Un’infinitesima parte del suono di quel particolare violino?
O una parete accesa dal tramonto mentre quel violino suona?
O il tempo del brano scandito dal metronomo?
O il musicista che lo suona?
O il creatore dello strumento? Chi sarei? Cosa sarei?”
“H3+” (Woodworm, 2017) completa la trilogia che Paolo Benvegnù iniziò con “Hermann” (2011) e continuò poi con “Earth hotel” (2014). “H3+” è la molecola che sta alla base dell’universo.
L’iniziale “Victor Neuer” è un inno alla “deriva” dell’arte della musica: composizione arricchita dalla chitarra acustica e dagli archi. La seguente “Macchine” è un’avventura testuale nell’infinito dell’esperienza artistica: canzone infarcita da intarsi elettronici, delineata da un piano struggente, e infine da un solo guitar sognante. “Goodbye planet Earth” è un viaggio nell’esistenza precaria per definizione ma anche rassicurante (“Don’t lose control”). “Olovisione in parte terza” è un altro affresco sulla vita, brano tanto realistico quanto visionario. “Se questo sono io” s’avvale del pianoforte e alla fine dei fiati, a differenza dei due brani precedenti più prettamente rock: in questo caso, un Io “nomade” regna nel testo, sottolineando il dato sentimentale.
“Quattrocentroquattromila” conferma la volontà di Benvegnù di variare la sua proposta stilistica, a favore di soluzione varie, sia a livello testuale, sia musicale. “Boxes” è uno “stream” a cui da sempre Paolo c’ha abituati, comunque “confortevole”. “Slow parsec slow” è un’autentica visione (“Tutto è luce”) che lascia l’ascoltatore al suo incanto: la somma dei fiati è il valore in più di questa gemma.
“Astrobar Sinatra” è un disegno immaginifico sull’amore, sorretto da una voce trascinante (“Si è fatto tardi, addio!”) e dal pianoforte, senza dimenticare basso elettrico e batteria acustica. “No drinks no food” è il pezzo finale, degna conclusione colorata dagli archi per un testo liberatorio.
Cantautorato d’eccezione. Acquisto consigliato.
Giandomenico Morabito