A ROMA C’È UN MURO CHE INCANTA

Chi c’è stato lo sa, un concerto de Il Muro del Canto è un’esperienza esaltante: la band ti investe con un sound elettroacustico compatto e un ritmo da (s)ballo, ti bombarda di parole che piovono giù dal palco come pietre. Questo Muro, però, quando ti colpisce, non fa male, né fa piangere. Fa cantare e ballare come se non ci fosse un domani.

Chi scommetteva su di loro agli esordi, ha colto nel segno: la formazione romana nel giro di otto anni è diventata una realtà affermata nel nostro panorama musicale, e col suo quarto album L’amore mio non more conferma il proprio inconfondibile stile, che fonde tematiche della migliore tradizione popolare e cantautoriale con sonorità rock e dark.

Logo della band è un albero dalle radici contorte e dalla chioma spoglia, inserito in un cerchio che ne riporta a caratteri monumentali il nome, con sotto la scritta “Complesso di musica popolare romana”. L’albero anche nella chioma è radici, poiché le radici, ovvero le origini, ci sono. Eccome.

Non lasciatevi tuttavia fuorviare dalla dicitura rassicurante perché, in verità, la band ‘spacca! Lo capisci ancor prima del concerto osservando il pubblico stipato in trepidante attesa, composto in maggioranza di ragazzi sui trent’anni dal look dark portato a mo’ di scudo, appena ravvivato da tatuaggi che spuntano come rampicanti colorati dalle camicie. Stesso look dei cinque musicisti che attaccano energici a suonare, schierati in linea sul palco, mentre il frontman intona la prima canzone con una voce che smuove le budella.

“Vedemo se riuscimo a favve sganchi’ le ossa ‘co ‘sto pezzo”, tuona a un tratto nel microfono, provocando un maremoto di corpi.

Sicuramente del Muro travolge la musica, ma non si può prescindere dalle canzoni di Daniele Coccia, cantante e fondatore della band, né dai monologhi di Alessandro Pieravanti, che nella formazione è anche percussionista. I due autori sono i cardini dell’equazione Muro, in cui Daniele sta alla poesia come Alessandro sta al racconto breve. Daniele Coccia ha il pennino di Trilussa e la vena del poeta maledetto; Alessandro Pieravanti coglie con occhio realista e ironico la realtà che lo circonda tratteggiandola, con pennellate rapide e precise, nello spazio-tempo di narrazioni declamate in stile vagamente rap.

In tempi di crisi post industriale, Alessandro spara a zero sull’ipocrisia e le abitudini degli itagliani, bersaglia tanto la speculazione edilizia delle periferie quanto la schizzofrenia consumistica dei giovani nei centri commerciali, o la tecnologia disumanizzante dei social, col tono sprezzante del narratore urbano. Daniele canta la rabbia di chi già a trent’anni è costretto “a pensa’ a come nun cade’ le mani avanti” ma spera ancora di risollevarsi, se non di trovare l’amore: le sue sono rime corrosive pervase di sentimenti anarchici e anticlericali, vere pasquinate contemporanee affidate alla piazza attraverso il pentagramma dei musicisti compagni di ventura – Ludovico Lamarra (basso), Alessandro Marinelli (fisarmonica), Eric Caldironi (chitarra acustica) e Franco Pietropaoli (chitarra elettrica).

Non fanno sconti a nessuno! A ben vedere, fanno lo stesso mestiere di De André che “si faceva carico come artista di interpretare il disagio, rendendolo qualcosa di utile e bello”. Se la musica è popolare quando racconta la vita delle classi più deboli, i testi del Muro riescono davvero a dar sfogo a quanti oggi sentono di non avere voce, nella capitale come nel resto d’Italia.

Daniele Coccia, quando hai iniziato a scrivere canzoni?

DC: «Forse da quando ho cominciato a capire: a tredici anni avevo un gruppetto heavy metal e mi piaceva scrivere canzoni e poesie… ma in fondo scrivevo come adesso. A vent’anni ho pure scritto un libricino di poesie, Resistenza da camera, che ho stampato a quaranta: se non l’ho stracciato o bruciato vuol dire che era scritto bene.»

Da quando hai cominciato a scrivere canzoni in romanesco?

