MARIO LUZZATTO FEGIZ, L’ULTIMO GAGLIOFFO ROMANTICO SU RADIO 2

Mario Luzzato Fegiz 01_musicaintorno«Ti piace “gaglioffo”?» tirandomi dentro il vortice di quell’inverosimile racconto «Da bravo gaglioffo, mi sono presentato col bambino e lei non mi ha cacciato via… Da quell’incontro, poi, ho quasi ricavato 20 articoli, puoi immaginare… uno che fa questo mestiere vive di rendita una vita.»

La lei in questione è una certa Anna Maria Mazzini, anzi, come “sanno tutti i doganieri di Chiasso”, Mina Mazzini all’anagrafe; il gaglioffo della vicenda è, invece, Mario Luzzatto Fegiz, con troppe zeta nel cognome, come dice il mio conterraneo Pippo Baudo. Galeotto fu il programma radiofonico “Parola d’Artista”, il nuovo appuntamento quotidiano de “la rockstar dei critici musicali” in onda alle 12:35 su Rai Radio 2. Un breve scambio di mail, un numero di telefono (il primo), poi un altro (il secondo, per ogni evenienza); infine il giorno, l’ora, l’appuntamento.

Dopo una breve vacanza a Punta Secca, incantevole borghetto marinaro, reso ormai celeberrimo dalla fiction Il commissario Montalbano, io e la mia Laura avevamo fatto tappa da alcuni amici a Casuzze, 3 km di pedalate da piazza Torre: ravioli fatti in casa da Bruno, con ripieno di ricotta e granella di pistacchi; salmone gratinato, sfornato fumante da Daniela; spumeggiante chiacchierata sulla vita universitaria e gli abiti da sposa con Giuliana, poco più che diciannovenne in carriera.

Milano 27/02/03 Libreria Rizzoli le voci di Sanremo con Ornella V

Ore 15:00 meno qualche minuto: chiedo scusa, mi alzo dalla tavola per appartarmi dove non potessi essere disturbato, impugno il telefono e chiamo: «Fegiz, buon pomeriggio», spalancando la finestra a picco sul mare. «Eccomi!» la voce di rimando.

Da lì la meravigliosa immersione all’interno di un patrimonio artistico-musicale fatto di vita vissuta, aneddoti incredibili, romanticismo anni ‘50, invidiabili esperienze da condividere e tramandare alle nuove generazioni: Bruce Springsteen, Tina Turner, Nick Cave, Stevie Wonder, Paul McCartney, Fabrizio De André, Lucio Dalla, Mina, Modugno, Battisti… risalgono dalle profondità inarrivabili che li hanno eternizzati per sempre nella memoria collettiva e diventano persone in carne e ossa che fanno le schitarrate la domenica in casa, ora chiamano per raccontarti la tragica fine romantica di un tenore, ora accudiscono tuo figlio di 4 anni.

L’invidia è un sentimento che non mi appartiene, ma devo confessarvi che – immerso anch’io in quel racconto fantastico che ha fatto da colonna sonora alla mia intera esistenza – beh, un po’ ho rosicato.

«Ti leggerò,» salutandomi Fegiz divertito, «buona giornata.»

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Da “Per voi giovani” a “Non è un paese per giovani XL”, quali sono a tuo insindacabile giudizio quelli che potrebbero essere definiti “cambiamenti epocali”, nella nostra società prima e in campo musicale dopo?

«La risposta è facile: mercato globale, Internet, con la rapidità di circolazione delle idee che ne deriva. Il progresso, poi, in certi casi, sembra destinato a dover cambiare o uccidere un mezzo. Quando è arrivato l’aereo abbiamo detto ‘Il treno? Sì, figurati, il treno!’. Il treno adesso si prende per andare a Roma, perché è competitivo e viaggia ad alta velocità. Un altro esempio è la radio, destinata ad essere uccisa dalla televisione, da Internet. No, anzi! La radio con Internet ha avuto uno sviluppo pazzesco: quindi, un mezzo apparentemente obsoleto, avvalendosi delle nuove tecnologie, ha trovato una nuova vita. Comunque sia, il cambiamento davvero epocale è Intenet. Nella musica, invece, andiamo un po’ diversamente: ci sono dei momenti nella storia in cui la musica diventa lo specchio delle ansie della coscienza collettiva, e ne diventa la colonna sonora. Questo è successo tra la fine degli anni ‘50 e l’inizio dei ‘90. Adesso non è che ci siano canzoni più brutte, solo non si ha più quella saldatura. Non sappiamo esattamente perché questo accada, è così. La musica di oggi non è più brutta di quella di ieri, anche se la gente come me o Gianni Minà dice che prima era un’altra musica, più bella, quando le pesche sapevano di campagna e i preservativi non si piegavano… Cambiamento epocale è stato sicuramente l’avvento dell’elettronica, quando cominciarono Battiato, John Cage e ci hanno spiegato che esistevano altri registri, altre timbriche, divenendo praticamente illimitate. Oggi ognuno si fa il proprio strumento…»

Rientro nella conversazione, virando leggermente di poppa. Al volo due brani che hanno segnato la storia della musica italiana e perché.

