una lunga e prestigiosa carriera solista, con partecipazioni a brani illustri della discografia italiana come Don Raffaè di De André e Il ballo di San Vito di Capossela, esperienze nel cinema e nel teatro ma soprattutto una produzione di album originali, volti al rinnovamento dei linguaggi della musica popolare, l’ultimo dei quali s’intitola Trema la Terra.

«Trema la Terra e trema l’umanità. Ad esempio, la canzone “Nun n’haju sonnu” parla dei pensieri che non mi fanno dormire, come le forzature che l’uomo esercita sulla natura, il clima, l’ambiente e che hanno portato alla diffusione del virus stesso; il controllo che i potenti hanno sulla vita delle persone o i cambiamenti sociali che ci stanno portando all’isolamento. Una volta ci si salutava tutti, adesso non ci si conosce nemmeno con i propri vicini.»

Un filo conduttore dell’album è il suono delle campane di un gregge. C’è da chiedersi come faccia Alfio Antico a conciliare una carriera per sua natura girovaga con il legame stretto che ha mantenuto con le proprie origini.

«Per me il futuro sta nel ritorno al linguaggio della terra, della campagna. Esiste un verso particolare che si fa agli animali per farli smettere di litigare, un suono tipo “drrrr”: ecco, dovremmo avere un verso simile per chi ci governa, per fargli fare quel passo indietro che in realtà corrisponderebbe a parecchi passi avanti per tutti. È importante attaccarsi alle radici e non perdere la propria identità. Io con queste cose ci sono cresciuto, quindi sono rimaste dentro di me, insieme a tutto ciò che mi hanno insegnato, ed è la materia che costituisce la poetica con cui scrivo di quello che osservo, che prescinde dallo stile musicale e dalla lingua che si usa.»

Il cantautore originario di Lentini (SR) non ha mai voluto incanalare la sua musica in solchi già percorsi e logori, discostandosi dai canoni tradizionali attraverso sonorità sperimentali ed autentiche. Nell’ultimo lavoro si riconosce maggiormente l’esigenza di una via più contemporanea alla musica popolare, grazie anche alla produzione di Cesare Basile.

«Non faccio musica popolare, io sono popolare. Esprimo la mia natura, il folk da cartolina non mi interessa. Cesare lo conosco da parecchi anni, anche se per collaborare insieme c’è voluto l’intervento di mio figlio Mattia che è un suo caro amico. È stato bravissimo a cogliere lo spirito del disco e adesso abbiamo anche un progetto per fare dei concerti insieme che speriamo di realizzare al più presto.»

Si riscontrano anche evidenti contaminazioni con musiche dell’Africa subsahariana, le stesse che “migrando” negli Stati Uniti hanno dato origine al blues moderno.

«La contaminazione è sicuramente un fatto positivo, in particolare la Sicilia ha dentro il sangue di tante popolazioni e questa potrebbe essere la nostra ricchezza, se solo sapessimo usarla bene. Potremmo avere tutto ma alla fine non abbiamo niente, ci facciamo scappare le cose dalle mani. La mia musica non è folk da cartolina, mi dà fastidio quando mi chiedono “Ciuri ciuri”. Io voglio trasferire in musica la magia del ritmo che mio nonno dava ai muli nell’aia per far loro pestare il frumento. Non è tarantella, è blues, è un jazz, un’aria barocca. È questo che ci lega alla musica degli africani e degli schiavi d’America. E questa è la mia linea.»

Alfio Antico vive a Ferrara da parecchi anni ormai e questa distanza ha un ruolo importante per la sua ispirazione.

«Quando sono in Sicilia, la terra non mi fa parlare. Mi dice solo: “passeggiami senza dire niente!”. Vengo spesso in Sicilia per allattarmi, nutrirmi, portando con me 2-3 quaderni ed innumerevoli penne. Poi, quando torno a casa, deposito.»

Senza dimenticare il profondo legame con il suo strumento, l’origine di tutto: il tamburo.

«Il tamburo è la mia voce principale. Senza farmi sentire un cantante, mi fa cantare dalle viscere, “d’u viddicu d’a panza”.»

www.musicaintorno.it

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