DC: «Dal 2010, da quando è nato il Muro. O meglio, forse il Muro è nato quando io ho cominciato a scrivere in romanesco, perché stavo facendo un disco e l’ultima canzone è poi diventata la prima del Muro – la canzone Luce mia – e alla fine ho messo su il gruppo intorno a una manciata di pezzi in romanesco. Io fondamentalmente sono solo un autore e un cantante; sono metallaro e mi diletto con la musica elettronica, ma non suono uno strumento perché non ho mai voluto essere un ‘tecnico’ della musica.»

Prima cantavi con i Surgery, una band di musica industrial, un mix tra metal e elettronica. In definitiva, che influenze musicali riconosci?

DC: «Come influenze abbiamo molta musica americana come Nick Cave, ma anche Ennio Morricone, tanto rock sporco, anche i Queens of Stone Age… Noi siamo molto rock, non siamo ‘morbidi’, ma Gabriella Ferri, Fabrizio De André, e anche Luigi Tenco, ci sono.»

C’è una canzone in cui dici ‘fiore de niente… d’accidente… de piombo…’: sai che questo modo è tipico degli stornelli romani?

DC: «Certo, l’ho scritto apposta! Anche il nostro terzo disco si intitola ‘Fiore de niente’, ed era un modo di dire, con la tradizione, che quello che abbiamo adesso è poco, anzi quasi niente.»

 

Hai anche incitato il pubblico a cantarla “come un canto di mondine”: ti rifai quindi alla tradizione della musica popolare?

DC: «Io ragiono in romanesco. Mi interessa la musica popolare romana, ma in generale mi interessa molto il folk di tutto il mondo. Mi dispiace che non ci sia un folk molto forte in Italia però io lo faccio e sono contento, non per orgoglio delle origini ma perché cerco di ricordare le cose che stanno andando perdute. Comunque, io provo ad essere me stesso, cioè provo ad essere il folk di me stesso.»

Da cosa attingi in particolare?

DC: «Sono stato sempre a Roma, quindi i film romaneschi li ho visti, le canzoni le cantavo con mio nonno… però mi stanno strette queste canzoni e, più che ‘attingere’, le utilizzo. Attingo soprattutto dalla mia vita, ed è la cosa più interessante. Però il linguaggio è quello.»

Alessandro Pieravanti, qual è invece il tuo background musicale?

AP: «Mi piace tutto l’ambito che va da Giovanna Marini a Caterina Bueno, dal Canzoniere del Lazio a Lucilla Galeazzi ecc. Giovanna Marini, per chi ascolta musica popolare, è un punto di riferimento. Quando l’approccio è di voler provare ad attualizzare quel discorso, bisogna pure avere gli strumenti per farlo.»

Nella musica del Muro, cosa c’è di questa tradizione popolare italiana?

AP: «Una caratteristica forte, che abbiamo voluto mantenere, è il fatto che la musica popolare, tranne quando fa dei riferimenti chiari a degli eventi, racconta delle storie talmente di tutti che la potresti spostare nel tempo e nello spazio. Il secondo aspetto è il fatto di raccontare storie comprensibili a tutti, con un linguaggio semplice.»

Ti sei in qualche misura ispirato a Giovanna Marini nella maniera di raccontare al modo del cantastorie?

AP: «Mi sembrava che il miglior modo per unire l’essere musicista all’essere scrittore fosse quello di fare delle narrazioni al microfono, a metà tra un recitato e un cantato. Poi ho scoperto, facendolo, che c’è tutta una tradizione di storytelling, spoken word… e ho iniziato anche a farmi contaminare. A me piace molto Franco Califano e mi sono ispirato a lui nel ‘filo rosso’ che lega la storia, cioè nel racconto dell’esperienza di una persona dall’inizio alla fine della giornata, come ad esempio la canzone in cui racconta la gita di una coppia che va a sciare. Il mio monologo Vivere alla grande racconta le sensazioni che prova un ragazzo che va al centro commerciale, seguendo lo stesso costrutto temporalmente lineare. Invece i miei monologhi in rima, come Domenica a pranzo da tu madre, sono più vicine al mondo del rap.»

Tu con i tuoi monologhi e Daniele con le sue canzoni siete sulla stessa lunghezza d’onda?

AP: «Non c’è mai capitato di dover dire ‘io questa cosa non l’avrei detta. Abbiamo costruito insieme l’immaginario del Muro e quando scriviamo sappiamo già a cosa facciamo riferimento, anche se abbiamo stili e un linguaggio estremamente diversi.»

Da dove viene il nome della band, ha qualche attinenza col Muro del Pianto?