«Sicuramente “Volare”, perché spezzava un po’ gli schemi tradizionali del ritornello, e un’altra è “Emozioni” di Battisti, perché a cavallo tra canzone d’autore e pop: “E guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere se poi è tanto difficile morire”.»

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Rai Radio 2, interviste “vintage”, un registratore a nastro e il fascino tutto analogico delle voci di personaggi del mondo della musica e dello spettacolo che tradiscono, ora nostalgia, ora dolore, rabbia, stupore, filosofie calcistiche: ovvero, 20 anni di “Parola d’Artista” confessata a Mario Luzzatto Fegiz. Che tipo di selezione è stata fatta dal tuo archivio sonoro?

«Sono stati utilizzati soprattutto i fine bobina. All’epoca le interviste le facevo contemporaneamente per il Corriere della Sera e per Radio 2, una posizione anomala ma di grande privilegio che ho avuto nel corso della mia carriera. Succedeva che le domande più imbarazzanti le scrivessi sempre per ultime, così, se mi sbattevano fuori, intanto mezz’ora di registrato già ce l’avevo. I fine bobina sono interessanti perché ci sono delle domande alla Marzullo, diciamo, quelle domande che sono up to date, non collegate a un fatto specifico. Ad esempio, a Ramazzotti, che si era appena separato dalla Hunziker, chiedo: “Hai un consiglio da dare ai giovani?” e lui: “Sì, non sposatevi! Non rinunciate alla vostra individualità”. C’è un’intervista a Lory Del Santo, che racconta senza filtri quanto la prese male a scoprire di essere incinta di Connor da Eric Clapton. È stata una scelta faticosa, perché bisognava prendere cose non collegate al presente, ma up to date, come dicevamo. A Paolo Conte chiedo: “È vero che su quel palco sei felice?” e lui spiega la felicità del palco. È stato un lavoro pazzesco, perché poi le registrazioni si sono ridotte a 3-4 minuti l’una, ma ho voluto fissarle nel tempo.»

A risentirle oggi, su un supporto ormai introvabile come il registratore a nastro, quali sono le registrazioni che ti fanno vibrare, che ti emozionano maggiormente?

«La canzone che mi ha più commosso è stata “Caruso” di Dalla, che ho visto nascere: Lucio mi telefonava e mi leggeva questi versi, e mi venivano i brividi. Due canzoni ho visto nascere nel rapporto con Dalla, “Felicità” e “Caruso”: gli ultimi giorni di quest’uomo, che lui immagina malato di cancro alla gola, che sfida il dolore per esprimere l’amore verso la giovane donna di cui è perdutamente innamorato. E lì il colpo di genio, quando dice “potenza della lirica dove ogni dramma è un falso”. Però di falso, quella sera, non c’è niente; non c’è uno scenario di cartapesta come all’opera: è vera la luna, è vero il dolore, è vera la morte che arriva. In quei versi e in quella musica c’è uno struggente addio al mondo…

Mario Luzzato Fegiz 05_musicaintornoL’altra canzone che mi commuove molto è un brano poco noto di Fabrizio De André, che si chiama “Parlando del naufragio della London Valour”. Racconta di questa nave filippina alla deriva, dove l’equipaggio e i passeggeri cercano di salvarsi con la teleferica. La teleferica non funziona e la moglie si schianta contro gli scogli; allora il capitano, che è suo marito, si toglie la vita. Versi da brivido: “E la radio di bordo è una sfera di cristallo/Dice che il vento si farà lupo, il mare si farà sciacallo/E le ancore hanno perduto la scommessa e gli artigli”. E questa frase mi è venuta in mente nel corso dell’ultima telefonata che facemmo, era Natale…

… poco prima che Fabrizio morisse l’11 gennaio seguente.

… Invece, dal punto di vista concertistico, i momenti più emozionanti sono stati la prima volta che ho visto a Bruce Springsteen a Dublino, in un immenso parco; poi oserei dire il concerto di Gianni Morandi nella basilica inferiore di Lourdes. Andai nel pomeriggio a fare un sopralluogo e mi chiedevo come mai ci fosse tutta quella distanza tra il palco e le prime file. Compresi dopo: ci stavano le barelle. E Morandi che canta, di fronte a dei malati terminali, “uno su mille ce la fa”… capisci.»

Tu ne hai già citati alcuni, altri nomi li faccio io: Gaber, Vasco, Zucchero, Califano, Mango, De Gregori, Ligabue, Venditti, Battiato… Qual è stata l’intervista più difficile da portare a casa?

