TRA MUSICA E PAROLE, “STORIES” E (IN)CANTO DI PATRIZIA LAQUIDARA

Patrizia Laquidara Stories09_musicaintornoMe ne ha affidate tre di storie, “Carolina”, “Il pappagallo”, “Fiat 127 berlina”, facendomi promettere di tenerle per me, di non divulgarle e – una volta lette – di cancellarle. Ed io, lusingato per la generosità della condivisione, quelle storie di Patrizia Laquidara, le tengo per me.

Con voi condivido invece il racconto inedito di una personalità sensibile, gentile, dai modi garbati, che non ha paura di mostrarsi vera. Una donna che, sul palco, mette in scena sé stessa, senza troppi fronzoli, con uno sguardo carico di meraviglia e una voce raffinata, che seduce e conquista.

Tra incanto e musica, in una splendida notte agostana al Class Club, Enrico Terragnoli, Daniele Santimone e Vincenzo Di Silvestro accompagnano magistralmente le “Stories” di Patrizia Laquidara: donna, amica e – come dicono gli altri, me compreso – artista.

“Stories – Un concerto raccontato”, un reading dove il canto abbraccia frammenti di esperienze e racconti di vita. Storie di “ordinaria poesia” nel quotidiano?

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«Preciso che non si tratta di un reading, ma di un concerto vero e proprio, all’interno del quale leggo dei racconti autobiografici. Niente a che vedere con il libro di poesie (Alphonsomangorey – Ed. La Vencedora) pubblicato qualche mese fa. Queste sono storie che raccontano ricordi della mia infanzia e non solo, e che quindi hanno per protagonisti le persone che ne hanno fatto parte. Raccontano il mondo visto con gli occhi e con il cuore di una bambina e, nel fare questo, si incrociano personaggi, storie, oggetti di un immaginario italiano in cui molti dicono di riconoscersi.

Quello che leggo durante i miei concerti “Stories” sono solo pochi capitoli di un libro che desidero pubblicare più avanti.»

Sulla raccolta di poesie torneremo più avanti… A quale età si fermano i racconti?

«Finora, agli undici anni. Sono racconti nati da un’urgenza, in cui avvertivo l’esigenza di raccontarmi per la prima volta tramite quel processo creativo che è la scrittura, anziché la musica, come ho sempre fatto. È stato anche – e questo l’ho capito solo dopo – come entrare nel mio albero genealogico e aprirne i rami, spalancarli alla luce con tutto ciò che di terapeutico questa operazione comporta.»

Col senno di poi, come ti sei rivista da piccola?

«Mi ha fatto tenerezza quella bimba, che aveva una visione magica delle cose e che riusciva a salvare il mondo che la circondava e anche le cose e le situazioni più dolorose grazie a questo sguardo.»

A proposito dello sguardo magico, è necessario ricorrere agli occhi nuovi dell’infanzia per riconoscere la magia dell’oltre che ci sta attorno? O si riesce anche con occhi adulti?

«Be’, credo che si riesca mantenendo in noi qualcosa dei bambini che siamo stati e integrandolo con la consapevolezza che abbiamo da adulti. D’altro canto le grandi dottrine filosofiche, le grandi religioni dicono che “Se non ritornerete come i bambini…” ed è bello riuscire a mantenere quello sguardo pieno di meraviglia e di stupore rispetto a sé stessi e agli altri e al mondo. Quella attitudine alla libertà e al gioco, che in fin dei conti ci invita a metterci in gioco.»

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Ritornando all’espressione “abbraccio”, reale e metaforico, qual è l’ultimo che hai donato? E a quale non potresti mai rinunciare?

«Sono una persona che tende a toccare molto; mi piace molto l’abbraccio, con le amiche, con gli amici… L’abbraccio più intenso che ricordo nelle ultime settimane è stato quello a Ricotta, la cagnolina che vive con me da 14 anni e che il mese scorso sembrava dovesse abbandonarci da un momento all’altro. Ricordo c’è stata una notte in cui ho pensato che non ce l’avrebbe fatta; c’era questo sguardo di lei che mi colpiva, è uno sguardo “altro” quello degli animali, che non sappiamo mai fino in fondo che cosa ci dica, ma che è vero. E quella notte sembrava si stesse congedando. L’ho presa in braccio e l’ho cullata per molti minuti. Non distoglievamo lo sguardo l’una dall’altra, mentre la abbracciavo. Ecco, quello è l’abbraccio più intenso… Quello, invece, a cui non saprei proprio rinunciare è l’abbraccio della musica. Sarà banale, ma non riuscirei a rinunciare alla musica, intesa anche come sguardo introspettivo, che mi ha reso sempre più presente a me stessa.»

