DEFTONES: “GORE”, NU METAL PER FENICOTTERI ROSA IN SALSA ALRTERNATIVE

 

Deftones - Gore_musicaintornoAlcuni, compreso il sottoscritto, al primo ascolto di Gore (Reprise), nuovo album dei Deftones, cadrebbero nella stagnante nebulosa rassegnazione del già sentito. In effetti la linea vocale di Chino Moreno in superficie potrebbe sembrare puerile, un vagito emotronic da crisi adolescenziale che smorza ogni entusiasmo, ma in filigrana il disco rileva sostrati di grande maturità empirica. I Deftones di Sacramento non hanno bisogno certo di presentazioni né tanto meno di pose e giustificazioni. Gore parla da sé, ed è un dialogo esperto tra la rabbia di scream urlati con metodo e risolutezza, ambientazioni malinconiche e introspettive, che evocano intrecci organici di sogni e incubi, amabile e famelica fauna cadaverica in perenne stato di grazia e collera che si erge troneggiante sui lampi della psiche e rode i più obliati meandri del cuore. L’album è del tutto nuovo per il gruppo che non ha mai pubblicato un lavoro uguale all’altro, esplorando mondi musicali personali e in continua trasformazione sperimentale. Tra alti e bassi potremmo suddividerlo in due parti con logiche e dialettiche interne che si scontrano di continuo, ma che non rappresentano l’esemplificazione dell’eccellenza raggiunta con il precedente Koi No Yokan. Prayers/Triangles è la prima traccia e si apre melodica con le chitarre in drops di Carpenter, tinteggiando atmosfere oniriche per poi diventare graffianti, accompagnate dalla voce del frontman e dalla batteria.

Acid hologram appare vagamente grunge con le sue chitarrone elegiache e l’inflessione vocale del cantante, un misto di Smashing Pumpkins in sordina e anatemi infernali che ricordano Golgotha tenement blues dei Machine of Loving Grace. Accelerata e possente Doomed user che paradossalmente è la traccia meno doom di tutto l’album, almeno nel volume sonoro, tra riff massacranti e un Chino Moreno in splendida forma. Geometric headress è uno di quei momenti poco significativi dell’album a parte qualche piacevole contrappunto tra il tono vizioso della voce, per il resto abbiamo una linea di batteria e di chitarra costruite ad hoc e fine a se stesse. La seconda parte del disco si apre con l’intimità di Hearts/Wires, molto atmosferico e con un inizio elettronico che prende corpo facendosi spigoloso. Pittura infamante, accattivante per il suo curioso titolo italiano, è il pezzo più heavy metal che incontrerete. Seguono Xenon, brano trascurabile, anche per l’imbarazzante afflato aspirato alla Ville valo degli Him, ottimo il basso di Sergio Vega in (L)Mirl, altro brano magnificamente costruito, molto colorato nella strumentazione. La title track Gore, che non è un riferimento a Martin dei Depeche Mode né al politico statunitense, è la più urlata e rabbiosa con pennate vocali in growl e chitarre doom . L’ottavo album della band si chiude con due mirabili romantic ballades, Phantom bride e Rubicon. La prima passerà alla storia, perché alla chitarra si gode della presenza di Johnny Cantrell, eroico chitarrista degli Alice In Chains che crea un riff retrò iniziale perfetto, ammantando il brano per intero. Non potrete trovare di meglio nel panorama mainstream che sappia coniugare con grande stile e personalità hardcore e crossover.

 

Alberto Sparacino

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