AFTERHOURS: FOLFIRI O FOLFOX, FARMACO PER LE ANIME

Afterhours 01_musicaintornoLa formazione che più di tutte incarna l’idea di rock band italiana, indissolubilmente legata a quel terreno fertile che sono stati gli anni ’90, è senza alcun dubbio quella degli Afterhours. A quasi un anno dall’uscita di Folfiri o Folfox, intenso e complesso album che rappresenta l’undicesimo capitolo discografico dei milanesi in trentadue anni di carriera…

… abbiamo chiesto delucidazioni a Rodrigo D’Erasmo (violinista e autore) a proposito della ricezione di questo disco ambizioso, del suo contenuto e della sua trasposizione live, fino all’immancabile questione della presenza di Manuel Agnelli alla scorsa edizione di X Factor Italia.

Benvenuto sulle pagine di Musica Intorno. Sono passati nove mesi dalla release di Folfiri o Folfox: i dati di vendite e quelli dimostrati dalle classifiche nazionali evidenziano il successo dell’album. Ma a prescindere dal discorso quantitativo, come pensi che sia stato recepito l’album dai fan degli Afterhours?

«Molto bene, in maniera abbastanza inaspettata. Quando si dà vita ad un album molto intenso e profondo ci si augura sempre che venga compreso e che arrivi a quante più persone possibili. Allo stesso tempo però eravamo consapevoli di aver fatto un album – almeno in alcune parti – non proprio semplice e d’immediata attenzione. Alla fine è stato recepito dalla gente in maniera entusiastica, credo perché molti ci si sono riconosciuti. Molti ci hanno scritto durante la prima fase di promozione, dicendoci che quest’album aveva fatto loro del bene, e questo ha un valore gigantesco. Dare quel senso ad una propria creatura facendosi capire rappresenta qualcosa di più che il solo supporto discografico e artistico, si arriva ad un altro livello che fa del bene, oltre che all’ascolto, anche alle anime degli altri, e questo dà una gioia immensa. Poi abbiamo visto anche nei concerti che i brani sono stati accolti molto bene e sono entrati già nell’immaginario dei fan. Magari non lo sono tanto quanto i grandi classici della storia degli Afterhours, ma di sicuro in essi non c’è il gap che si è verificato in altre occasioni in cui si sentiva maggiormente il peso dei suddetti classici e i nuovi brani erano digeriti con più difficoltà. Stavolta invece si sono integrati anche in scaletta in maniera molto naturale.»

Afterhours 02_musicaintornoLa tematica che lega i brani dell’album è quella speculare della morte e della malattia, contrapposte alla vita e alla “cura”. Dato che Manuel Agnelli è l’autore di tutti i testi, in questo caso più che mai legati alla propria esperienza personale, quanto contano le vicende degli altri membri della band nella scelta e nella resa del mood dell’album?

«In realtà come molla propulsiva direi nulla. Manuel scrive per dare voce alle proprie urgenze e necessità e credo che ognuno abbia il suo percorso, la sua modalità e trovi in questa modalità la chance di essere il più efficace, più sincero e più comunicativamente potente possibile. Per Manuel ciò che conta è proprio raccontare le proprie vicende e il proprio vissuto. In ogni caso, appena ha identificato e accentrato l’argomento di cui voleva parlare l’ha condiviso con noi e ci siamo tutti sentiti complici, perché le tematiche che andava a toccare purtroppo quando diventi grandicello cominciano a far parte della vita di tutti: la perdita, il dolore, il distacco, una serie di sconfitte personali fanno parte delle nostre esistenze, che anche se fortunate – sono esistenze con tante vittorie e traguardi raggiunti – sai che la sconfitta è sempre dietro l’angolo. È un balance che si deve accettare e con cui bisogna imparare a convivere. In questo senso credo che lui abbia sentito la band attorno molto compatta, e noi ci siamo cementati ancora di più attorno a lui e a questa tematica e per questo ce ne sentiamo parte.»