AP: «In origine è solo un’assonanza col Muro del Pianto, che si porta dietro un qualcosa di mistico – c’è poca religiosità ma molto misticismo nel Muro del Canto. Poi, nel tempo, il nome ha acquisito significato: il fatto di suonare in fila e di avere un sound con una pressione sonora forte è un muro sonoro. Inoltre, il muro è anche un atteggiamento nella scrittura: l’attitudine narrativa è infatti estremamente netta, le frasi sono sempre affermazioni dette con solidità.»

Siete anche un muro contro qualcosa o in difesa di voi stessi?

AP: «Sicuramente ci sono delle cose nella società che non ci vanno bene o che vorremmo provare a far cambiare, sia con le scelte musicali che di comportamento e di azione sociale – dove e come fare i concerti, il prezzo di biglietti e CD, che cause sposare, suonare nelle carceri…»

Siete molto presenti anche nel circuito dei centri sociali. Ricordo quando avete suonato gratis a Garbatella, quartiere popolare storico di Roma. Qual è la scelta alla base?

AP: «Noi cerchiamo di creare coerenza tra le tematiche trattate nelle canzoni e il nostro comportamento, non vogliamo predicare bene e razzolare male’..

Ho notato che i vostri fan conoscono tutte le canzoni i monologhi a memoria, cosa che richiede una memoria prodigiosa! Ti sei mai chiesto cosa amano dei testi?

AP: «È un discorso che abbraccia il Muro come progetto, ovvero le cose che scriviamo, le copertine, il nostro modo di parlare, di presentarci sul palco, di coinvolgere le persone ecc. Fa tutto parte del concetto di appartenenza. Poi certo la canzone è lo strumento che si utilizza: infatti la canzone la sai a memoria, la canti e ti diverti, però la percezione è di far parte di un gruppo… Io penso che il Muro abbia creato una comunità.»

Rispetto ad altre band romane, il Muro come si distingue?

AP: «Il Muro è un gruppo che non ha niente a che vedere con la scena romana, perché fa un altro tipo di percorso – sfido a trovare qualcosa di simile se non nella lingua. Abbiamo molti rapporti nel mondo romano ma soprattutto fuori dall’ambito musicale, e comunque quelli con cui abbiamo maggiori rapporti sono rapper – da Assalti Frontali a Piotta, da Colle der Fomento a Rancore

C’è sinergia con altri artisti, mi sembra di capire…

AP: «Assolutamente! Mi piace tessere relazioni che portano a dei prodotti artistici. Anche nella mia trasmissione radiofonica (“Raccontami di te”, Nd.R.) ho già avuto 25 ospiti, tra cui Erri De Luca, Francesco Pannofino, Zen Circus, Bud Spencer Blues Explosion…, gente con cui ho delle relazioni che mi arricchiscono.»

Vantate anche importanti collaborazioni con molti creativi del movimento underground romano, non ultima la partecipazione dell’attore Marco Giallini in un vostro video.

AP: «La collaborazione con altri artisti si è creata nel tempo. La voglia di lavorare insieme nasce da un rapporto di stima reciproca. In un video c’è Marco Giallini, in un altro Vinicio Marchioni, attori romani molto bravi che hanno, anche loro, un’estrazione popolare e sono quindi sensibili a determinate tematiche, per cui è stato semplice decidere di lavorare insieme.»

 

Come vi siete incontrati?

AP: «Giallini conosce Elio Germano con cui noi siamo molto amici, perché Elio ha una band, le Bestierare, che molto spesso ha aperto i nostri concerti.»

Chi disegna le copertine dei dischi?

AP: «La copertina de L’ammazzasette, che è il simbolo del Muro, l’ha fatta Daniele al computer; Ancora ridi porta in copertina una fotografia scattata dal padre di Daniele, il fotografo Giovanni Coccia; Fiore de niente è stato disegnato da Silvia Sicks, della band Tunonna; l’ultimo album, L’amore mio non more, è stato fatto dallo streetartist Lucamaleonte, coordinato dal grafico e fumettista Paolo Campana

Street artist, rapper, altre band, attori, cinema, radio: c’è proprio un gran fermento…

AP: «Roma da sempre è stata un terreno fertile per gli artisti, una città grande che offre molte opportunità e piena di contaminazioni. Roma è ridiventata un nucleo di incontri interessanti, le cose più belle stanno uscendo da qua.»

 

Dorina Alimonti

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