MALIKA AYANE DA BRIVIDI!

Da brividi! L’acustica della sala rimandava un’alchimia perfetta di piano e voce. Nota dopo nota il fruscio delle casse disvelava l’apnea dei presenti, sospesi nella magia di un cantato avvolgente, sensuale, raffinato. Malika Ayane da brividi!

“Sogni tra i capelli”, “Stracciabudella”, “Nodi”… tutte tessere di “Domino”, il nuovo progetto discografico, che vede la luce a due anni e mezzo di distanza da “Naïf”. Un disco che, nelle sue piccole quotidianità, in quelle precise combinazioni di luci e rumori, riesce a cogliere tutte le sfumature della musica. Pezzi di vite altrui che, nella sequenza inarrestabile di cambiamenti a catena, diventano #pezzidinoi.

La voce di Malika ci rapisce, il pathos cresce, gli applausi scrosciano. Il Politeama di Genova, l’Augusteo di Napoli, il Metropolitan di Catania e poi ancora Palermo, Perugia, Bologna, Udine, Brescia… sono alcuni degli appuntamenti per diventare protagonisti del grande gioco della musica dell’artista italo-marocchina. Poi il casco biondo platino e i tatuaggi, che strizzano l’occhio da uno smanicato nero, cedono il passo alla personalità solare e profonda di una donna con cui è stato piacevolissimo confrontarsi. Gambe accavallate, un cocktail a fior di labbra, quel sorriso ammaliante e qualche confidenza che non guasta.

Classe, eleganza, raffinatezza, il tutto racchiuso dalla volontà di essere pregiati: signore e signori, Malika Ayane.

Una band di oggi come se suonasse un repertorio di ieri, melodie eleganti, il Jazzanova Recording Studio di Berlino… e viene fuori “Domino”. Il tuo personalissimo gioco per cogliere le sfumature della musica?

«Assolutamente sì! Il cinema, la letteratura, la musica stessa, ma anche la pittura prima che inventassero la fotografia, passa tutto dalla vita. La vita è continua ispirazione, poi in qualunque cosa la trasformi è solo positivo.»

Quindi Malika per te solo tasti bianchi…

«No, no, eccome! Io sono quella delle dissonanze spaventose. Anzi metterei un sacco di altri tasti neri e poi grigio scuro, per avere ancora nuove sfumature.»

Un disco che, nelle sue piccole quotidianità, in quelle precise combinazioni di luci e rumori, parla d’amore. «Perché l’amore c’entra con tutto.» Oggi questa parola con che cosa fa rima nella tua vita?

«… Con parto in tournée sono felice. Sembra una di quelle risposte ruffiane ma, in questo momento, fa rima con le persone che mi vengono ad incontrare, città per città, raccontandomi le loro storie: alcuni arrivano con dischi da lasciarmi, ma sono sempre meno, perché la maggior parte viene con le foto dei bambini. Oggi l’amore corrisponde con le persone che mi adottano.»

… Relazioni umane, rapporti… Per tua figlia, 13 anni, sei il primo modello: ti studia, guarda se ti arrendi, come pensi di andare avanti. Qual è il futuro che le auguri? E che tipo di testimonianza vorresti riuscire a trasmettere alle nuove generazioni?

«Non appena ne ho la possibilità, cerco sempre di parlare con i ragazzi, non necessariamente con mia figlia. Loro sono nativi digitali e hanno un rapporto con l’apparenza che noi non abbiamo e non capiremo mai, mentre per loro è naturale. Per me, ad esempio, è una violenza, ogni volta, fare una foto da pubblicare, perché se non pubblichi non esisti. Loro, talvolta, hanno più difficoltà a ricordarsi che possono essere semplicemente qualunque cosa, il pompiere, il falegname, basta solo volerlo! Alle nuove generazioni auguro di poter diventare qualunque cosa vogliano nella vita, con fatica e lavorando sodo.»

Ogni settimana in un cinema diverso, per far sì che Mia “prenda possesso” della sua città.

«Sono per metà marocchina e la maternità è qualcosa che viviamo ancora in maniera medievale: la mamma controlla qualsiasi cosa. Prima ci sono gli impegni materni, poi si organizza il lavoro intorno a quelli, e il lunedì sera io e Mia abbiamo l’impegno del cinema. Tutti i lunedì sera, qualunque cosa accada, noi andiamo al cinema… proprio per quel senso di appartenenza – certo – perché le città le devi possedere, per poter poi andare in giro come Joyce, serenamente a perderti mentre sei immerso nei tuoi pensieri. Questo prova che, se hai i tuoi punti di riferimento, quando ti risvegli dalle passeggiate introspettive, ti basta alzare la testa per sapere perfettamente come raggiungere un altro luogo. E 13 anni è un’ottima età per impararlo!»

E tu a cosa senti di appartenere?

«A tutto quello che faccio! Anche se penso che la cosa più difficile, in fondo, sia proprio riuscire ad appartenere a sé stessi, nel senso più alto.»

Nel senso che hai trovato il tuo posto nel mondo?

«Sono tutti miei posti, mi appartengono tutti! Io sono una persona che, dopo tre giorni, se la lasci in un posto, ci si potrebbe prendere una casa: conosco i commessi del supermercato, faccio amicizia anche con i mattoni. E mi piace che sia così, mi piace innamorarmi continuamente di ogni posto nel mondo.»

Non appartieni allora a quella categoria di dive che, per non farsi riconoscere, gira per la strada tutta incappucciata?

«Macché! Anzi adoro l’estero, perché non mi fila nessuno e posso fare quello che mi pare e, anzi, se la gente mi guarda, lo fa perché ho delle espressioni, in quanto essere umano, non come involucro. Penso che poi, a lungo andare, a meno che tu non sia Elton John, ti rovini il sentirti molto personaggio e poco quello che c’è dietro la maschera.»

… A proposito di fare quello che ti pare, tre giorni a settimana fai pugilato, «impari a conoscere il tuo corpo, a stare dove sei.» Nella tua vita più i colpi subiti o quelli messi a segno?

«La prima cosa che ti insegnano a pugilato è che non sei niente, non sai neanche stare in piedi. Questa è la prima cosa che capisci, un po’ come nella danza. Allora devi imparare a tenere una postura che ti consenta, sia di dare dei colpi che di incassarli, perché il segreto è riuscire a saper dare i colpi mentre ne stai prendendo tanti. Quindi non è quanti ne prendi e quanti ne dai, ma come li prendi e come li dai.»

 

Gino Morabito

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