Si potrebbe dire che c’è moltissima carne al fuoco, in un doppio album di 18 tracce dalla durata complessiva di circa un’ora, il cui contenuto rimbalza senza sosta fra i poli opposti di pop d’autore, sperimentazione e noise. Ciò lascia intendere una maggiore collaborazione in fase di scrittura. A cosa sono dovute le suddette scelte stilistiche?

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«È assolutamente così! Ogni album degli Afterhours ha avuto una genesi differente e delle persone diverse che ne sono state colonna portante, nelle varie formazioni e nei vari periodi della storia della band. Sicuramente questo periodo è già diverso da Padania, c’è stato l’ingresso di due nuovi membri (Fabio Rondanini, batteria, già nei Calibro 35 e Stefano Pilia, chitarra, dei Massimo Volume, ndr) e abbiamo trovato un nuovo assetto. Da qui si è partiti dalla struttura dell’album che abbiamo messo su io e Manuel a livello compositivo, nel senso che i brani sono quasi tutti scritti da noi due come ossatura, come spunti e talvolta come forma canzone quasi compiuta. Fabio Rondanini è stato fondamentale nel mettere la spina dorsale a questo scheletro. Un batterista è sempre la spina dorsale della band, e avendolo cambiato abbiamo sentito la necessità di cominciare proprio da lui per capire dove potevamo spingerci e che tipo di situazioni ci avrebbe offerto. Con lui abbiamo fatto una lavoro enorme all’inizio per ampliare il ventaglio di possibilità a nostra disposizione, poi a strati abbiamo lavorato aggiungendo gli altri membri, ognuno mantenendo la propria peculiarità e i propri ruoli. Abbiamo svolto sia un lavoro a distanza, perché ad esempio Stefano Pilia vive a Bologna e noi siamo di Milano, sia un lavoro d’insieme in studio. Abbiamo mantenuto l’identità di ognuno, quindi quello che tu senti di collaborativo è vero, perché abbiamo cercato di dare spazio in ogni brano a ognuna delle anime della formazione di questa band e credo che questa peculiarità sia rimasta intatta, tanto che portarla live è molto facile, basta che ognuno si riappropri della propria parte e poi si trovi la giusta amalgama mettendola insieme. È un disco che si fa suonare in maniera abbastanza naturale per come l’abbiamo concepito.»

Afterhours 04_musicaintornoCome nasce un brano al vetriolo, sia musicalmente che a livello testuale, come “Il mio popolo si fa”?

«Nasce da un mio pezzo, che è il motivo portante che si sente all’inizio e poi rimane più o meno costante in tutto il pezzo, come un mantra ossessivo. Tutta la struttura principale era in questa cellula iniziale; Fabio ha sicuramente dato una svolta fondamentale, mettendo una batteria molto granitica, molto cattiva, aggressiva e d’attacco ed è quasi al doppio del tempo del riff che avevamo ideato, che era molto macilento, largo e lento…

… Con questa batteria molto serrata il brano ha conosciuto una nuova urgenza d’aggressione, poi Manuel, facendosi ispirare da questa aggressività, ci ha messo sopra un testo molto caustico, forse il più caustico del disco, e l’unico che affronta il sociale in maniera diretta. Negli altri c’è sempre qualche sfumatura, invece qua c’è la denuncia faccia a faccia contro gli altri ma contro sé stessi. È un modo per fotografare un momento di grande decadenza di cui però ognuno di noi fa parte e deve farsi carico, e sentirsi anche responsabile. Questa è l’anima del pezzo, poi c’è stato un enorme taglia e cuci di produzione da parte di Manuel che ha innestato quella parte di pianoforte che spezza molto all’interno del brano, dandogli una struttura che nella mia cellula iniziale non c’era. Ha fatto sì che quello spunto sia diventato una canzone che, stramba quanto vogliamo, ha una forma canzone molto tipica degli Afterhours, soprattutto dei primi album, questo modo quasi beefheartiano, zappiano di comporre a sezioni in maniera un po’ sconnessa e bizzarra, avant-garde, ma molto efficace e potente.»