«Con gli italiani direi nessuna difficoltà. Ricordo che qualche difficoltà l’ho avuta inizialmente con Paul McCartney, però poi ha collaborato molto bene; con Nick Cave, col quale ci capivamo poco… L’intervista più difficile da portare a casa? Ti dirò, generalmente, non è accaduto. Diciamo, invece, che a volte ho dovuto limitarmi a fare due domande e costruire un pezzo molto dilatato: ad esempio, con Stevie Wonder a Zurigo; un’altra volta con Tina Turner sempre in Svizzera. In quel periodo ero il direttore di una collana per la Sperling & Kupfer e avevo appena pubblicato il libro “I, Tina”: con quella scusa l’ho avvicinata e abbiamo parlato due minuti…

Beh, forse, ora che ci rifletto un po’, la più difficile in assoluto è stata Mina. Lì ho fatto una cosa incredibile: io e mio figlio, che all’epoca avrà avuto 4-5 anni, saremmo dovuti andare a Swissminiatur, un parco divertimenti alla frontiera con Chiasso; lei stava sicuramente registrando. Mi dissi che, se avessi portato mio figlio con me, Mina non avrebbe avuto il coraggio di cacciarci, perché adora i bambini. E allora da vero gaglioffo, ti piace “gaglioffo”?» tirandomi dentro il vortice di quell’inverosimile racconto «Da bravo gaglioffo, mi sono presentato col bambino e lei non mi ha cacciato via, ma non mi ha cagato quasi più di striscio, intenta com’era a coccolare il bambino. Da quell’incontro, poi, ho quasi ricavato 20 articoli, puoi immaginare… uno che fa questo mestiere vive di rendita una vita. Mi ricordo che mi offrì una Coca-Cola e mi disse: “Scrivi che mi chiamo Mina Mazzini anche all’anagrafe e non Anna Maria Mazzini, lo sanno tutti i doganieri di Chiasso”. Ricordo che scherzavamo sulla leggenda che Sinatra non provasse mai il microfono… e, ogni volta che le dicevano: “Fammi una prova!” lei rispondeva: “Sinatra non prova, non provo neanch’io” (imitando divertito la voce di Mina, ndr). È stato l’unico incontro con lei, fu memorabile.»

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Invece, quella chiacchierata tanto desiderata e mai fatta?

«John Lennon!» senza pensarci un attimo «John Lennon… L’intervista più dolorosa, invece, è stata un fatto recente: presi una serie di colloqui riservati avuti con Gino Paoli e li ho trasformati in un articolo, quando è scoppiato lo scandalo SIAE, lo scandalo del denaro estero… e lì mi son giocato un amico. Ma purtroppo noi giornalisti siamo un po’ come i carabinieri, sempre in servizio. Mi è dispiaciuto perché, per uno scoop, che poi scoop non era più di tanto, mi sono giocato un amico che in molte circostanze mi aveva aiutato. Io ho imparato molte cose dai cantautori…»

La prima che ti viene in mente?

«L’importanza di una mediazione poetica rispetto alla vita. La vita è, a volte, abbastanza stupida e inutile, e la forza dell’arte è la mediazione poetica con la quale viene rappresentata. Col tempo ho imparato ad ascoltare, a non essere troppo presuntuoso, a mettermi nei panni degli altri, a non essere arrogante… Io ero arrogantissimo di partenza: c’è un video delle teche Rai in cui dico a Modugno – io giovane sbarbato ventenne allora dipendente Rai e il mio capo era Renzo Arbore – credo fosse “Piange il telefono”, non ricordo bene quale canzone di preciso… beh, io dico a Modugno che era patetico. Uno stronzetto di vent’anni che si permette di dare del patetico alla leggenda della musica italiana.»

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Prima si parlava di interviste da portare a casa… Per “la rockstar dei critici musicali”, la sala stampa dell’Ariston è un po’ come il vecchio cottage di campagna o il villino al mare: insomma, quel luogo a cui fare ritorno almeno una volta all’anno. Per immergersi in una settimana di ordinaria follia festivaliera, incontrare vecchi amici… e poi cosa?

