“POST POP DEPRESSION”, IGGY POP

 

Post pop depression_musicaintornoDopo le trascurate uscite discografiche Preliminaries (2009) e Après (2012), Iggy Pop, la leggendaria “Iguana” del rock, è tornato con il suo disco di congedo dalle scene e probabilmente l’ultimo in studio. Post pop depression (Loma Vista Recordings), uscito il 18 marzo, è il diciassettesimo album per l’eroe del punk-garage rock, prodotto da Josh Homme (Queen of the Stone Age, Kyuss e Eagles of Death Metal) con la collaborazione del chitarrista Dean Fertita (QOTSA e Dead Weather) e del batterista Matt Holders (Arctic Monkeys).

 

 

 

 

 

Si presenta come un lavoro epico e organico, il migliore dei suoi dischi solisti: è stato registrato al Rancho de la Luna studio in Joshua Tree, nel deserto della California, dove Homme ha adunato il collettivo di musicisti The Desert Session, dando vita allo stoner rock di cui Homme è il pioniere assoluto. «Nel deserto non hai nulla a parte l’isolamento che ti obbliga a concentrarti sulle cose essenziali, e questa connotazione fa bene alla musica» spiega Homme, parlando del suo studio-bungalow. Post pop depression rappresenta il momento più alto della carriera di Iggy dopo gli anni Settanta, un continuum delle istanze e degli sviluppi artistici mai conclusi del periodo berlinese di The idiot e Lust for life, gli album co-prodotti insieme al compianto migliore amico David Bowie: «La sua amicizia era la luce della mia vita» ha dichiarato Pop dopo la sua morte. E la presenza di Bowie percorre tutto l’album, dai singoli ritmici Break in to your heart/Gardenia con un’eco malata che ricorda Lou Reed e Jim Morrison, la prima, e che ci fa capire perché Ray Manzarek e soci considerassero Iggy Pop degno sostituto del Re Lucertola. Elegante e romantica la seconda, fino alla nostalgica German days.

La voce di Iggy non è quella psicotica, isterica e autodistruttiva di Fun House e Raw Power del periodo Stooges, ma è tipicamente crooner, confidenziale, strascicata, languida, lirica e incrinata. American Valhalla è introdotta da una melodia orientale che si apre poi con un ritmo percussivo trascinante di basso a quattro corde e batteria che culmina con il recitato finale di Iggy “I’ve nothing but my name” (Non ho nulla, a parte il mio nome). Dappoi In the lobby, dove svettano le incursioni stoner di Homme sulle quali spicca la voce roca e apocalittica di Iggy, che fa i conti col passato e il presente. Sunday è un rock-pop irriverente e un po’ onirico sul finale orchestrale. Vulture è dichiaratamente Lo-Fi free; mentre Chocolate drops scende lenta come un balsamo malinconico sulle campane in rilievo.

L’album si chiude epigrafico con Paraguay: “Wild animals they do never wonder why, just they do what they goddamn do” così recita un coro soul-funky all’inizio del pezzo, mentre l’Iguana spiega i motivi per cui vuole fuggire dall’Occidente per ritirarsi a vita privata: “I wanna be your basic cold” (Voglio essere il tuo stupido) dice, e sembra fare il verso a “I wanna be your dog” di Raw Power, ma a noi suona come un tenero capriccio di questo veterano reduce da mezzo secolo di battaglie rock, tra sangue, mutilazioni, stage diving e droghe, i cui segni sono ampiamente visibili nei solchi di un corpo raggrinzito e sgualcito. Post pop depression è il titolo scelto dal super gruppo per rappresentare la rinascita della musica vera dopo lo sprofondare nell’immondizia del pop commerciale twostep degli ultimi anni, nonché una rinascita personale per Iggy, che qui metabolizza ed esorcizza i propri tormenti con la stessa aderenza oscura e decadente di sempre.

 

Alberto Sparacino

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