Quando pensi alla musica, hai in mente un brano particolare a cui fare riferimento?

 

«Sì, ma non dipende tanto dal brano, quanto piuttosto da come sono io in quel momento. Il più delle volte non sono brani cantati da me, ma brani che ascolto, che mi fanno compagnia per un periodo. Dipende dalla giornata, dal periodo che sto vivendo.»

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… E ci sono periodi e periodi. A questo punto del racconto, permetteteci una piccola digressione su “Alphonsomangorey”

«Alphonsomangorey è un frutto indiano molto dolce e molto colorato. Queste poesie, invece, hanno a che fare con un periodo – per me – molto doloroso. In qualche modo parlano della mia “Opera in nero”, o, come la chiamano gli alchimisti, Nigredo, cioè l’inverno, una tappa della vita caratterizzata dall’archetipo dell’ombra, dove entriamo in contatto con gli elementi che non conosciamo di noi stessi e che stanno nell’oscurità, nell’ombra appunto. È un lavoro terribile! È la fase della scomposizione, di tutto ciò che è identificazione e, apparentemente, individualità.

È una fase di abbandono, in cui ci si ritrova a dover morire continuando a vivere. È un processo che richiede forza, ma soprattutto volontà! La Nigredo è la morte apparente dell’Anima. Ma è anche quella fase importantissima dove il bronzo si trasforma in oro, dove noi nasciamo a nuova vita e luce. Ecco, io mi trovavo laggiù, con una parte molto dolorosa della mia vita e avevo bisogno di un rito – a me piacciono molto i rituali: il rito è stato quello di scrivere. Quando sono giunta alla fine delle poesie, mi sono accorta che tutto quel materiale era una specie di catarsi, in cui raccoglievo quella fase di trasformazione, di putrefazione di materia diventata poi oro. Per cui mi sono detta: “Chiamiamole Alphonsomango”, che è invece un frutto – come ti dicevo prima – molto dolce e arancione, succulento, pieno di vita. E così è stato.»

Dunque, nero dark. In una società abbrutita da storie quotidiane di “ordinaria follia”, si può credere ancora nell’happy end? E tu ci credi?

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«Sì, ci credo. Non penso che riusciremo a vederlo noi l’happy end, ma ci credo. Se non ci credessimo, non avrebbe senso stare qua. Sono sempre più convinta, però, che la rivoluzione è personale, interiore; non credo più tanto nei fenomeni di aggregazione, nella gente che pensa di poter cambiare qualcosa con una rivoluzione fatta dal di fuori.

Penso che siamo qui per chiederci continuamente come evolverci a livello personale e che sia infantile dare la colpa agli altri o al mondo di ciò che di sgradevole ci capita. Gli altri sono solo lo specchio di noi stessi e incontriamo le persone, non tanto per cambiarle, ma per cambiare ciò che di noi è necessario cambiare. Quindi, sarebbe interessante cercare un happy end nella nostra vita.»

“Stories” di vita come sensazioni indimenticabili che si uniscono alla musica. Qual è stato il criterio di scelta dei brani?

«Li ho scelti unicamente in base a ciò che, in quel momento, mi faceva piacere cantare. Non c’è stato nessun criterio del tipo: questo brano ci sta bene, quest’altro non dovrei farlo. È stato come prendere un recipiente e da lì attingere: infatti, ci sono dentro le cose più disparate. Sicuramente i miei brani, ma anche quelli di autori che non avevo mai interpretato; brani italiani e addirittura un pezzo di Kylie Minogue e uno dei Nirvana, uno di Madonna, l’altro di Chico Buarque. La compagine strumentale e la voce dona coerenza a tutto…»

Ce ne sono stati alcuni che – in corso d’opera – erano rimasti lì sulla soglia della scaletta e hai poi deciso di far entrare?

«Sì, Essenzialmente, il primissimo brano di cui ho scritto il testo, un testo un po’ stralunato, molti anni fa.»

Al netto del cuore di mamma, per cui tutti i figli sono uguali, qual è la storia che preferisci raccontare e perché?

«Quella della Fiat 127 berlina. Di questo viaggio che facevamo, quando con la mia famiglia partivamo dal Veneto per venire in Sicilia. Una Fiat gialla in cui stavamo dentro in sei, con quel bombolone di gas sulla cappotta… Siamo stati tutti emigranti e negli anni ‘70 quasi tutti si spostavano facendo lunghi viaggi dentro auto piccole, magari con famiglie numerose. Molti vengono da me dopo averlo ascoltato, dicendo di riconoscersi, di ricordare e sempre mi stupisco di quanto anche noi ci siamo spostati, abbiamo viaggiato, di quanti italiani siano stati dei piccoli emigranti, appunto.»