«È più che altro un mercato. Ormai scrivo di Sanremo relativamente poco. Il Festival è ancora quel luogo dove accade tutto e non accade niente; a Sanremo, se vuoi delle notizie, devi andare a cercarle, per cercare di portartele a casa. La sala stampa è la fiera delle vanità, però si fanno affari: io, per esempio, ho rimediato qualche serata per il mio libro, e anche questo nuovo programma di Radio 2 è nato proprio lì. Ero in terrazza a fumare, quando vedo dei ragazzotti con il pass Radio 2 grande come un lenzuolo, non li conoscevo ma istintivamente attacco bottone: “Ma che invidia! Come mi manca la radio…”. Allora quelli di rimando: “Il nostro direttore è un suo fan”. Il giorno dopo cammino per la sala stampa, quando incontro una bella ragazza che mi dice: “Sono il direttore di Radio 2, mi chiamo Paola Marchesini, quando vuole che cominciamo?” Risposi: “Domani.” Come a Hollywood! Sono cose che ti fanno piacere. Nel 2009 fui mandato via da Mucciante: quando prese la direzione di Radio 2, la prima cosa che fece – a contratto firmato – fu cacciarmi via… e adesso l’idea di “Parola d’Artista”. Con una fatica improba, ho messo insieme queste 25 puntate a cadenza quotidiana, che – a quanto pare – ai dirigenti son piaciute. Ora speriamo piacciano anche ai radio ascoltatori.»

Dal Festival di Sanremo l’assist è servito. Come dice il mio conterraneo Pippo Baudo, “troppe zeta nel cognome”, il tuo ovviamente. Dopo il quarto segreto di Fatima, vuoti il sacco su 50 anni di musica, giornalismo e cultura. Ritieni che, dopo averlo fatto direttamente o indirettamente dalle pagine del Corriere e dalle frequenze di mamma Rai, arrivati a una certa età, sia giusto celebrare sé stessi?

«La memoria storica è un elemento importante; i popoli, che non hanno una memoria storica, sono rimasti de barbari. Più che celebrare sé stessi, a un certo momento, in certi rari casi, da testimoni del nostro tempo diventiamo anche protagonisti. Renato Simoni, per citarne uno, dirigeva teatri e faceva contemporaneamente il critico teatrale. Credo sia giusto e doveroso, non tanto celebrare sé stessi, quanto piuttosto trasmettere, condividere quello che è accaduto. Per i miei 70 anni avevo in programma di uscire col libro, cosa che ho fatto; poi, vedendo il titolo di questo programma, mi sono reso conto della singolare presenza della parola “giovani”: è chiaro che io non sono aggiornato su molte cose, su molti rapper so poco…

I “rappettari” sono i nuovi cantautori. L’unico difetto è che si tratta di una musica fortemente manierista, come il liscio.»

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Eccolo un altro di quegli “epitaffi” che rimarrà nella storia! A proposito, rileggendo alcune tue citazioni divenute ormai leggendarie, sono rimasto colpito in particolare da una su Lucio Battisti, che condivido con te: “capace di rinnovare la canzone italiana come nessuno seppe fare prima e dopo”. Era il 1998. Oggi sei ancora dello stesso parere?

«Sì, sì, perché lui capì che esisteva un formato disco. Cercherò di spiegarmi meglio: quando arriva la tivù, la tivù si limita a trasmettere commedie, film, varietà… tutte cose che già esistevano: semplicemente vengono inserite in qualche modo dentro la “scatola magica”. Ben presto si realizza, però, che la tivù è un mezzo che ha bisogno di un proprio linguaggio ad hoc; allo stesso modo Battisti capì che la forma-disco è diversa dalla forma-live (lui come live non era un granché). Era molto appassionato delle nuove tecnologie e, mentre Mogol scriveva dei testi meravigliosi (ma anche delle cazzate, perché, se si guarda il repertorio, c’è un po’ di tutto; loro non ricercavano il successo, ci inciampavano ogni tanto), Battisti – dicevamo – capisce che esisteva un linguaggio-disco, un linguaggio musicale completamente diverso da quello che era il contesto dal vivo… pensa alla doppia voce in “Pensieri e parole”…

Battisti l’ho conosciuto – lo racconto anche nel libro. Ero diventato capo dell’appalto musicale di “Per voi giovani”, e io di musica capivo poco (molti dicono che non ci capisco niente anche oggi), i primi visitatori che ricevetti, in quell’ufficio romano vicino al bar Vanni, furono due signori che rispondevano ai nomi di Mogol e Battisti. Misero su la lacca di “Che ne sai tu di un campo di grano, poesia di un amore profano”, e io la trovai fantastica: roba d’avanguardia, che non si era mai sentita prima. Faceva le schitarrate la domenica – estate ‘71 – e si andava a casa sua, per sentirlo cantare. Si percorreva la statale 36, tutta infestata di puttane e fuochi accesi… e allora lì ho capito come erano nati i versi “… e guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere se poi è tanto difficile morire”. Capii che ogni canzone era figlia di un luogo e di un tempo

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Prima di salutarci, dopo la meravigliosa immersione all’interno di un patrimonio artistico-musicale fatto di vita vissuta, aneddoti incredibili, romanticismo anni ‘50, invidiabili esperienze da condividere e tramandare alle nuove generazioni… ti chiedo ancora: Mario Luzzatto Fegiz in una riga.

«Perderò la trebisonda pel piacer d’andare in onda.»

 

Gino Morabito

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