Nell’ultimo periodo vi siete trovate in tour nei maggiori club italiani. La dimensione live è da molti considerata l’ultima sicurezza per gli artisti, ma anche fra i grandi nomi del mainstream sembra dare segni di cedimento. Come consideri il feedback dei concerti degli Afterhours, in termine qualitativo e quantitativo?

«Molto buono sotto entrambi gli aspetti. I dati di prevendita erano già ottimi e più alti delle nostre medie dell’ultimo periodo. Adesso le previsioni si stanno confermando, perché sono quasi tutti sold out e quindi siamo molto contenti. L’accoglienza della gente è molto calorosa, si vede che c’è la voglia di abbracciarci, di sentire questi brani e ascoltare questo disco. È un concerto molto duro e impegnativo anche a livello di tensione emotiva e di concentrazione, per noi e per il pubblico. La prima parte di scaletta è veramente tosta, dura, non saprei come altro definirla, perché ha un impatto emotivo molto dark, molto oscuro, poi però si apre tanto. È una sorta di spettacolo in tre atti, nel secondo e nel terzo atto sicuramente si respira molto e si porta proprio lo spettacolo altrove, il primo è molto profondo, come l’album. C’è grandissima complicità e attenzione da parte del pubblico a seguirci in questo percorso che abbiamo voluto intraprendere e queste storie che abbiamo voluto raccontare.»

Afterhours 05_musicaintornoL’album si chiude con l’emblematica “Se io fossi il giudice”. La connessione, di riflesso, nasce spontanea: Manuel Agnelli giudice lo è stato davvero, alla scorsa edizione di X Factor Italia. Come valuti questa scelta, considerando che al tempo fu dato l’annuncio in prossimità dell’uscita del disco?

«Io ho vissuto tutto questo in primissima persona, al fianco di Manuel, e poi con lui ho proseguito anche in trasmissione, quindi sicuramente nessuno meglio di me può avere una fotografia chiara della situazione…

… La proposta a Manuel è arrivata mentre stavamo finendo di mixare il disco, non c’è stata nessuna intenzione strategica di alcun tipo. Anzi, in quel momento ci siamo un po’ spaventati perché ci siamo trovati di fronte al fatto di dover prendere delle decisioni. Abbiamo salvato tutto quello che c’era da salvare, cioè abbiamo imposto alla produzione di non muovere nulla di tutto quello che avevamo preventivato riguardo alla promozione e al tour del disco. Per quanto riguarda la scelta di Manuel, secondo me ha fatto benissimo ad occupare uno spazio vacante dove inserirsi, e la sua esperienza è stata vincente e fortunata. Serviva un personaggio così schietto, viscerale e competente per scardinare alcuni meccanismi – nel piccolo, senza esagerare. In una trasmissione televisiva, che è entertainment, non vai a distruggere una cosa del genere, però cerchi di cambiare un po’ dal basso e occupare degli spazi cercando di portare un messaggio, una visione della musica diversa e più alta.»

Rodrigo, ti ringraziamo per la disponibilità e ti chiediamo di congedarti dai lettori di Musica Intorno indicando cosa ruota fra i tuoi ascolti in questo periodo.

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«Allora, in vetta alla lista dei miei ascolti c’è sicuramente l’ultimo album di Childish Gambino, Awaken, my love!, che è veramente un discone. Un’altra cosa che mi ha impressionato – anche se su disco mi piace di meno – è un live fatto dentro una piccola libreria per il format NPR Music Tiny Desk Concert, che di solito ospita dei live in piccoli ambienti, situazioni elettroacustiche molto scarne. L’artista in questione di chiama Anderson Paak. È un batterista, cantante e rapper di un livello spaventoso, con un groove pazzesco sia nelle mani che nella voce. Il mini live di quattro pezzi, consigliatomi da Fabio Rondanini, è scioccante, fa veramente paura. Questi due sono i miei consigli del momento.»

 

 

Francesco Paladino

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