Siamo più felici adesso, o lo eravamo prima?

Patrizia Laquidara Stories03_musicaintorno«Il punto è che noi non riusciamo mai veramente a cogliere il presente. Allora non pensavamo a quei viaggi come a qualcosa di bello, addirittura poetico. Era il mio sentire di bimba che lo trasformava così. Non nego i dolori e le complicazioni di questi tempi così difficili da comprendere, ma non credo che questo periodo storico sia peggio di altri. Basta cercare su Wikipedia un anno qualunque e incontriamo terrorismo, anni di piombo, povertà, guerre. Molti assetti mondiali stanno cambiando velocemente e questo richiede grande comprensione, pazienza, lo stare svegli sulle cose. Non so quanto fossero più felici i miei nonni siciliani, poverissimi; quanto più felici le donne costrette e a stare in casa senza studiare; quanto più felici coloro che la guerra se la sono ritrovata in casa e non alle porte. Tendo quindi a non lamentarmi. Fuori da qui, dall’Italia, la gente vive per lo più con il coltello tra i denti, la sopravvivenza è faticosa. Ho visto gli schiavi della canna da zucchero, la gente nelle favelas senza letti per dormire, i bambini con le pistole per strada; le donne nella maggior parte del mondo non possono camminare da sole di notte. Quindi mi sento una privilegiata e non voglio dimenticarlo.»

Concentriamoci ancora sui tempi andati e su te piccolina. Che storie amavano raccontarti?

«C’era mia nonna che mi raccontava sempre la fiaba di Hänsel e Gretel e quella di Pollicino. E c’era anche una zia molto anziana che mi raccontava invece tantissime storie di cronaca, storie vere, storie di donne, piccole biografie… I racconti sono soprattutto legati a queste due grandi vecchie della mia vita, mia nonna e mia zia; alle loro filastrocche, ai racconti, alle storie inventate o lette. Io però amavo anche leggere, soprattutto la sera, mentre le mie tre sorelle dormivano e io tenevo la lampadina del comò accesa fino a tardi… per questo mio padre mi regalò un libro di favole scritto da Leonardo da Vinci. I protagonisti erano quasi sempre animali che morivano miseramente o violentemente. Io ne rimasi delusa, affermai che quel Leonardo Da Vinci non mi piaceva affatto, non potevo credere in un mondo dove non esisteva salvezza alcuna.»

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Sempre a proposito di racconti, che tipo di esperienze vorresti tramandare alle generazioni future, ai tuoi figli?

«Penso che scrivere di me, e farlo senza troppi compromessi, senza troppi filtri, sia già un modo di tramandare qualcosa. Trasmettere la passione, il desiderio di riuscire a fare ciò che più mi piace, che mi dà godimento. Ecco, l’insegnamento che i più adulti potrebbero darci sarebbe quello di riuscire a seguire il piacere, la felicità. Perché la felicità è sempre legata, in qualche modo, al piacere. Fare dunque le cose che ci procurano piacere, ma non quel piacere che ci hanno venduto come qualcosa di negativo, di sporco, o il piacere da consumare; piacere inteso come desiderio che ci nutre, che si può coltivare nell’anima, che dà direzione alla nostra vita. Se ognuno di noi fosse guidato a fare le cose che ci danno felicità, allora la nostra società sarebbe migliore. Ecco, se avessi dei figli, mi piacerebbe tramandare loro proprio questo.»

Qual è l’ultima volta che sei stata felice?

«Quando sono stata innamorata. Credo che gli innamorati siano dei privilegiati. Anche solo per un momento, vivono dentro uno spazio “altro”; come dice Prévert: “I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno, essi sono altrove molto più lontano della notte, molto più in alto del giorno, nell’abbagliante splendore del loro primo amore”.»

Chi è Patrizia Laquidara oggi? Nel biglietto da visita cosa c’è scritto?

«Prima di tutto una donna; poi – credo – un’artista, anche se è una parolona tanto grande che uso sempre con un po’ di disagio; infine un’amica. Non mi piace il potere, amo la sorellanza. E infine ho un motto, che è quello della mia amica Giuliana (Musso, ndr): “La verità rende liberi”. Sempre!»

 

 

Gino Morabito

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